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Ho iniziato a fare il giornalista nel 2008. Avevo ventun anni. Lavoravo in redazione mentre i social stavano diventando l’infrastruttura culturale del mondo e i giornali italiani si chiedevano ancora se fosse il caso di aprire una pagina Facebook. Internet aveva già trasformato tutto, ma sembrava che il giornalismo non se ne fosse accorto. O, peggio, che avesse deciso di ignorarlo.

Di quella rivoluzione digitale io ho sentito l’eco. I racconti dei colleghi più anziani, l’unico computer connesso a Internet in redazione, le notizie scaricate da Ansa e battute a mano come se fosse un passaggio rituale. Quel tempo non l’ho vissuto, ma le sue paure sono rimaste. Le ho viste trasmettersi e stratificarsi. Consolidarsi. Come un riflesso condizionato: ogni cosa nuova è sopratutto una minaccia.

Poi sono arrivati i social e lì c’ero. Pensavamo che sarebbe stato il momento di cambiare passo. Di aprire, innovare, ripensare il nostro mestiere. Invece no: si è replicato lo stesso schema. Prima il sospetto, poi l’adozione passiva, infine l’uso distorto. Abbiamo inseguito la visibilità, dimenticato il metodo, smarrito la funzione. E oggi siamo di nuovo qui. Davanti a una tecnologia che cambia tutto – l’intelligenza artificiale – e ci trova, ancora una volta, immobili.

Non scrivo questo pezzo per insegnare qualcosa. Non ho soluzioni da offrire, né modelli da proporre. Scrivo per provare a fermare il meccanismo. Perché la traiettoria che stiamo percorrendo è sempre la stessa: paura, arretramento, resa. Ma stavolta rischia di non esserci un’altra occasione.

Lo scrivo da freelance, dopo anni passati alle dipendenze di un grande gruppo editoriale. Oggi lavoro da solo e lavoro anche con l’IA. Non perché sia la salvezza, ma perché è già parte del nostro presente. Non usarla non è una scelta etica: è una scelta miope.

La rivoluzione di Internet, dicevo, non l’ho vissuta. Era già passata quando ho cominciato. Ma le sue conseguenze erano ancora lì, sedimentate nelle redazioni, come una frattura mal rimarginata. Ne sentivo parlare dai colleghi di una generazione diversa dalla mia. Bastava ascoltare molti di quei racconti per capire che la tecnologia non era mai stata accolta. Era stata tollerata, al massimo.

La rete, per com’era stata percepita, non era una nuova casa per il giornalismo. Era una minaccia. Una copia sbiadita. Un luogo dove l’informazione si sporcava. I siti web dei giornali erano poco più che bacheche. Spesso si pubblicava il pdf del giornale del giorno, come a dire: questo è l’unico formato vero, il resto è contorno.

Intanto, fuori, il mondo cambiava. Il tempo reale diventava norma. I lettori imparavano a cercare le notizie altrove. E il giornalismo italiano — salvo poche eccezioni — reagiva irrigidendosi. Difendeva la propria forma invece della propria funzione. Scambiava la distanza per autorevolezza.

Non è stata una sconfitta tecnologica, ma culturale. Il problema non era Internet. Era il modo in cui lo si guardava: come a qualcosa di transitorio, persino volgare. E invece stava ridefinendo il mestiere.

Questa attitudine, questa paura ereditata, è ancora viva oggi. Non è mai stata superata, solo traslata: in questi mesi, mentre l’IA si insinua in ogni processo produttivo, siamo fermi nello stesso punto. Come se non avessimo imparato niente. Come se quella lezione non fosse mai esistita.

La mia generazione era considerata quella i social “li capiva”. Per anagrafe, più che per cultura. E quindi ci toccava il compito di tradurre quel mondo ai capiservizio, ai capiredattori, agli editori. Ma senza spazio vero per costruire. Dovevamo usarli, non capirli. Dovevamo “farli funzionare”, ma senza cambiare davvero nulla. E così si è cominciato a postare. A rilanciare articoli con titoli più aggressivi. A cercare l’engagement. A rincorrere il traffico.

Il criterio di valore non era più il contenuto, ma la sua capacità di generare reazioni. L’indignazione diventava una leva. Il commento acido, una metrica. Il post virale, un obiettivo. E intanto la profondità del racconto si assottigliava. Il mestiere veniva svuotato dalla logica dell’urgenza continua.

Anziché governare il cambiamento, o almeno provarci, ci siamo adattati a esso nel modo peggiore. Sfruttando la velocità senza curare il senso. Lasciando che il rumore sostituisse il racconto. E illudendoci che bastasse esserci, per esserci davvero. Quello che è successo con i social è lo stesso schema che si ripete ora con l’IA.

