Un sepolcro come carta muta di un’esistenza. Per narrare la fusione di scrittura e vita in Mary Shelley, Esther Cross parte dal racconto di una tomba che oltre ad accogliere quel che resta della scrittrice e dei suoi genitori, dell’ultimo figlio e della nuora, racchiude anche i ciuffi di capelli dei figli morti prematuramente e il cuore del marito Percy Bysshe Shelley avvolto sul foglio della poesia Adonais in un sacchetto di seta e custodito per oltre trent’anni nel cassetto della sua scrivania. Quelle presenze imprescindibili in ogni viaggio e trasloco erano i resti parziali e anatomici della “famiglia ristretta e inanimata” che Mary portava sulle spalle. Cross riconosce in quella tomba un mezzo per narrare da un’angolazione nuova la storia privata e il contesto storico e sociale in cui Mary Shelley si formò, le vicende dei protagonisti di quegli anni che influenzarono la sua crescita intellettuale e artistica.
Cross immagina di ricomporre quelle reliquie per formare una creatura nuova, il corpo di una sorta di mostro, sul cui studio si innesta l’indagine narrativa de La donna che scrisse Frankenstein, pubblicato da La Nuova Frontiera nella traduzione dallo spagnolo di Serena Bianchi. Esther Cross, romanziera e traduttrice, fa parte della Academia Argentina de Letras e in due libri di interviste (a Adolfo Bioy Casares e a Jorge Luis Borges) aveva già rivelato una propensione a calarsi nelle vite altrui eludendo la mera vicenda biografica.
Nell’opera intende dare nuova valorizzazione a aspetti meno noti o sconosciuti della vicenda di Mary Shelley attraverso un’indagine fisica che contempla la visione filosofica della morte nella vita. Per rintracciare gli elementi che contribuirono a connaturarne il pensiero e gli ideali, si sofferma sull’educazione basata sui principi di uguaglianza e emancipazione propugnati dalla madre Mary Wollstonecraft, prosatrice e saggista, tra le prime teoriche dei diritti delle donne, autrice di Pensieri sull’educazione delle figlie (1787); Rivendicazione dei diritti degli uomini (1790) uscito in risposta a Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke; Rivendicazione dei diritti della donna (1792) il suo saggio protofemminista più noto; e racconti e romanzi tra cui spicca Mary: a Fiction, pubblicato postumo nel 1798 che definisce il matrimonio un’imposizione patriarcale deleteria. Suo padre era William Godwin, filosofo, scrittore, politico libertario britannico considerato uno dei primi teorizzatori anarchici moderni e che nel saggio Inchiesta sulla giustizia politica espresse un ideale di anarchismo filosofico diffuso anche nella produzione narrativa, nell’intento di rivolgersi a un pubblico più ampio.
Le idee politiche di Godwin ebbero un’influenza notevole in particolare sui poeti romantici Percy B. Shelley e Lord Byron. Il terreno comune di Wollstonecraft e Godwin si basava sulla concezione del danno subito dall’essere umano nell’impossibilità di esercitare la ragione di cui è dotato sin dalla nascita, aspetti che sul piano educativo sostenevano la necessità di incentivare lo sviluppo del ragionamento e di una mente vivace rispetto all’apprendimento meccanico. Come teorico della coscienza sociale, Godwin era consapevole dell’influenza delle condizioni di vita nello sviluppo infantile, per questo incitò Mary sin dai primi anni di vita a compiere viaggi immaginari, favoriti anche da prime letture come le Storie originali dalla vita vera, scritto da Wollstonecraft con le illustrazioni di William Blake. Nonostante la prematura scomparsa, la madre divenne negli anni un riferimento fondamentale per Mary, il suo pensiero rimase il metro di paragone negli anni a venire nel simboleggiare l’amore materno inaccessibile, la vivacità intellettuale, e nell’incarnare l’eroina romantica e anticonformista.
Come rivelato nella sua autobiografia, Mary trascorse l’infanzia nel luogo che rappresentò al contempo un rifugio e un’ispirazione creativa, il cimitero di St Pancras. Imparò a leggere e scrivere il suo nome ripercorrendo con le dita i caratteri della lapide di sua madre, morta per setticemia dieci giorni dopo il parto, avvenuto il 30 agosto 1797. Davanti a quella tomba Mary passava interi pomeriggi a leggere, e fu in quel luogo che architettò la fuga, appena sedicenne, con Percy B. Shelley.
