Riprendersi l’Aspromonte
(Foto di Rocco Cartisano)
di Valerio Valentini
Il 25 giugno del 2003, accompagnati da alcuni agenti delle forze dell’ordine, i familiari di Adolfo Cartisano percorsero un sentiero malmesso che dalla frazione di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, conduce ai piedi di Pietra Cappa, un monolite alto 140 metri nel cuore dell’Aspromonte. Vi si recarono per recuperare le ossa di Adolfo, rapito dalla ‘ndrangheta nel 1993 e mai più ritrovato. Era stata una lettera anonima a rivelare, dopo dieci anni, il luogo della sua sepoltura: “Sono unu ricarcereri i vostru maritu io sono difronte a diu pentitu ra me azzioni…”. La lettera, battuta a macchina in un calabrese grezzo, fu inviata ai Cartisano da “uno dei carcerieri” di Adolfo: uno ‘ndranghetista che viveva nel loro stesso paese (“quando vi vedo – scriveva nella lettera – né voi né i vostri figli oso guardarvi in faccia”) e che, colpito da una grave malattia, aveva deciso di chiedere perdono alla moglie della vittima e concederle almeno il conforto di conoscere la sorte di suo marito.
Adolfo Cartisano, da tutti chiamato Lollò, era una persona nota a Bovalino, piccolo comune della Locride. Era stato un calciatore a livello piuttosto discreto, ammirato dai ragazzi del suo paese; poi, terminata la carriera sportiva, si era reinventato fotografo. Il 22 luglio del 1993, mentre sta per rientrare nella sua casa al mare, viene rapito da un commando di ‘ndranghetisti. Insieme a lui rapiscono anche sua moglie, Mimma, abbandonata però dopo pochi chilometri, legata ad un albero. Di Lollò, invece, si perdono le tracce.
Il suo appare subito un rapimento anomalo: sorge il dubbio che, più che di una mera questione di soldi, si tratti di un regolamento di conti. Qualche anno prima, nonostante numerose minacce, Cartisano aveva deciso di non cedere alle intimidazioni della ‘ndrangheta: aveva denunciato, e fatto arrestare, i suoi estorsori. Lo aveva fatto per integrità morale, e perché era un uomo che esigeva rispetto. Un giorno, un adolescente di San Luca, attraversandogli la strada, lo aveva guardato negli occhi e aveva sputato a terra, nel centro del paese; Cartisano era sceso dalla sua auto, aveva afferrato il giovane e l’aveva portato davanti ai suoi genitori: che non si azzardasse mai più, quel ragazzino, ad offenderlo. Una concezione dell’onore e della dignità priva di ogni implicazione mafiosa, che probabilmente venne vista come un affronto da parte delle cosche locali.
Quello di Lollò Cartisano fu il diciottesimo rapimento avvenuto in poco più di vent’anni a Bovalino, una cittadina in cui persino la toponomastica ufficiosa rivela gli obbrobri di un passato molto recente: c’è un intero quartiere – quello che oggi gli abitanti chiamano, appunto, quartiere Getty – che fu edificato da ditte conniventi alla ‘ndrangheta grazie ai soldi del riscatto di Paul Getty junior. Ma stavolta la reazione della comunità non si limita alla solita indifferenza. L’ostinazione dei Cartisano porta i giovani – alcuni giovani – del paese a mobilitarsi, a richiamare l’attenzione dei media e delle istituzioni. E così, dopo il diciottesimo rapimento in un comune di circa ottomila abitanti, anche la Commissione Parlamentare Antimafia, per la prima volta, si reca sul posto. È soprattutto la figlia di Lollò, Deborah, ad animare il movimento; ogni 22 di luglio, invia ai giornali locali una lettera, pretendendo di conoscere la verità su suo padre. Ma per dieci anni non emergerà alcuna notizia. Poi, nel giugno del 2003, la confessione del carceriere, che indica il luogo in cui i resti di Lollò Cartisano sono stati sotterrati; fornisce delle indicazioni precise su come raggiungere la località (una busta di plastica attaccata ad un filo spinato, dei rami secchi di leccio tagliati con l’ascia, una grossa pietra coperta di muschio… sono alcuni degli indizi lasciati lungo il sentiero) e spiega che la morte di Lollò è stata accidentale – un colpo troppo forte dato col calcio della pistola, che doveva stordirlo durante un trasferimento verso un nuovo nascondiglio, ma che invece gli ha sfondato il cranio.
