Il mio amico novecentista – In memoria di Francesco Maria Biscione

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di Ludovico Cantisani

Interagire con Francesco Biscione ti metteva ogni volta faccia a faccia con la questione della sottile differenza che corre tra l’impressione e l’espressione. Curatore nel 1993 della prima pubblicazione ed edizione critica del Memoriale di Aldo Moro fortunosamente rinvenuto a Milano nel covo brigatista di via Monte Nevoso, Francesco Biscione ha scritto libri essenziali per lo studio del caso Moro come Il sommerso della Repubblica, e ha fatto parte tanto della celebre Commissione stragi quanto della commissione parlamentare dedicata allo studio del dossier Mitrochin sulle attività del KGB in Italia durante la guerra fredda. Sulla carta, Francesco era uno dei più accreditati studiosi del caso Moro, e del rapporto tra potere pubblico e potenze sommerse durante la Prima repubblica italiana. A parole, nell’espressione verbale non meno che nell’impressione che lasciava ai suoi interlocutori, si trovavano annidate tutte le tensioni, le inquietudini e gli interrogativi di almeno mezzo secolo scorso – una Storia labirintica d’Italia dal dopoguerra ad oggi.

L’elemento centrale del rapporto che personalmente avevo con Biscione – e, da quello che so, questa affermazione potrebbe essere ratificata da qualunque interlocutore Francesco avesse avuto negli ultimi anni di vita – era il dialogo. Francesco Biscione scriveva poco, ma parlava moltissimo, e il timore che di fronte all’irreparabilità di questa perdita forse non solo io ho è che non tutte le intuizioni di Francesco sulla storia e sulla cultura italiana siano state materialmente messe per iscritto in tempo, affidate alla pubblicazione di un articolo o anche solo alla permanenza su un computer o hard disk – a futura memoria.

Un’idea spaziale della cultura, e la sua concreta e quotidiana applicazione, è senza dubbio uno dei maggiori lasciti che di lui mi rimangono. Al di fuori di ogni accademismo, e della condizione – non ho mai appurato quanto scelta o quanto fortuita – di non essere mai stato titolare di alcuna cattedra, Francesco Biscione aveva trovato la sua dimensione all’interno della redazione della Treccani – non per nulla, un’Enciclopedia, e non per nulla lo studio dove solitamente accoglieva i visitatori era tappezzato in ogni spazio disponibile da una scaffalatura ricolma di libri. Non c’era tema su cui lui non sapesse offrire una prospettiva insolita, una connessione sorprendente, delle volte vertiginosa. Il caso Moro era solo una delle tante linee carsiche che attraversavano la sua mente: i veri fil rouge del pensiero di Biscione, che si ritrovavano anche quando la sua riflessione si rivolgeva ad altre tematiche e questioni, erano il rapporto tra pubblico e privato, tra cerimoniale e discrezionale, tra occulto e manifesto, tra gioco delle parti e coup de main se non coup d’État, tra dichiarazione e understatement. Di nuovo, tra impressione ed espressione.

Isaiah Berlin divideva i pensatori in ricci o volpi: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Biscione era un riccio nello scrivere e una volpe nel parlare. Accanto al caso Moro in tutte le sue implicazioni storiche, politiche, sociologiche e filosofiche, un ruolo non meno importante aveva giocato un’analisi del crollo della centralità dello storicismo di Benedetto Croce all’interno del sistema culturale italiano, e negli ultimi anni, accanto ai lavori per la pubblicazione del saggio Dal golpe alla P2. Ascesa e declino dell’eversione militare 1970-75 uscito con Castelvecchi nel 2022, si era molto concentrato sulla lettura che Leonardo Sciascia aveva dato, della figura di Moro non meno che della Democrazia Cristiana in quanto tale, tra il romanzo Todo Modo, l’“opera di verità” L’affaire Moro, e le successive interviste e dichiarazioni pubbliche negli undici anni che trascorsero tra il rapimento e l’omicidio dello statista pugliese e la morte, nel 1989, dello scrittore siciliano.

Che uno storico nato nel 1954, e pertanto ventenne nel cuore degli anni settanta e della deriva che la Contestazione studentesca aveva a quel punto preso, concentrasse le sue energie attorno alla triade composta da Aldo Moro, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia di per sé non era certo una sorpresa. Ma accanto a questo nucleo finale delle riflessioni di Francesco su uno dei decenni più complessi della storia d’Italia nel dialogo con lui era fatale trovarsi a scomodare i massimi sistemi: il dibattito – tanto storico, e conclusosi, quanto filosofico, forse ancora aperto – tra comunismo e capitalismo, l’eterna lotta tra il materialismo e la metafisica, tra auto-narrazione politica, engagement intellettuale e verità letteraria, verità della letteratura in quanto tale. E su Sciascia non meno che su altre figure le analisi di Biscione nei suoi ultimi anni avevano un che di derridiano: studiava i politici, gli scrittori e le loro rispettive figure storiche alla ricerca del limite, del punto di fuga, della lettura in contropelo che se ne poteva dare. Era arrivato ad approfondire le carte della prigionia di Moro con un passato di militanza nel PCI e di studi gramsciani – negli ultimi mesi di vita era letteralmente incazzato con Sciascia per i limiti della lettura che dava di Moro. Francesco aveva inseguito per anni certe intuizioni su Pasolini che solo parzialmente ha avuto il tempo di mettere per iscritto – penso ad esempio alla circostanza dell’unica foto che ritraeva Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro assieme, alla première veneziana de Il Vangelo secondo Matteo; da Biscione messa in relazione col fatto che Moro fu l’unico di tutta la classe politica democristiana l’unico a porre le condoglianze a Susanna Pasolini, dopo l’efferato omicidio del figlio la notte del 2 novembre 1975; e a una rara foto di Laura Betti coinvolta nelle manifestazioni di piazza per chiedere la scarcerazione di Moro prigioniero politico delle Brigate Rosse.