La formazione intellettuale di Mary avvenne in una società maschile, era appena una bambina quando, nascosta dietro una poltrona in salotto, ascoltava Coleridge declamare la Ballata del vecchio marinaio. Poco più che adolescente partecipava ai dibattiti tra poeti, intellettuali radicali, matematici, artisti, in una casa frequentata tra gli altri da Keats, Paine, Blake, Cowper, Wordsworth, Malths, Bonnycastle e Füssli. Conosceva cinque lingue, sentiva nella scrittura l’urgenza di una pratica di libertà vissuta sin dalla prima giovinezza come spazio di evasione e visione.
“Già da bambina scribacchiavo, e il mio passatempo preferito, durante le ore che mi venivano concesse per svagarmi, era quello di «scrivere storie» – raccontò nell’introduzione all’edizione 1831 di Frankenstein –. Ma avevo un piacere ancora maggiore, che era quello di fare castelli in aria – indulgere in sogni a occhi aperti – seguire il corso dei pensieri, che aveva come oggetto la creazione di una serie di eventi immaginari. I miei sogni erano più fantastici e gradevoli dei miei scritti. In questi ultimi ero un’imitatrice – facevo ciò che altri avevano già fatto, piuttosto di metter giù ciò che la mente mi suggeriva. E quel che scrivevo era destinato agli occhi di almeno un’altra persona – il compagno e l’amico della mia fanciullezza. Ma i miei sogni erano solo miei, non ne dovevo render conto a nessuno; erano il mio rifugio quando ero di cattivo umore – e il mio piacere più caro quando ero libera”. “Non ero io l’eroina dei miei racconti. La mia vita mi appariva troppo banale; non riuscivo quindi a immaginare per me romantiche pene o eventi straordinari, ma non ero costretta alla mia vera identità, e potevo popolare quelle ore di creature ben più interessanti, a quell’età, delle mie sole sensazioni.”
Leggeva Plutarco, Goethe, Rousseau, Milton, Cervantes, Coleridge, Radcliffe, Lewis, Beckford, Richardson, Barruel, oltre ai saggi di Godwin e di Wollstonecraft. Non sarebbe potuta nascere altrove che a Londra, città a lungo odiata e da cui più volte si distaccò. Visse traumi perenni, dalla precoce perdita della madre, ai continui dissidi con la nuova moglie di suo padre, Mary Jane Clairmont, alla malattia a tredici anni costata il distacco famigliare, all’incomprensione generale dell’amore con Percy (che all’epoca abbandonò la moglie Harriet incinta del secondo figlio) con cui fuggì il 28 luglio 1814, in compagnia di Jane Clairmont, detta Claire, figlia della seconda moglie di Godwin. Nonostante le idee riformistiche e liberali anche in merito al matrimonio definito un “repressivo monopolio”, Godwin non perdonò quella fuga e non rivolse la parola a sua figlia Mary per lungo tempo. Da quel momento iniziò il periodo più intenso, avventuroso, dissoluto, nell’unione definita dalla scrittura, oscillando tra benessere e miseria, con un diario comune in cui Mary e Percy appuntavano riflessioni, emozioni, conti che non tornavano, debiti contratti nel sostenere una vita di viaggi e continui traslochi, perseguitati dai creditori e da Godwin che esigeva di essere mantenuto, anche a causa dei debiti contratti con la casa editrice Juvenile Library aperta con la sua seconda moglie.
Le nuove destinazioni, gli incontri, gli studi, la condivisione di esperienze con lo spirito indomito di una comitiva di giovani inglesi in giro per l’Italia, definirono un periodo intellettualmente vivace seppur segnato da ristrettezze economiche, nel continuo bilico tra entusiasmi e dolori.