Un mese dopo, il 22 luglio, i familiari di Lollò Cartisano decidono di ripercorrere quello stesso sentiero in mezzo all’Aspromonte, facendosi accompagnare da alcuni membri dell’associazione Libera e da altri loro amici che volevano ricordare il fotografo di Bovalino ucciso dalla ‘ndrangheta. È così che nasce “Sentieri della Memoria”, il pellegrinaggio che ogni anno, il 22 di luglio, richiama centinaia di persone, che si ritrovano rievocare l’esistenza delle tante vittime della criminalità organizzata e per il piacere di trasformare un luogo snaturato dalle logiche ‘ndranghetiste in un luogo di convivialità e di impegno civile.
Io sono arrivato all’imbocco del sentiero con un pulmino, insieme ai miei compagni (sedici ragazzi e ragazze, provenienti da varie parti d’Italia) del campo estivo di Libera di Gioiosa Jonica, gestito dall’associazione Don Milani. Siamo partiti abbastanza presto da Gioiosa, e per diversi chilometri abbiamo percorso la Statale 106, col blu intensissimo dello Jonio come costante presenza alla nostra sinistra, interrotta solo a tratti dalla vegetazione e dai caseggiati delle piccole frazioni attraversate. Prima di arrivare al luogo in cui la marcia avrà inizio, l’autista dell’autobus si è fermato nel centro di San Luca: «Ultima possibilità per un caffè o per la toilette. Dopodiché – ci avverte – tutto all’aria aperta, per tutto il giorno».
San Luca, oltre ad essere il paese natale di Corrado Alvaro, è il centro nevralgico della ‘ndrangheta, il luogo in cui tutte le principali decisioni che riguardano l’organizzazione vengono prese. Nel gergo ‘ndranghetistico, San Luca è la “Mamma”, il posto in cui sono custodite le famigerate 12 tavole delle leggi, e dove si trova il santuario della Madonna della Montagna di Polsi. Tutto questo apparato di rituali rischia di non far comprendere la tragica concretezza del potere che si concentra tra i vicoli dissestati di questo paese di 4000 abitanti ai piedi dell’Aspromonte. Eppure se una nuova locale (una cosca che agisce su un territorio ben delimitato) deve aprire in Lombardia, o quali candidati sostenere alle prossime elezioni regionali, è qui che lo si decide; è da questi luoghi che si contratta con i cartelli dei narcotrafficanti sudamericani per acquistare la cocaina consumata in tutta Europa; è da questi luoghi che si impartiscono ordini ai clan di Toronto o di Johannesburg, ed è sempre da questi luoghi che si stabilisce la nomina di un sindaco alla periferia di Perth. Se si avesse una piena consapevolezza della enormità delle decisioni prese in posti come questo, forse si riscriverebbe una nuova geografia del potere. Potere che qui non ha nulla della maestosità istituzionale classicamente intesa, ma che al contrario si fa schermo della miseria di case non rifinite, di una piazza che è poco più che un parcheggio accanto ad un municipio di rara bruttezza. Un potere che a questi luoghi ha sottratto quasi ogni grazia, ogni speranza.
Il bar dove ci dirigiamo sembra piuttosto invitante. Una donna è dietro la cassa, un’altra sta spazzando il pavimento. Probabilmente è la nostra suggestione a farci percepire le cose in maniera distorta, ma quello che a me e a qualche altro mio amico sembra che accada, in pochi istanti, è questo: la donna con la scopa in mano ci sorride, poi si accorge che abbiamo tutti la stessa maglietta col logo di Libera, lancia un’occhiata interrogativa alla donna dietro la cassa e si affretta a dire che il bar è chiuso. E immediatamente il nostro autista, un po’ imbarazzato, ci chiede scusa per non essersi ricordato che il martedì – e oggi è martedì – è il giorno di chiusura di quel locale. (Più tardi, con alcuni altri compagni del campo carpiremo uno spezzone di discussione tra due degli organizzatori della marcia: l’uno domanderà all’altro come mai si sia deciso di contattare una ditta di trasporti di San Luca, e la risposta sarà: «Tranquillo, li conosco da anni: sono brave persone». Ecco, quello che mi sembra di poter capire è che in queste zone della Calabria, dire di qualcuno che “è una brava persona” significa dire qualcosa di estremamente più profondo di quanto non sia a Genova o a Pesaro. O forse no: forse l’essere brave persone, qui come altrove, significa essere onesti, rinunciare a quella arrogante furbizia molto italiana, e a quell’altra, molto italiana, tendenza a giustificare i propri imbrogli come necessari espedienti per stare al mondo; semmai, c’è da constatare che in certe zone d’Italia l’essere onesti, il decidere di esserlo, è più difficile che in altre).