Molte redazioni italiane hanno un’età media altissima ma il problema non è prettamente anagrafico. È l’assenza di integrazione generazionale. I giovani entrano, ma non lasciano traccia. Non vengono ascoltati, né formati, né responsabilizzati. Portano competenze nuove, ma restano ai margini. I senior si proteggono, i junior si adattano. E il giornalismo, nel mezzo, resta fermo.

Non è questione di “fare i moderni”. È questione di non restare scollegati dal presente. Se il mondo cambia e chi lo racconta non cambia con lui, qualcosa si rompe. E quando si rompe, si sente. Nel tono, nei titoli, nella voce fuori sincrono con il tempo. Ecco perché l’IA ci trova così impreparati. Perché non è la prima trasformazione a cui non siamo pronti. È solo la più rapida. E forse la più definitiva.

Già esistono siti completamente generati da IA, che pubblicano decine di articoli al giorno su ogni tipo di argomento. Mi è capitato personalmente di trovarmi descritto in uno di questi: articoli che parlavano di me come se fossi un personaggio molto noto, con toni trionfali, informazioni inventate, dati falsati. Io non sono un volto mainstream, tutt’altro: sono un giornalista che ha lavorato in redazioni locali, ha scritto libri, dirige una rivista e collabora con diverse realtà nazionali, ma di certo non sono Bruno Vespa. Eppure l’IA ha connesso elementi sparsi, costruendo una narrazione che non mi appartiene. Nessuna verifica, nessun contatto, nessuna lettura critica. Solo un algoritmo che riempie spazi.

Eppure, dall’altra parte, ci sono tentativi diversi. Tentativi onesti. Virgilio.it, ad esempio, ha già cominciato a usare l’IA per generare articoli brevi, spesso basati su comunicati stampa o piccoli episodi di cronaca. La differenza è che questi contenuti vengono esplicitamente segnalati come generati da IA e poi rivisti da un redattore. È tutto dichiarato, tutto trasparente. Il lettore sa cosa sta leggendo. È un esempio semplice, ma significativo. Un modello da osservare, non da liquidare con sufficienza.

Il punto non è impedire all’IA di scrivere. Il punto è decidere chi controlla il processo. Chi si prende la responsabilità. Chi garantisce che quello che arriva al lettore sia ancora, in qualche modo, giornalismo.

Io l’intelligenza artificiale la uso. Non per scrivere articoli al posto mio, ma per fare meglio il mio lavoro. Mi aiuta a riformulare, a risparmiare tempo su ciò che non richiede creatività o profondità. Mi affianca, non mi sostituisce. E se lo dico non è per fare il brillante. È perché dovremmo smettere di far finta che non succeda.

Il punto è che questa possibilità, oggi, non la si può nemmeno nominare. La si nasconde. Si fa, ma non si dice. Come se fosse un vizio, una colpa. Come se usare uno strumento rendesse meno vero il lavoro. Ma allora dovremmo smettere anche di usare le agenzie, i CMS, i software di trascrizione. O fingere che il lavoro del giornalista sia rimasto identico a com’era trent’anni fa.

Non lo è. Non può esserlo. Eppure restiamo ancorati a un’idea sacrale della professione. Quasi liturgica. Quando invece avremmo bisogno di una etica dell’efficacia: fare bene, fare meglio, restare centrati sulla responsabilità, non sul feticcio della tecnica.

L’IA può aiutare il giornalismo, se accettiamo di usarla con consapevolezza. Può essere un filtro, e una leva, persino un’estensione. Ma solo se restiamo padroni del processo. Non serve coraggio per usare l’IA. Serve coraggio per dirlo. E dire che si può essere giornalisti, seri, rigorosi, umani, anche quando si usano strumenti nuovi. A patto che la voce resti nostra. E che il mestiere non venga scambiato con la macchina.

Uno dei pericoli meno discussi dell’intelligenza artificiale applicata al giornalismo è quello dell’imitazione. Non solo nel tono, ma nei contenuti. L’IA è allenata su testi esistenti. Impara da ciò che trova online. Assimila tutto, ma non distingue il vero dal falso, il firmato dall’anonimo, l’inchiesta dal comunicato. Riproduce. Riformula. Rimescola.