Durante il soggiorno svizzero nel maggio 1816 nella Villa Diodati di Byron sulle rive del lago Lemano prese forma una sfida letteraria sulla scrittura del racconto più spaventoso. Il gruppo, composto da Byron, Mary e Percy Shelley, Claire Clairmont e John Polidori, trascorreva il tempo a leggere romanzi gotici, a disquisire di eventi anomali e vicende soprannaturali. Sollecitata da quell’impresa letteraria, la diciannovenne Mary concepì il racconto che sarebbe poi diventato il primo romanzo gotico di fantascienza, Frankenstein o il moderno Prometeo, che anni dopo definì “una mostruosa progenie” verso cui provava un affetto profondo perché figlia di giorni felici, quando “morte e dolore erano solo parole” che non trovavano una vera eco nel suo cuore.
Nelle suggestioni evocate dai libri di Coleridge, dall’antologia di racconti tedeschi di genere gotico Fantasmagoriana e dai saggi scientifici e di filosofia naturalistica, prese forma anche l’abbozzo di una storia divenuta un’altra opera iconica dell’horror, Il vampiro di John Polidori.
Le discussioni con gli intellettuali con i quali Mary si confrontava influenzarono la visione onirica alla base del romanzo, narrata nell’introduzione all’edizione del 1831 per spiegare l’intento di affondare nelle paure misteriose insite nella natura umana generando brividi di orrore capaci di far raggelare il sangue e accelerare i battiti del cuore.
“Vidi – con gli occhi chiusi, ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato. Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà. Doveva essere spaventoso, perché spaventoso sarebbe stato l’effetto di ogni sforzo umano di scimmiottare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. Il successo avrebbe terrorizzato l’artista, che sarebbe fuggito colmo d’orrore dall’orrido manufatto. Avrebbe sperato che, lasciata a sé stessa, la flebile scintilla della vita che aveva comunicato si sarebbe spenta; che quella cosa che aveva ricevuto un’imperfetta animazione, sarebbe tornata a essere materia inerte; e si sarebbe addormentato sperando che il silenzio della tomba avrebbe soffocato per sempre la breve esistenza dell’orrido cadavere a cui aveva guardato come alla culla della vita. Dorme; ma qualcosa lo sveglia; apre gli occhi; vede che l’orrida cosa è a fianco del letto, apre le cortine e lo guarda con gli occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”.
Frankenstein uscì nel 1818 in forma anonima con un piccolo editore, ottenendo il plauso della critica per la sua prosa audace, la forza espressiva e la capacità di indagare il significato delle esperienze dei personaggi. Arrivò persino una recensione entusiastica di Walter Scott, a cui Mary scrisse per ringraziarlo e, soprattutto, accertarsi che non permanesse il dubbio che l’autore di quello “scritto puerile” fosse Percy. Affermò in quell’occasione che si astenne dal firmare a suo nome per rispettare le persone a cui lo doveva.
Il libro generò scalpore e scandalo. Erano anni di cimiteri violati, di città sovraffollate, di tombe vuote, di studi sulle dissezioni e esperimenti con la corrente elettrica, di connivenze tra professori di anatomia e trafficanti di cadaveri, di fiere di freaks che livellavano provvisoriamente le disparità sociali nel gusto condiviso per il macabro. La biografa Fiona Sampson nel volume La ragazza che scrisse Frankenstein (trad. Eleonora Gallitelli, Utet, 2018) sottolinea che gli studi sull’esperienza umana compiuti da Kant, Schiller e Hegel avevano condotto alla rivoluzionaria rivendicazione dei diritti dell’uomo in tutta Europa, e avrebbero poi delineato alcune delle forme che può assumere la conoscenza umana. “La versione di Mary di questo Zeitgeist era nuovissima, seppur radicata nella sua formazione classica. Frankenstein ha per sottotitolo “Il moderno Prometeo”, e il mito greco del Titano che crea il genere umano in maniera quasi meccanica venne rivisitato dagli artisti romantici come storia alternativa alla creazione divina”.
Il sentimento di ingiustizia sociale influenzò l’invenzione macabra del romanzo. Nell’introduzione all’edizione Einaudi, Nadia Fusini osserva che alla genesi del romanzo concorse la tensione politica vissuta in quegli anni: “attiva nella mente di Mary è l’angoscia di una violenza che macchia la vita politica del suo paese”, con le proteste proletarie contro l’introduzione delle macchine in un clima di terrore diffuso.