In un secondo bar in cui veniamo indirizzati l’accoglienza sarà cordiale, e la cassiera si mostrerà curiosa di sapere di noi e del motivo per cui ci troviamo lì. «La marcia a Pietra Cappa» risponde qualcuno di noi. E la signora annuisce: «Già, oggi è il 22 di luglio».
La sosta dura pochi minuti, poi da San Luca ci dirigiamo verso l’imbocco del sentiero, e per farlo percorriamo una salita ripidissima: il motore del pulmino arranca, sembra sul punto di cedere all’uscita da ognuno dei tornanti che, uno di seguito all’altro, ci mostrano alternativamente, in una successione quasi estenuante, lo Jonio sempre più indistinto e la montagna sempre più incombente. Due immagini mi colpiscono più di altre. La prima è quella dei cassonetti della spazzatura crivellati da proiettili; la seconda è una vecchia vestita di nero, con il cercine e un cesto pieno di qualcosa sulla testa, in un equilibrio che sembra saldissimo, a guardare l’andatura pesante ma regolare di lei che scende verso il paese.
Il punto di ritrovo è un pianoro, da cui il monolite di Pietra Cappa, il più alto di tutto l’Aspromonte, si vede giganteggiare sulla boscaglia sottostante. In pochi minuti, lo spiazzo in cui ci siamo fermati si riempie di persone. Quasi tutti restano incuriositi dall’arrivo di un maggiolino d’epoca, giallo ocra, con delle insegne sulle fiancate e due grandi bandiere di Libera, una gialla e l’altra rosa, attaccate al paraurti posteriore. È l’auto di Mario Congiusta, che sarà uno dei primi a prendere la parola, nel raduno di partenza, dopo i saluti di Deborah Cartisano.
Mario Congiusta stringe il microfono con le sue dita nodose. Ha braccia sottilissime, della fragilità del vetro, il volto scavato: tutta la sua persona sembra ridotta all’essenziale, ma il suo sguardo rivela una vivacità acuta. Mario racconta la vicenda di suo figlio, Gianluca, giovane imprenditore di telefonia ucciso il 24 maggio del 2005, all’età di 32 anni. «La sfortuna di mio figlio è stata quella di nascere qui. Perché il suo desiderio era quello di investire nella sua terra d’origine; ma se fosse stato originario di Trento, anziché di Siderno, sono certo che Gianluca sarebbe ancora vivo». I Congiusta subirono numerose rapine, sempre puntualmente denunciate, e furono costretti a chiudere uno dei loro punti vendita. Poi il clan Costa, di Siderno, impose una tangente di mille euro al mese al padre della fidanzata di Gianluca. Lui si oppose, e andò a parlare direttamente col braccio destro del boss. Fu ucciso pochi mesi dopo, con un colpo di lupara nel centro del suo paese, mentre era al volante della sua auto.
Prima che la marcia incominci, si fanno avanti due anziani signori, marito e moglie, entrambi vestiti di nero. Scartano dei vassoi di pasticcini, ci dicono di farli scorrere tra i presenti. «È per prepararsi alla fatica » – sorride l’uomo.
La lunga fila si muove, composta da circa 300 persone, perlopiù divisi in vari gruppi ben riconoscibili: ogni associazione ha il suo abbigliamento distintivo. Se dal gruppo si eliminassero tutte queste chiazze di colore piuttosto omogeneo, non rimarrebbero che poche decine di uomini e donne: il che è indicativo di come sia ancora scarsa la partecipazione della cittadinanza locale, degli abitanti della Locride e della Calabria, se si escludono i familiari e gli amici delle vittime.
Di un’altra assenza, nel corso della marcia, ci accorgeremo: quella delle istituzioni. C’è solo il sindaco del piccolo comune di Benestare, Rosario Rocca, amministratore onesto che s’è visto bruciare più volte l’auto dalle ‘ndrine, e Celeste Costantino, deputata di SEL.
