Ho amici dappertutto
“Il prodotto della tua alienazione è la distruzione generale. Ne sei complice. Puoi scegliere fin quando puoi continuare a nutrire la distruzione, o se ne hai avuto abbastanza. Finché non sarà troppo tardi anche per scegliere.”
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Per la senatrice Mon Mothma non ci sono dubbi: è genocidio quello avvenuto su Ghorman, con l’assassinio di centinaia di civili inermi intenti a protestare contro l’Impero. Il discorso della senatrice è commovente e risuona in noi in ogni sua frase, specie nel riferimento ai mostri cui affidiamo il potere di controllare le nostre vite ogni volta che rinunciamo alla verità. Ma quale verità?
Dopo aver raccontato la dittatura e l’alienazione nel corso della prima stagione (“Il prodotto della tua alienazione è la distruzione generale”), nella seconda stagione Andor diventa un thriller e una spy story a tinte fortemente politiche. Continua a essere la versione adulta e sporca di Star Wars, instillando il dubbio, in parte legittimo, che sia un thriller che usa Star Wars come skin, come sfondo per raccontare una storia particolarmente cruda di guerra e ribellione. Ma non è così.
Prima della trilogia prequel, oggi ampiamente riabilitata nell’anniversario dell’uscita di Revenge of The Sith (2005), nessuno avrebbe mai pensato a Star Wars come a una storia fatta di politica ed economia, oltre che di spade laser e combattimenti spaziali. Da allora – ma forse già da prima, con l’Universo Espanso composto da romanzi, fumetti e videogiochi – abbiamo visto le storie di Star Wars declinate in ogni verso. Sì, è strano pensare che Andor, Ahsoka, Rebels, Solo, The Acolyte, The Clone Wars, Obi-Wan Kenobi, The Bad Batch, The Book of Boba Fett, The Mandalorian, Skeleton Crew, le tre trilogie e tutti gli altri prodotti a tema Star Wars facciano parte dello stesso canone. Ma forse è la cosa più interessante venuta fuori dall’universo ideato da George Lucas dal 1977 in poi: una storia infinita, infinitamente declinabile secondo i codici di fantascienza, fantasy, tragedia, western, commedia, favola, epica, spesso mescolati tra loro.
L’idea di canone è peraltro controversa quando si parla di Star Wars, in quanto legata all’acquisizione del franchise da parte di Disney nel 2012. In precedenza, le storie della famiglia Skywalker e compagnia erano un territorio di sperimentazione molto libero, affidato anche ai fan. È su questo terreno che la gestione Disney ha arrancato finora, cercando di replicare la versatilità e la polifonia che venivano fuori spontaneamente dal racconto “disordinato” ma appassionato dell’allora Guerre Stellari facendo tutto da sola. Ne è venuta fuori una pianificazione incerta, con prodotti di qualità discontinua.
In questa confusione ormai più o meno conclamata, Andor ha rappresentato sicuramente una garanzia per tono, scrittura, coerenza visiva e narrativa. Non una slabbratura, non un cedimento né il minimo tentativo di ammiccare al fan service che spesso ha affossato altri prodotti LucasFilm negli ultimi anni. Merito dell’attenzione e dell’amore da parte del suo autore, Tony Gilroy, cui si deve anche il riuscito Rogue One. Gilroy ha saputo tenere insieme tutti gli aspetti che caratterizzano Star Wars, perfino la Forza (con la guaritrice che appare nella seconda stagione), in un racconto teso e drammatico che ha pure il pregio di risuonare in noi per i richiami all’attualità fuori dallo schermo. Ma più che di attualità, si tratta di elementi archetipici che sentiamo nel profondo quando si parla di democrazia, libertà, dittatura.
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Dopotutto, Andor è la storia dell’inizio della caduta di un Impero fondato sullo sfruttamento e sulla supremazia tecnologica, una democratura – diremmo oggi – che non ha timore di schiacciare ogni tentativo di sollevazione popolare nel sangue quando la macchina della propaganda e della manipolazione si inceppa. Questo Impero è la Macchina, che utilizza ogni possibile dispositivo (militare, tecnologico, burocratico e mediatico) per imporre la sua influenza su tutta la galassia; è una struttura anonima e alienante, al cui interno vivacchiano centinaia di migliaia di sottoposti che agiscono in buona fede (i kafkiani Syril Karn e Dedra Meero, chiusi in un amore che definirei tossico, se l’aggettivo non fosse così abusato) che a loro volta scoprono di essere il classico ingranaggio in un meccanismo più grande, di cui ignorano estensione e obiettivi reali. La schiavitù, lo sfruttamento delle risorse naturali, il razzismo e la guerra non sono effetti collaterali, ma elementi imprescindibili affinché l’imperialismo galattico si affermi dappertutto nella sua forma più compiuta.
