Intro
di Samir Galal Mohamed
«Purtroppo, la realtà è una congettura piuttosto plausibile»; devi averlo ammesso a te stesso mentre osservi gli altri e riconosci, in ognuno di loro, un segno del decadimento psicofisico.
Senza eccezioni, le modalità attraverso le quali siamo nel mondo rispondono a visuali prospettiche parziali, dove il necessario rappresenta la traccia cognitiva di ciò occorre accettare, brutalmente. L’universale designa una categoria vuota, vuota come una soggettività che non comprende altro da sé stessa. Solo il dolore misura, e afferra, il grado di partecipazione alla vita: la sua esclusività relazionale lo rende strumento di misurazione massimamente efficace, e atroce. Ma ispiratore, almeno.
Con la falda dell’ombrello oscuri la porzione del campo visivo aperta sulla persona che siede di lato, in terra: la rimuovi; poi rincasi, ne scrivi.
Gli aggregati che compongono il mondo degli individui sono fragilissimi, e non per le ragioni alle quali ingenuamente pensi, come l’invidia, l’avidità, la corruzione, la violenza. Sono fragilissimi per le ragioni opposte: per la presenza capillare e diversificata, diresti irragionevole, della solidarietà, della benevolenza e della misericordia; per l’esistenza di affetti come l’amicizia e l’amore; per la traduzione degli stessi in impegno sociale. Milioni di individui, ogni giorno, agiscono nell’interesse di altri. Certo si interrogano sul senso e sulle criticità del loro operare, e sugli effetti prodotti – specie nei Paesi nei quali le figure deputate all’interesse collettivo sono meno valorizzate e retribuite. E tuttavia continuano a farlo.
Per professione o parafilia, o per entrambe.
La disgregazione dei legami dipende dalla resistenza valoriale dell’altro, dall’intensità con la quale questa capacità di produzione simbolica si rinnova – e dalla capacità dei Paesi di valorizzare e retribuire coloro che incarnano questa forza lavoro. Il mondo contemporaneo non ha messo a dura prova tutto questo più di quanto non abbia fatto il mondo del passato. Evolutivamente utili e convenienti, non c’è ragione di temere una carenza globale di empatia, solidarietà e di amore. Eppure.
L’attuale circolazione del sangue non ha nulla da invidiare a quella del «senso»: se quest’ultima ha a che fare con l’elaborazione dei significati, la prima inerisce alla produzione di suoni. Tra comprensione e compressione c’è parecchia concordanza, ma nessuna epifania: solo eventi meccanici.
Un mondo autenticamente distopico dovrebbe configurarsi come un luogo pervaso dall’assenza di solidarietà; così, una letteratura che non prevede conflitto. Il motore narrativo del genere consiste nell’innesco di una resistenza a una certa realtà; ciononostante, la distopia in letteratura presenta una casistica tanto ampia quanto non pienamente realizzata: le figure che le animano lottano dall’interno di queste, contro di esse, e lo fanno in quanto prodotti dell’umanità. Allo stesso modo, nella storia dell’umano, nei fatti che hanno composto e compongono il mondo, anche le peggiori distopie hanno presentato anticorpi: le hanno combattute, corrette, stravolte e sconfitte. Il peggiore dei mondi possibili è quello al cui interno risulta ancora una presenza umana, ma inconsapevole della propria condizione, del proprio ruolo o funzione: semplicemente vive; uno scenario pensabile soltanto a partire dalla sparizione dei più elementari moti cognitivi, affettivi e relazionali. Questa presenza non potrà essere valutata in termini di umanità perché avrà perduto, insieme alle complesse trame culturali che produce, ciò che la qualifica come tale.
Per chi legge infine, sarebbe di fatto impossibile riconoscere un’autorialità, ancorché residuale. Ci siamo, o quasi.