La marcia verso Pietra Cappa prevede varie soste, ognuna delle quali dedicata ad una o più vittime della ‘ndrangheta originarie della Locride. Di molte di queste vittime ci sono i nomi incisi su dei cartelli di legno piantati per terra, intorno ai quali ci si riunisce per ascoltare le testimonianze dei familiari. Di molte, ma non di tutte, e questo perché ogni volta aumenta il numero di amici e parenti che decidono di raccontare pubblicamente, e non sempre si riesce a preparare in tempo nuovi cartelli. Quest’anno la partecipazione dei familiari è stata particolarmente numerosa, secondo quanto ci dicono gli organizzatori, i quali continuano, ad ogni sosta, a ringraziare chi si è deciso a condividere con così tante persone il ricordo dei propri cari. L’insistenza con cui si sottolinea la difficoltà di parlare di un marito, un fratello, un figlio ucciso dalla ‘ndrangheta apparirebbe quasi eccessiva, se quella difficoltà non la si percepisse in tutta la sua consistenza nella voce e nei gesti di chi, di volta in volta, prende la parola.
Totò e Anna Fava – i due anziani vestiti di nero che hanno distribuito i pasticcini all’inizio della marcia – da qualche anno sono riusciti a trovare il coraggio di raccontare la storia del loro figlio Celestino, e oggi anche loro sono tra i protagonisti della manifestazione. È Totò a parlare, in un italiano un po’ forzato, mentre sua moglie gli resta affianco, in silenzio, con una posa piena di dimessa dignità. Celestino Fava, originario di Palizzi, fu ucciso la mattina del 29 novembre 1996, all’età di 22 anni. Un suo compaesano, Nino Moio, andava alla disperata ricerca di qualche suo coetaneo che volesse trascorrere un po’ di tempo con lui: forse sospettava che degli ‘ndranghetisti lo stessero cercando, e sperava che la compagnia di una terza persona sarebbe valsa a dissuadere i criminali da qualsiasi intento omicida. L’unico che riuscì a trovare, quella mattina, fu Celestino. E poche ore dopo, entrambi vennero assassinati, l’uno a pochi metri dall’altro, a colpi di fucile. Per i dodici anni successivi, Totò e Anna Fava rimasero chiusi nella loro casa: uscivano solo per brevi visite alla tomba del figlio. «Nel 2008, dopo una serie infinita di tentativi, li convincemmo a partecipare ad una manifestazione pubblica in ricordo di Celestino – ci spiega Luca, uno dei dirigenti dell’associazione Don Milani di Gioiosa Jonica – Essere riusciti a trascinarli fuori di casa, dopo dodici anni, fu una delle vittorie più belle. Quando arrivammo nella piazza principale di Palizzi – aggiunge – Anna disse semplicemente: “Non c’ero più stata”. Ed era la piazza principale del paese in cui aveva sempre vissuto».
Quella di Totò e Anna Fava è la più scioccante, ma non certo l’unica delle storie delle famiglie sconvolte dagli omicidi di ‘ndrangheta che si chiudono nel silenzio. Qualcosa di simile è capitato alla famiglia di Giuseppe Tizian, un bancario di Bovalino che, forse per non aver voluto agevolare alcune pratiche, la sera del 23 ottobre del 1989 venne ucciso mentre tornava a casa, lungo la Statale 106. La sua ex moglie, Mara, e il loro figlio, Giovanni, decisero di trasferirsi a Modena, per fuggire dalla paura e dalle voci che, come spesso accade in casi del genere, cominciarono a diffondersi in paese, e che dicevano di un delitto passionale, di un affare di femmine. Solo nel 2008, proprio qui, a Pietra Cappa, Giovanni Tizian deciderà di raccontare pubblicamente, per la prima volta, la vicenda di suo padre.
«È bello pensare che proprio questi luoghi, che hanno visto le ultime ore della vita di mio padre – dice Deboah Cartisano, parlando al microfono – possano essere un momento di rinascita per altre famiglie. Mio padre ne sarebbe contento, lui che proprio di questi posti era innamorato, che veniva a fotografarli ogni domenica. L’Aspromonte – ripete – non è della ‘ndrangheta».
E in effetti a me l’Aspromonte sembra innanzitutto un luogo bellissimo. È bellissimo, ad esempio, come la vegetazione cambi velocemente: salendo verso San Luca, gli uliveti e i fichi d’india hanno lasciato spazio a campi di frumento; da quando abbiamo imboccato il sentiero sterrato, abbiamo incontrato querce, frutteti (su un pianoro c’erano degli alberi di pere che hanno fatto la felicità di molti di noi), poi lecci e faggi, e più in alto, diffuse in maniera irregolare, delle chiazze di conifere. Le fiumare che solcano la montagna, precipitando verso il mare, hanno scavato delle forre profonde, che in questa stagione sono quasi del tutto secche, e si mostrano come vere e proprie voragini.