In Frankenstein o il moderno Prometeo ritorna in modo ossessivo il motivo di nascita e morte che marchiò l’intera esistenza di Mary Shelley, tra gravidanze, aborti, lutti. Il grande successo dell’opera produsse una riflessione sul modo di rendere mostro l’emarginato dalla società e risente di un’inscindibilità di scrittura e vita nell’esperienza artistica dell’autrice che negli anni precedenti e successivi alla pubblicazione subì tragedie che deformarono in modo radicale la sua visione dell’esistenza. Precipitò in una profonda depressione a causa della perdita dei figli, arrivando a percepire, come confidò in una lettera a un’amica, di non sentirsi adatta a vivere: la piccola Clara, nata prematura nel febbraio 1815, morì dopo due settimane; il figlio William, nato nel gennaio 1816 morì nel 1819; la figlia Clara Everina nacque nel 1817 e morì nel 1818; solo il figlio Percy Florence, nato nel novembre 1819 le sopravvisse. Una vicenda dai contorni opachi legata alla presenza e alla prematura morte di un’altra bambina accadde a Napoli, quando nel febbraio 1819 Percy andò a registrare come figlia della coppia una neonata di due mesi che non era stata generata da Mary, morta appena quindici mesi dopo.
Gli Shelley partirono il giorno dopo l’iscrizione all’anagrafe, occasione associata nel diario della scrittrice a “un tremendo scompiglio”. Tra le ipotesi un tentativo di adozione compiuto da Percy per risollevare il morale della moglie a seguito del recente lutto, o la ricerca di protezione per una figlia avuta con un’altra donna viste le sue frequentazioni (si fece anche il nome di Claire, negato da Mary, a causa della relazione intima tra i due). All’evolversi drammatico di umiliazioni e perdite si aggiunsero altri eventi tragici accaduti in quegli anni, in particolare il suicidio della sorellastra Fanny Imlay (figlia di Mary Wollstonecraft) nell’ottobre 1816 con una dose di laudano, e la morte di Harriet, che due mesi dopo si gettò nelle acque del Serpentine. A seguito della sua morte la coppia formalizzò l’unione in matrimonio ma Mary sentì il peso di quella triste vicenda per lungo tempo, non solo per le ingiurie che le rivolse chi la riteneva indirettamente responsabile, ma per la vicinanza emotiva sviluppata nel tempo con la donna, di cui comprese la solitudine e la difficoltà a stare al fianco di un uomo come Percy, nel timore di subire la stessa sorte di abbandono.
I drammi della sua vita e le avventure straordinarie attribuirono una peculiare maturità emotiva alla giovane autrice del romanzo che, come sostiene Sampson, esplora scienza empirica e filosofia morale e compendia lo spirito inquieto e sperimentale del romanticismo cambiando il volto della narrativa in aperta sfida alle generazioni moderne. Intese ispezionare la condizione del mostro su un piano esistenziale, infatti emergono interrogativi incessanti nel romanzo per voce della creatura che si rivolge a chi lo ha generato.
Chiuso entro la mia creta t’ho forse chiesto io, Fattore, di diventar uomo? T’ho forse chiesto io di trarmi dalle tenebre?
Si insinua nei sentimenti di un’esistenza generata e rifiutata, calandosi nel suo pensiero e nel suo sentire: “Era buio quando mi svegliai; avevo anche freddo, e, per istinto, provavo un certo timore a trovarmi così solo. […] Ero un povero disgraziato, infelice e derelitto; non conoscevo né potevo capire niente, ma, sentendo il dolore assalirmi, mi misi a sedere e piansi”.
L’opera illumina paure condivise attraverso l’indagine narrativa sull’ambivalenza emotiva che il mostro suscita, sul legame con la violenza e il terrore, che tradiscono le rilevanti influenze politiche e letterarie dell’autrice, frutto di studi, accesi dibattiti scientifici e filosofici, riflessioni sul senso dell’esistere, sul rapporto con l’ignoto, sulla decostruzione dell’altrove, sul significato della creazione umana, ultraterrena, artistica, originata dal disordine.
“La capacità di inventare, bisogna ammetterlo con umiltà, non consiste nel creare qualcosa dal nulla, ma dal caos – dichiarò l’autrice –. L’invenzione consiste nella capacità di intuire le possibilità insite in un soggetto, e nella capacità di plasmare e dar forma alle idee che le vengono suggerite”.