Biscione e il cinema – fin troppe volte abbiamo parlato di Todo modo, della transizione dal libro di Sciascia al film di Petri, del carico di fantasmi e di quello stigma di maledizione che la pellicola avrebbe portato con sé, una distopia narrativa che arrivò nelle sale con così poco preavviso sul futuro reale — mancava solo la pandemia, nel 1978, per rendere veritieri gli incubi congiunti di Petri e di Sciascia. Una delle ultime cose di cui abbiamo parlato era la recente pubblicazione di un testo teatrale inedito di Elio Petri, Giacobbe, sospeso tra il richiamo a Walser, i riferimenti a Kafka, un metatesto che guardava al Salò di Pasolini e un sottotesto che implicava una raffinatissima analisi psicoanalitica del sadomasochismo. La multiforme trattazione teatrale e cinematografica del caso Moro era uno dei temi più ricorrenti nelle nostre conversazioni, soprattutto dopo la sua consulenza allo spettacolo di Fabrizio Gifuni Con il vostro irridente silenzio e la successiva realizzazione della serie di Marco Bellocchio Esterno notte, con lo stesso attore richiamato a vestire i panni di Aldo Moro per la terza volta dopo la pièce teatrale e Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Ma resta forte nel mio ricordo la passione con cui Biscione analizzò un film quasi perduto del cinema italiano come Il Generale dell’Armata Morta di Luciano Tovoli, tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Ismail Kadaré – e nelle settimane folgoranti della mia vita in cui a diciassette o a diciotto anni andavo alla scoperta del cinema e dell’immaginario di Lars von Trier e Terrence Malick la conversazione con Biscione si infittì alquanto — fu lui a illuminarmi sul substrato heideggeriano che soggiaceva a quei film, e sulla filosofia di Heidegger in quanto tale.

La grande letteratura europea – chiunque abbia omaggiato Biscione in questi mesi non ha potuto non ricordare la sua divorante passione per George Simenon, e per il ciclo di Maigret, ma nei nostri lunghi dialoghi la cultura nelle sue molte genealogie si ramificava e gli autori, i romanzieri e i filosofi si intersecavano, Martin Heidegger si accostava a Ernesto de Martino, Marc Bloch cedeva il posto a Milan Kundera. Non amo parlare di me, soprattutto non quando parlo di chi era al mio fianco ed è scomparso. Ma non potrò mai scordare il sentimento di ritorno da cui uscii dal nostro primo, vero dialogo a tu per tu, su tutta la storia d’un secolo e di una nazione, quando io avevo diciassette anni e, vicino al termine prematuro di una grigia esperienza liceale, non trovavo interlocutori al di fuori dei libri e dei film. Da allora decine di incontri sono intercorsi, il cinema e i suoi meccanismi finanziari mi hanno rapito portandomi in Stati sempre più lontani, ma non è un caso se durante una delle nostre ultime chiamate, mentre io ero in Albania, ancora discutevamo delle trasformazioni sociali ed imprenditoriali a cui è sottoposto quel paese in un’ottica di economia post-comunista, e se la commemorazione di Biscione presso l’Archivio Flamigni sia stata per me una ragione più che sufficiente per anticipare il ritorno da un importante viaggio di lavoro in Canada.

A dispetto della differenza d’età, il rapporto tra me e Francesco non aveva nulla di paterno – ma è quell’irripetibile fraternità intellettuale ciò che di Francesco più mi manca. Il giorno di giugno che lo chiamai dalla Sardegna, apprendendo dalla figlia del grave malore che nel giro di pochi giorni lo avrebbe condotto alla morte, lo avevo cercato per ragionare con lui sul carteggio, ancora inedito ma custodito presso l’archivio Sciascia a Racalmuto, tra lo scrittore siciliano ed Eleonora Moro, uno scambio epistolare tra la vedova dello e il romanziere durato anni. L’interrogarsi di Sciascia fu uno dei più intensi e altisonanti di un arrovellarsi comune a tutto un paese, dalle sue classi dirigenti e intellettuali fino ai comuni cittadini ed elettori, tanto più che Moro negli anni antecedenti all’agguato delle BR era stato co-protagonista con Enrico Berlinguer del Compromesso storico. È così che, non meno dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da “caso” si è trasformato in mito, mito fondativo e al tempo stesso disillusorio: un lutto nazionale si trasformava in un enigma storico, dopo che il processo alla Democrazia Cristiana immaginato da Pasolini aveva assunto le forme grottesche di un incubo quasi apotropaico, il rapimento sacrificale di un singolo che tanto lo Stato esplicito nella sua forma parlamentare quanto le potenze sommerse o nascoste che pure contribuiscono a muovere la storia del nostro paese.

Da un singolo Caso, per quanto eclatante, a tutta la storia e la controstoria del Secolo breve, perlomeno nel nostro paese: era questa l’estensione che, nell’eloquio molto più che nei suoi scritti, Francesco Biscione sapeva raggiungere nel giro di poche frasi. Di tanti incontri e discorsi questo adesso mi resta: il ricordo indelebile di un amico novecentista, e di molti mondi e tempi attraversati con lui.

 

 

Nato a Parma il 30 dicembre 1954, Francesco Maria Biscione è morto a Roma il 26 giugno 2024. Si pubblica questo testo in quello che sarebbe stato il suo settantesimo compleanno.

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