Camminare per alcune ore dentro l’Aspromonte, però, porta inevitabilmente a riflettere sul significato della parola sequestro. La suggestione, e una sorta di immaginario stereotipato, inducono a vedere la vegetazione impenetrabile dell’Aspromonte ancor più impenetrabile, la boscaglia fitta ancora più fitta e gli anfratti inaccessibili ancor più inaccessibili. In realtà, a rendere l’Aspromonte il luogo ideale per i sequestri è stata piuttosto la formidabile capacità della ‘ndrangheta di controllare il territorio. Se nel triangolo compreso tra Natile di Careri, Platì e San Luca (meno di diecimila abitanti, in tutto) negli anni ’80 si arrivavano a gestire fino a dodici sequestri contemporaneamente, nonostante la presenza di oltre mille agenti delle forze dell’ordine, è perché le ‘ndrine locali seppero coinvolgere gran parte della popolazione in quella che era una vera e propria industria. Un’industria che sembrava garantire un ritorno economico anche alle comunità locali, e che invece ha finito per mettere in fuga molta della migliore borghesia della Calabria. «Il fenomeno dei rapimenti– ci spiega una nostra compagna particolarmente preparata – durò dall’inizio degli anni ’60 ai primi anni ’90, e servì a finanziare, in maniera quasi scientifica, i progetti imprenditoriali delle aziende legate ai clan. Ma intanto la nuova classe mafiosa, giovane e spregiudicata, aveva intravisto vide nel traffico degli stupefacenti una fonte di guadagno più cospicua e meno appariscente, e così la stagione dei sequestri progressivamente si concluse. Quello di Lollò Cartisano viene comunemente considerato l’ultimo rapimento illustre di quella stagione».
Tuttavia, i casi di lupara bianca sono continuati anche negli ultimi vent’anni. Renato Vettrice, giovane operaio di Bovalino, è scomparso nel 2005; da allora non si hanno notizie di lui. La moglie Antonella non riesce a pronunciare che poche parole: ammette che la speranza di rivederlo ormai si è estinta, ma di suo marito continua a parlare al presente. «Questo è Renato Vettrice», esclama mostrandoci una sua foto.
Quello che emerge, dalle storie che sentiamo raccontare, è il fatto che molte delle vittime della mafie non sono, come spesso si è portati a pensare, delle persone che decisero di ribellarsi esplicitamente al potere delle cosche. Dell’elenco dei morti per mano mafiosa, la maggior parte è costituito da semplici persone per bene, che non volevano altro che condurre una vita serena, fare onestamente il loro lavoro. Se si sono opposti alla criminalità organizzata era solo per la volontà – viene da dire: la banale volontà – di veder riconosciuti alcuni loro diritti, di non dover rinunciare ai propri desideri.
Giuseppe Russo viene ucciso perché, poco più che ventenne, prende a frequentare una donna, della quale si innamora. Il cognato della donna in questione, però, è un boss a cui il giovane non piace, e per ribadire il suo ruolo di capofamiglia ne ordina la morte. Giuseppe viene rapito e arso vivo; del commando di ‘ndranghetisti che lo uccide fa parte anche un giovane affiliato che non ha mai usato un’arma, e che viene costretto a sparare sul corpo in fiamme di Giuseppe per ricevere il suo battesimo criminale.
È simile a quella di Giuseppe Russo la vicenda di Massimiliano Carbone, giovane di Locri che la sera del 17 settembre del 2004 viene raggiunto da un colpo di fucile mentre sta rientrando a casa. Sei giorni dopo morirà in ospedale, e le ultime sue parole saranno rivolte alla madre: «Ma’, varditi ‘u figghiolu». Solo che il figlio che la madre dovrebbe accudire, non sa di essere figlio di Massimiliano Carbone. È costretto, ignorando ogni cosa, a stare in casa di chi invece ha ordinato la morte di suo padre. Massimiliano aveva avuto una relazione con una sua vicina di casa, sposata con uno ‘ndranghetista affetto da sterilità; quando nasce il bambino, la donna accetta la decisione del marito: quel figlio sarà, per tutti, il loro figlio, e non dovrà mai vedere Massimiliano. Che pochi anni dopo verrà ucciso.
Fortunato Correale, mentre è affacciato alla finestra della sua casa a Locri, vede quattro ragazzi incendiare l’auto di un carabiniere. Convocato dagli inquirenti perché quell’incendio è avvenuto proprio sotto la sua casa, a pochi passi dall’officina in cui lui lavora come meccanico, fornisce delle informazioni circa l’identità dei criminali. E per questo il 22 novembre 1995 viene ammazzato.