Frankenstein subì revisioni significative, venne epurato di aspetti moralmente difficili da accettare e di riferimenti a intuizioni scientifiche superate, modifiche che l’autrice classificò come cambiamenti di stile e linguaggio “laddove era tanto crudo da interferire con l’interesse della narrazione”, sostenendo di aver preservato il cuore e la sostanza della storia. Arrivò a teatro e ottenne un successo internazionale anche nelle libere interpretazioni.
Il maggiore fraintendimento a lungo reiterato, secondo Sampson, risiede nel concepire la fantasia dell’autrice intrappolata tra i marchingegni della trasformazione fisica, invece di soffermarsi sul modo in cui il romanzo riesca a esplorare il significato e le conseguenze dell’essere un mostro, non in chiave di commedia ma di tragedia, riconoscibile sin dall’esergo. “È il grido di protesta che Adamo alza a Dio nel Paradiso Perduto, la riscrittura severa e spesso amara che John Milton fa del racconto biblico della creazione dell’uomo”.
Come sostiene Cross, Mary Shelley raccolse il testimone della resurrezione elettrica nell’indagare narrativamente quel che appariva come qualcosa di più temibile della morte: ciò che le persone facevano con essa, attraverso il nuovo valore riconosciuto al genere gotico associato al fantastico.
L’interesse del dottor Frankenstein è rivolto allo studio dei processi vitali della decomposizione per scoprire il segreto della resurrezione. Il mostro finisce per perseguitare chi lo ha creato, uccide perché non viene accettato, è perennemente alla ricerca di una vendetta e di una difesa dal dolore arrecatogli dall’esistenza altrui. Emblematico che le parole più ricorrenti siano ripugnanza, disgusto e repulsione. Secondo Marco Federici Solari tale attenzione per la ripugnanza denota un’affinità con lo scandalo. Curatore del volume I miei sogni mi appartengono. Lettere della donna che reinventò la paura, L’orma, sostiene che Frankenstein possa essere letto come un’immagine radicalizzata e ingigantita di una particolare forma di orrore sociale: lo scandalo. “L’atteggiamento dello scandalizzato è quello di chi percepisce l’alterità (dalla norma, dalla convenzione, dalla tradizione) come frutto di colpe altrui che sente potenzialmente proprie. Lo scandalo ingenera un ribrezzo che è autoassoluzione di chi lo prova”.
Mary dovette convivere per l’intera esistenza con il pregiudizio, che cercò di scardinare con opere dagli aspetti rivoluzionari, intrise di riflessioni filosofiche connesse all’idea di una sofferenza esistenziale prodotta dalla mancata accettazione sociale.
Accanto allo studio della sua opera più nota, l’attenzione rivolta ai carteggi permette di intravedere aspetti inediti della personalità e della scrittura di Mary Shelley. Pubblicate per la prima volta in italiano, le lettere rivelano la capacità dell’autrice di riservare pagine intrise di lirismo dedicate agli anni della giovinezza; ai viaggi con l’irriverente “cerchia di eletti” che marcarono aspetti decisivi nella storia della poesia; alla libertà dell’amore; all’avventura dell’esistenza; alla possibilità di narrare l’orrore, il piacere, il dolore; al racconto di un quotidiano rinnovato da nuove incognite vergato dalla ricerca di ragioni per vivere tra ristrettezze economiche, lutti, maldicenze. Un’esigenza di scrittura manifestata già nel diario, divenuto alla morte dei figli il registro segreto di un dolore inaccessibile agli altri, che anche nei carteggi dispiega i grovigli della sofferenza.
Un altro terribile evento segnò la vita dell’autrice, la tragica morte in mare di Percy a bordo dell’imbarcazione Don Juan in compagnia di Edward Williams e del barcaiolo diciottenne Charles Vivian nel luglio 1822 nelle acque di Viareggio. Memorabili alcuni passaggi della lettera a Maria Gisborne del 15 agosto 1822, che narrano i giorni precedenti e successivi al naufragio di Percy, e indugiano anche su una differenza di visione e di attitudine alla vita, persino nel modo di concepire un’isolata casa di campagna, vissuta da lui come idillio dalla bellezza disturbante e da lei come un ambiente selvatico raccapricciante.