Dall’altro lato non abbiamo i ribelli per come li abbiamo conosciuti nel 1977, ma una serie di insurrezioni che poi confluiranno nella celebre Alleanza Ribelle. Gruppi e gruppuscoli paramilitari e paranoidi, alcuni più violenti (Saw Gerrera), altri machiavellici e attendisti (Luthen Rael, e con lui Cassian e compagnia), altri ancora decisamente ingenui e manipolabili (i ribelli di Ghorman, a metà tra resistenza francese e dissidenza antisovietica). Tutti questi pezzi di ribellione sono tenuti insieme dal senso di ingiustizia e al contempo separati da visioni politiche differenti, come da rancori e questioni personali che spesso hanno la meglio. Tutti i ribelli, in ogni caso, si affidano alla tecnologia per combattere l’Impero, quella bellissima tecnologia retrofuturistica e analogica tipica di Star Wars, che qui è fatta soprattutto di cimici e messaggi cifrati, cavi, bottoni, circuiti bruciati, droidi da rimettere in sesto e codici da mandare a memoria.
Come nel film La conversazione di Francis Ford Coppola (1974), questa tecnologia fa di chi la utilizza un paranoico che teme – a ragione – di essere costantemente manipolato a sua volta, e dunque di scoprirsi del tutto assimilabile agli strumenti che utilizza per ascoltare gli altri. A partire dalla povera Kleya Marki, molti dei personaggi di Andor ricordano in effetti il monomaniaco Harry Caul interpretato da Gene Hackman nel film di Coppola: con la differenza che mentre Caul agisce disperatamente da solo, i protagonisti di Andor agiscono sospettosamente e tragicamente in compagnia.
La frase ricorrente nella serie – “Ho amici dappertutto” – è tanto un messaggio in codice che il rovescio un po’ ironico della medaglia: in Andor tutti sono potenziali spie, traditori, disertori e doppiogiochisti. L’idealismo è consumato dalla militanza, la solidarietà dalla speranza che tante volte viene invocata a vuoto nei discorsi sulla rivoluzione. Sopravvivere è fondamentale fin tanto che c’è da combattere, ma dopo? E per chi, e per cosa si combatte? Sullo sfondo, la consapevolezza intima della fine di tutto (“Finiremo entrambi impiccati”, dice Luthen a Cassian in una delle ultime puntate). Anche chi è all’oscuro della costruzione della definitiva arma di distruzione di massa – la Death Star – è come contagiato dalla sua anima perversa. Basta premere un pulsante, basta che chi sa parli con le persone giuste (ma sono tutte sbagliate), basta anche solo lasciare un canale di comunicazione aperto per errore, affinché tutto scivoli sul piano inclinato della guerra totale e della completa devastazione della galassia.
Quando Andor e Rogue One finiscono, allora inizia Star Wars. Inizia la battaglia vera, quella in cui è un po’ più chiaro chi sono i buoni e i cattivi. Ma solo perché quella battaglia si è tenuta ed è stata vinta davvero “tanto tempo fa”, in una galassia che inizia a diventare davvero “lontana lontana” (il 1977). Chi sarebbe disposto a sostenere oggi una rivoluzione così violenta, sporca e sanguinosa, con tanto di stupri, depressioni e fucilazioni di massa? E chi, al contrario, non proverebbe la tentazione di cedere al quieto sogno di ordine, sicurezza e identità promesso dall’Impero? Chi avrebbe la pazienza di scavare a fondo fino a chiedersi chi agisce in nome di cosa, e se non c’è della superstizione negli algoritmi che muovono droni, droidi e gigantesche astronavi nei nostri cieli, a sorvegliare i migranti illegali piegati nei campi di lavoro che si rincorrono identici fino all’orizzonte?
Ma tutte queste domande non sono mai esplicite, non arrivano mai a sabotare la visione di Andor, che evita di cadere nella trappola nel didascalismo militante per restare invece pura messinscena, come dovrebbe essere, anche quando a schermo non c’è poi molta azione. D’altra parte anche la danza è azione. Nel finale dell’episodio Harvest, il ballo solitario e disperato della senatrice Mon Mothma è un capolavoro di dramma politico e personale: le acconciature, i colori, i vestiti, i movimenti, l’elettronica inusuale per Star Wars e il montaggio alternato con le lacrime di Cassian per ciò che resta dei suoi amici ribelli, mentre sappiamo che la stessa Mon Mothma ha dato tutto, inclusa sua figlia, per contrastare l’Impero… Potremmo parlarne per ore, ma la sequenza è talmente intensa e bella da vedere che sarebbe inutile. È cinema puro (puro, non intellettuale), come raramente si è visto in Star Wars. Chissà se ne vedremo ancora in futuro, in questa galassia lontana lontana.
Marco Montanaro (1982) vive in Puglia, dove si occupa di scritture e comunicazione. La sua newsletter si chiama Sobrietà.