Vincenzo Grasso, un commerciante che gestisce un concessionario di auto e barche, non si rassegna a pagare il pizzo alle cosche di Locri. Per sette anni, dal 1982 al 1989, ha subito una lunga serie di minacce, di richieste estorsive, di attentati. Ha sempre denunciato, e ha deciso di continuare nella sua attività a Locri. Se il 20 marzo del 1989 Vincenzo Grasso viene ucciso davanti l’entrata della sua azienda, non è perché, come recita la motivazione che accompagna la medaglia al valor civile che gli è stata assegnata dopo la sua morte, era un “commerciante impegnato nella lotta alla criminalità organizzata”; Vincenzo Grasso era soltanto un commerciante che voleva vivere onestamente dei frutti del proprio lavoro, senza svenderli a nessuno. Se viene ucciso, è piuttosto perché a Locri, in quegli anni, era uno dei pochissimi a intendere in quel modo il suo ruolo di imprenditore e di cittadino. Le mafie non possono uccidere una massa di persone che non si piegano alla loro forza: colpiscono invece le poche eccezioni, che proprio perché tali sono facili obiettivi.
Anche Carmine Tripodi, brigadiere di stanza a San Luca, viene ucciso non perché abbia tentato di fare la guerra alle ‘ndrine, ma soltanto perché era un bravo carabiniere. «Eppure qualcosa doveva aver scoperto, qualcosa di grave, se è stato ammazzato» – afferma qualcuno nel nostro gruppo. E Francesco, il presidente dell’associazione Don Milani di Gioiosa, risponde che “scoprire qualcosa di grave”, non è altro che il lavoro di un brigadiere.
Ma le storie di ‘ndrangheta che ascoltiamo non sono solo storie locali. Molte di esse permettono di intercettare, nelle vicende apparentemente periferiche della Calabria Jonica, degli eventi di portata molto più vasta. Demetrio Quattrone, ispettore del lavoro a Reggio Calabria, viene ucciso – insieme con Nicola Severino, che si trova casualmente con lui in macchina al momento dell’agguato – il 29 settembre 1991. La sua condanna a morte è maturata, con ogni probabilità, a seguito del suo rifiuto di avallare alcuni progetti imprenditoriali avanzati da quello che lui definiva “il partito dei palazzinari che governa la città”. Non è ancora stata fatta chiarezza sull’uccisione di Demetrio (e questa è una triste costante, negli omicidi di ‘ndrangheta: molto spesso i parenti non sanno esattamente perché un loro familiare è stato ucciso, né chi è il responsabile della sua morte); però qualche mese fa, ci racconta sua figlia Rosa, si è scoperto che, a seguito di un suo diniego rispetto a una pratica irregolare, venne bloccata, per alcune settimane, la costruzione del Gasdotto Mattei che collegava Italia e Algeria. Demetrio ricevette la telefonata dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che gli chiese se davvero, per una semplice irregolarità burocratica, avesse intenzione di interrompere un progetto così importante. «A me compete solo stabilire – sembra che abbia risposto l’ispettore del lavoro Demetrio Quattrone – se certe procedure sono valide o meno. Si risolvano questi problemi e il progetto andrà avanti».
La marcia intanto prosegue con un’andatura piuttosto irregolare, e la fila si frammenta e si ricompatta a seconda delle caratteristiche del percorso. Tutto ciò contribuisce a dilatare i tempi, ma permette anche di incrociare persone diverse, conoscerle e fare con loro una parte del cammino. In corrispondenza di un fiumiciattolo da attraversare, ne approfitto per affiancare Danilo, un giornalista di trentasette anni, che proprio ieri è venuto a trovarci, nella sede del Don Milani, per raccontarci alcune storie di ‘ndrangheta e spiegarci l’infiltrazione della cosche nel territorio di Roma. Danilo è anche uno degli ideatori di daSud, un’associazione fondata nel 2005 da alcuni ragazzi calabresi che hanno deciso di elaborare metodi innovativi per parlare di mafie ad un pubblico che fosse il più ampio e trasversale possibile.