Sul palcoscenico della mia esistenza è calato il sipario e nessun piacere accompagna la ricostruzione delle scene che hanno preceduto l’evento che ha infranto ogni mia speranza, seppure provo la necessità di farlo e obbedisco a questo impulso che incalza.
Il malessere fisico di Mary, a rischio aborto spontaneo, si accompagnava in quei giorni a un tetro presagio, che risvegliò i disturbi nervosi di Percy, preda di allucinazioni e incubi. Le descrizioni fisiche amplificavano inquietudini ignote che dalla partenza per mare di Percy, Edward e Charles seguirono un crescendo ineludibile.
In questo paesaggio assistere al tramonto, all’apparizione delle stelle e al sorgere della luna era uno spettacolo mirabile, il quale però non faceva che esacerbare la mia ansia.
Trovati in una spiaggia vicino Livorno, dopo una quarantena sotto la calce viva i cadaveri vennero cremati sul posto. Fu l’occasione per l’amico Trelawny di saccheggiare alcuni resti di Percy: si appropriò di frammenti del teschio (oggi conservati presso la New York Public Library e la Keats-Shelley House di Roma) e del cuore, che inizialmente donò a Hunt per poi cederlo forzatamente a Mary una volta scoperto.
Nel lutto Mary si appigliò al mito dell’amore perfetto con Percy. Coltivò una cieca idealizzazione romantica, lontana dalle tristi vicende reali, dai patimenti arrecatigli dal marito e dalle ingiurie che subì da vedova. Lei definì suo marito “l’eccelso e il divino Shelley”, colpevole di averla lasciata sola “su questa terra che genera erba solo per farla perire senza sosta”.
Comprese ben presto la necessità della scrittura non solo nell’elaborazione del lutto ma per la sua sopravvivenza economica e emotiva, per scuotersi da quello che definì un letargo con “le fatiche letterarie, il perfezionamento del pensiero e l’arricchimento delle idee”.
Una nuova fase marcò l’indipendenza intellettuale e esistenziale di Mary con il ritorno a Londra dopo la morte del marito e le gravi perdite subite negli ultimi anni. Visse di scrittura, di traduzione e studio, pensando anche all’educazione del figlio nonostante il peso delle continue illazioni su sue presunte responsabilità indirette per la morte di Percy e per il suicidio della prima moglie. Era costretta a firmare i racconti e i romanzi con la formula “Dall’autrice di Frankenstein”, per assicurarsi vendite e ovviare al divieto del suocero di usare il suo cognome. Trovò un espediente per scrivere una sorta di biografia di Percy, come fece suo padre con sua madre con Memorie dell’autrice della Rivendicazione dei diritti della donna (1798), ma da una prospettiva nuova.
Allo scopo di celebrare la visione rivoluzionaria e la valenza umana dell’intellettuale radicale antesignana del femminismo, Godwin pubblicò un testo frainteso nelle sue intenzioni, a quattro mesi dalla morte, con un’analisi della vita privata della donna che, nel soffermarsi sulle relazioni extraconiugali e sulla nascita di una figlia illegittima, gravò sulla fama della filosofa offuscandola per anni. In realtà l’anticonformismo rivelò un’esistenza realmente pionieristica: come scrisse Sampson, Wollstonecraft era davvero radicale intendendo il radicalismo dell’epoca non solo una scelta di vita ma una minaccia alla struttura della società civile.
A differenza di suo padre, Mary intese valorizzare la vicenda artistica e privata di Percy fornendo anzitutto un contributo essenziale allo studio della sua poetica (usando l’espediente delle note inframezzate nel testo per soffermarsi anche sulla biografia) e con l’intento di contrastare la proliferazione di quella nuova specie di vermi che “si nutrono della carcassa dello scandalo” lasciato dietro di sé e che “ingrassano con la passione del mondo per le chiacchiere”.