«Se ci pensi – mi spiega Danilo – quello dell’antimafia è un linguaggio che fa un’enorme fatica ad imporsi come linguaggio di massa. E questo perché, troppo spesso, da parte di chi racconta la realtà delle organizzazioni criminali, non viene data la giusta attenzione all’aspetto estetico della narrazione: non ci si preoccupa di rendere quella narrazione fruibile. Per anni la storia di mafia per eccellenza è stata quella di Giovanni Falcone: una storia che era talmente potente di per sé che non aveva bisogno che chi la raccontasse fosse un divulgatore particolarmente bravo. Ma questo non vale per la maggior parte delle storie di mafia, che molto spesso sono meno sensazionali, e trovano difficoltà ad essere apprezzate, a fissarsi nella memoria di chi le ascolta».
Anche la Locride, però, conserva una storia di antimafia che, nella sua tragicità, ha una bellezza quasi mitica, e che ci viene raccontata nel corso della marcia. È la storia di Rocco Gatto, ed è una storia bella per vari motivi: perché bella era la personalità del protagonista, e bella è anche una certa Italia del ‘Novecento che si lega a questa vicenda.
Rocco nasce, primo di quindici figli, nel 1926, in una famiglia di Gioiosa Jonica. Suo padre, Pasquale, è un comunista convinto, che rifiuterà di iscriversi al Partito Nazionale Fascista. Sin da bambino, Rocco lavora insieme a suo padre, in un mulino di Gioiosa del quale, nel corso degli anni, riuscirà a diventare proprietario. Anche Rocco è comunista, e coltiva una passione particolare: quella per gli orologi antichi, che lui stesso ripara e conserva nel suo mulino.
Siamo all’inizio degli anni ’70, e a Gioiosa la cosca egemone è quella degli Ursini: i quali, non appena Rocco Gatto diventa titolare della sua attività, cominciano ad intimorirlo con richieste estorsive e minacce. Lui si oppone alle intimidazioni, anche quando gli Ursini gli incendiano il mulino, con dentro i suoi orologi, e denuncia ogni volta.
Ma negli anni ’70, Gioiosa Jonica è anche una comunità caratterizzata da un forte attivismo sociale, un laboratorio politico che, nell’indifferenza pressoché generale del resto d’Italia, si dimostra all’avanguardia su molte battaglie civili. È a Gioiosa che il 27 dicembre 1975 viene indetto il primo sciopero di massa contro la criminalità organizzata. E soprattutto, nella Gioiosa di quegli anni, le tre autorità che tradizionalmente incarnano l’anima rurale dell’Italia, sono rappresentate da tre persone straordinarie. Il sindaco è Francesco Modafferi, maestro elementare e dirigente locale del PCI, animatore di molte battaglie contro la ‘ndrangheta; il prete, don Natale Bianchi, mobilita gran parte della parrocchia nella lotta per i diritti civili e per la legalità, fino a litigare col clero locale; e poi c’è il capitano dei carabinieri, Gennaro Niglio, un uomo inflessibile nel combattere le cosche.
Il 6 novembre del 1976, durante una sparatoria con le forze dell’ordine, resta ucciso Vincenzo Ursini, reggente dell’omonimo clan. Il giorno dopo, come ogni domenica, a Gioiosa Jonica giungono commercianti ambulanti e visitatori da tutta la provincia di Reggio, per partecipare ad uno dei mercati di piazza più noti della Locride. Gli uomini degli Ursini bloccano i commercianti alle porte del paese, impongono la serrata a tutti i negozi. L’intero paese deve restare in lutto e rendere omaggio al boss ammazzato. Quando i carabinieri intervengono a ristabilire l’ordine, l’unico che decide di denunciare quanto ha visto è Rocco Gatto, che testimonierà anche durante il processo. E se la ‘ndrangheta di Gioiosa Jonica aveva sopportato le precedenti disobbedienze del mugnaio comunista che si rifiutava di pagare il pizzo, non può ammettere che si ribelli in maniera così sfrontata su una questione che riguarda l’intero paese. La mattina del 12 marzo 1977, mentre sta guidando il suo camioncino, Rocco Gatto viene raggiunto da tre colpi di lupara, e muore.