L’ultimo decennio di vita di Mary si consumò nelle campagne del Sussex con il figlio Percy Florence e la nuora Jane, in quella che fu la dimora della famiglia di suo marito, con crescenti problemi fisici. Pubblicò in due volumi nel 1840 e 1841 l’edizione delle prose di Shelley pensate per accompagnare l’edizione del 1839 dei versi e, a parte l’uscita di A zonzo per la Germania e per l’Italia (1844), non usciranno altri libri suoi, finendo per occuparsi esclusivamente di faccende finanziarie e domestiche fino alla malattia e alla morte per tumore al cervello il 1 febbraio 1851. Invece di essere seppellita a St Pancras con i genitori come era nei suoi desideri, furono i loro resti a essere ritumulati accanto a lei a Bornemouth per volere di suo figlio, a cui si aggiunse successivamente anche la reliquia del cuore di Percy. I figli di Mary rimasero invece sepolti senza nome a Londra e in Italia.
La riscoperta della vicenda biografica e lo studio di opere meno note come la novella semi autobiografica Matilda, il romanzo storico Valperga, le opere teatrali e i contributi critici, affrontata in particolare da Fiona Sampson permette di riconoscere il contributo di Mary Shelley come politica radicale nella promulgazione di ideali per ripensare in senso critico la società civile legittimando in particolare il contributo femminile in tale progetto di cambiamento. Rileggere oggi L’ultimo uomo, pubblicato nel 1826, il suo terzo romanzo, permette di riconoscere i luoghi cari all’autrice, come il parco vicino al quale viveva, e la ricorrenza incessante dei motivi dominanti della sua scrittura. La dorsale della sua intera produzione è il racconto di una cocente solitudine, il senso di isolamento e di rifiuto sociale in relazione a riflessioni filosofiche esistenziali, la condizione del mostro, dell’orfano e del reietto, creato e poi rifiutato. Nel romanzo dal taglio distopico L’ultimo uomo si narrano le vicende di un orfano vagabondo rimasto solo al mondo a causa di un’epidemia che sterminerà l’intera popolazione. L’opera ispeziona gli esiti dell’ambizione politica su un piano individuale e relazionale attraverso una condizione apocalittica di isolamento affrontata in misura diversa anche nell’ultimo romanzo, Falkner, che si ricollega idealmente a alcuni aspetti esplorati nel romanzo d’esordio negli interrogativi sul senso del vivere e sul rapporto con la creazione e con la morte.
Interessante osservare l’evoluzione generata dall’effetto cinematografico analizzato da Fiona Sampson: “I film di Frankenstein hanno dato vita a una progenie non meno mostruosa della creatura originaria. Sono diventati un preciso sottogenere horror, ma hanno anche fornito un terreno estremamente fertile per i remake”. “Ciò che più attrae di questo sottogenere è la sua totale inverosimiglianza. Come le “dame” della pantomima inglese – uomini che tentano di interpretare ruoli femminili ridendo della vanità dei propri sforzi – il “genere Frankenstein” deve molto alla sua implausibilità. Si tratta più che altro di sciocchezze camp che però, come è tipico del camp, aprono uno spiraglio sui nostri timori ancestrali, per poi farci correre e urlare dallo spavento. Se la dama gioca con i nostri timori sull’identità sessuale, i timori suscitati dal mostro di Frankenstein riguardano la nostra stessa natura di esseri umani. Il Frankenstein di James Whale del 1931, mal recitato da attori mal truccati su un set sontuoso, è l’epitome del camp. Eppure persino lì si riesce a far perno su sentimenti autentici: il miracolo della vita! È in questa oscillazione tra serio e ridicolo che la nostra cultura si trastulla da decenni”.
Si forma nel dolore, nella fragilità e nella necessità continua di ridefinizione nella perdita, la libertà interiore di Mary Shelley, che trasformò in pratica artistica un’esigenza di emancipazione del pensiero. La sua idea di indipendenza non poteva prescindere da una netta posizione politica in favore della libertà collettiva e individuale degli oppressi, resa anche nei carteggi nella marcata vicinanza agli slanci rivoluzionari, con particolare attenzione ai moti greci e italiani. Consapevole, come scrisse all’amico T. J. Hogg nell’ottobre 1824, che i suoi affetti fossero ormai sepolti nel passato, rinnovò l’adesione a un’idea di felicità goduta tra sofferenze e incognite riuscendo non solo a creare un nuovo genere e nuovi archetipi letterari ma a crearsi un personale e rivoluzionario spazio di scrittura. E come invita Sampson è proprio lì, negli spazi bianchi della pagina, nelle «vaste e irregolari pianure di ghiaccio» che occorre continuare a cercarla.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