La vicenda che riguarda Rocco Gatto, però, prosegue dopo la sua uccisione; ed è anzi soprattutto quello che avviene dopo che rende questa storia di antimafia una storia bella. Nel 1978 il comune di Gioiosa si costituisce – ed è il primo caso assoluto in Italia per fatti di mafia – parte civile nel processo contro gli assassini di Gatto. La sezione locale del PCI richiama l’attenzione dei dirigenti nazionali, la stampa si interessa del caso: arriverà la lettera di Enrico Belinguer a Pasquale Gatto («La vita, politica e privata, la coerenza democratica, il rigore personale di Rocco, che viveva del suo onesto lavoro di mugnaio, erano una sfida all’ordine mafioso e alle sue regole barbariche alle quali egli rifiutava di sottostare …»), arriverà addirittura Sandro Pertini, a Gioiosa, a consegnare ai Gatto la medaglia d’oro al valor civile alla memoria di Rocco. Nello stesso 1978, artisti locali legati al PCI, insieme a dei colleghi della CGIL milanese, realizzano un’enorme murale sulla facciata del teatro di Gioiosa Jonica, in Piazza Vittorio Veneto. «Venne chiamato il quarto stato dell’anti-‘ndrangheta – racconta Danilo – E se oggi, arrivando nel centro di Gioiosa, è inevitabilmente la prima cosa che cattura la vista dei visitatori, è grazie al fatto che nel 2008 molti degli artisti che trent’anni prima avevano creato quel murale si sono ritrovati, nella stessa piazza, per restaurare il disegno e i colori che, insieme alla memoria di Rocco Gatto, stavano sbiadendo».
Nel frattempo, dopo quasi cinque ore di cammino intermittente, siamo ormai vicini al luogo in cui furono ritrovati i resti di Lollò Cartisano, e cioè un piccolissimo spiazzo situato lungo un dirupo, proprio alla base di Pietra Cappa. Per arrivarci, dobbiamo attraversare il letto di una fiumara, e poi imboccare un sentiero scosceso, che è stato reso appena praticabile proprio per raggiungere la meta della marcia, ma su cui comunque bisogna procedere con grande prudenza. In fondo c’è una recinzione, una croce di ferro che mostra i primi segni di ruggine, e una lapide su cui è riportata la data di nascita di Lollò Cartisano. Ai piedi della lapide, dei sassi colorati, con delle frasi di dedica, sono il segno dell’arrivo dei partecipanti alla marcia degli ultimi anni.
Nel recinto si entra a piccoli gruppi. Non si può sostare che per qualche secondo, poi bisogna far posto ad altri e risalire lungo lo stesso sentiero, in un lento avvicendarsi di facce piuttosto segnate dalla fatica e da una certa gravità del momento che è inevitabile avvertire. L’unico che resta fermo, sul ciglio del dirupo, è un poliziotto, alla cui figura asciutta la divisa sembra attribuire un rigore sopportato a fatica. Ci guarda sfilare silenziosamente, con un sorriso complice ma un po’ enigmatico sulla sua faccia che – non si può fare a meno di constatarlo – è inequivocabilmente calabrese. «Dev’essere lui il poliziotto che era presente al ritrovamento dei resti di Cartisano, che ha scavato per primo», sento vociferare qualche minuto dopo, quando ci fermiamo su un pianoro erboso, dove viene celebrata la messa in ricordo delle vittime.
Alla messa non partecipano tutti: circa una metà di noi si apparta sotto l’ombra di alcuni lecci, qualche decina di metri più a valle. È la rappresentazione plastica delle due anime maggioritarie dell’antimafia italiana: una componente laica, riconducibile soprattutto al movimentismo di sinistra e ai circoli ARCI, e una componente che in realtà ha un’identità politica abbastanza variegata, ma che si coagula intorno ai valori della Chiesa cosiddetta progressista. Sono due culture che solo raramente entrano in conflitto (pochi giorni fa a Reggio Calabria si è svolto il Gay Pride, e le opinioni al riguardo, tra alcuni dei presenti, sono piuttosto discordanti) e che talvolta si sopportano a fatica, specie tra i più giovani, ma che perlopiù si saldano intorno ai temi comuni della legalità e dell’umanitarismo.
La messa dura poco più di una mezz’ora; poi, in ordine sparso, torniamo verso il luogo da cui la marcia ha preso avvio. Il cielo, che per tutto il giorno è stato coperto, ora tende decisamente al tetro, e una nuvola nera investe metro a metro Pietra Cappa. Risaliamo sui vari mezzi – stavolta mi ritrovo sul pulmino del Don Milani, guidato da Francesco – quando ormai sono le sei del pomeriggio, e comincia a cadere qualche goccia di pioggia. Uscendo dalla zona in cui la boscaglia è più fitta, un tornante ci immette di colpo su un falsopiano che costituisce una terrazza sulla vallata sottostante, ancora illuminata dal sole. Francesco rallenta, abbassa il volume dello stereo, e apre le braccia, quasi a ridonarci alla vista dello Jonio. La bellezza del panorama che ci si para di fronte non sono in grado di descriverla.
Bellissimo articolo