Nel 2023, il New York Times ha scoperto che alcuni siti generati da IA stavano pubblicando articoli che riprendevano in modo evidente — a volte parola per parola — pezzi usciti sul giornale. Non solo un problema di copyright, ma un problema di senso: l’informazione diventava una massa indistinta, senza firme, senza fonti, senza responsabilità. I contenuti veri venivano “assorbiti” da sistemi automatici, spogliati del contesto, e riproposti altrove come se nulla fosse.

Questa dinamica ha un nome: plagio algoritmico. Ed è una delle forme più subdole di crisi del giornalismo. Perché toglie valore proprio a ciò che dovrebbe essere difeso: l’autorialità, la cura, la veridicità.

L’intelligenza artificiale, se usata senza filtri, produce testi che sembrano veri. Ma solo perché sembrano scritti da qualcuno. Quando invece non sono scritti da nessuno. O, peggio, sono scritti da troppi. Troppe fonti, troppi stili, troppe citazioni mescolate insieme senza gerarchia, senza direzione. È un rumore. Un grande rumore che somiglia alla verità, ma non lo è.

C’è un equivoco di fondo in tutto questo discorso: credere che sarà l’intelligenza artificiale a distruggere il giornalismo. Non sarà così. A distruggerlo sarà, semmai, il modo in cui l’editoria deciderà di usarla. Perché la tendenza è già chiara. Non si tratta di innovare, ma di tagliare. Di ridurre i costi, velocizzare i processi, riempire spazi. L’IA può fare tutto questo. Può scrivere migliaia di righe al giorno, può farlo gratis, può farlo subito. E allora diventa perfetta per chi vede l’informazione come un contenitore, non come un servizio.

I posti di lavoro, quelli veri, quelli tutelati, li abbiamo persi ben prima dell’IA. Li abbiamo persi quando il giornalismo ha iniziato a vivere nell’emergenza perenne. Quando il collaboratore è diventato la norma. Quando le redazioni si sono svuotate senza rinnovarsi. Quando l’informazione ha smesso di investire sul lungo periodo.

L’IA non farà che prolungare questa deriva, se lasciata nelle mani di chi la considera solo uno strumento di riduzione dei costi. Se usata senza un’idea di fondo. Se piegata a logiche di mera produttività che con il giornalismo non hanno nulla a che vedere.

Ma non è inevitabile. Potrebbe essere l’opposto. Potrebbe diventare un alleato. Potrebbe alleggerire il lavoro ripetitivo, liberare tempo per l’approfondimento e l’inchiesta, facilitare l’accesso a fonti complesse. Potrebbe, se la usiamo dentro un progetto, non al posto di un progetto.

E invece ci muoviamo senza pensiero. Aspettando che siano gli altri a decidere. Lasciando campo libero a piattaforme che vivono di contenuti usa e getta, di testi senz’anima, di strategie industriali che producono informazione come si produce una lattina.

La verità è semplice: non possiamo permettere che a definire il futuro del giornalismo siano solo gli interessi economici. Serve un modello, serve una visione, serve una cultura del mestiere che non sia nostalgia ma ricostruzione. Altrimenti l’IA non sarà il problema. Sarà solo il chiodo definitivo su una bara che avevamo già costruito da soli.

Non so come sarà il giornalismo tra cinque anni. Nessuno lo sa. Ma so che adesso, in questo preciso momento, possiamo ancora scegliere. Possiamo decidere se restare fermi — per paura, per inerzia, per orgoglio — oppure provare a costruire qualcosa di nuovo, anche senza garanzie. Anche a tentoni.

Eppure siamo ancora lì. Ancora fermi. Ancora convinti che basti rifiutare per salvarsi. Ma il giornalismo non è un bastione da difendere. È un sistema da rinnovare. E per farlo servono scelte. Servono voci, tentativi.

Il giornalismo non è nostro. Non appartiene ai giornalisti. Non è un privilegio, è un servizio. Appartiene a chi lo legge. A chi ci cerca per capire, per orientarsi, per respirare nel rumore. Se smette di essere utile, non sopravvive. Se si chiude, si spegne.

E quando si spegne, non muore solo un mestiere: muore un pezzo di società.

In un’epoca in cui l’informazione è dappertutto e la fiducia è ai minimi storici, abbiamo bisogno di giornalismo più che mai. Ma non di un giornalismo nostalgico e impaurito. Abbiamo bisogno di una voce che non rincorra la tecnologia, ma che sappia dialogarci. Che non la neghi, ma la guidi. Che non la subisca, ma la usi — con intelligenza, appunto.

Non ho ricette. Ma so che serve agire. Subito. Senza aspettare un’altra crisi, un’altra emergenza e nemmeno un altro convegno.

Ora non serve crederci. Serve provarci.

Con lucidità. Con rigore. Con quel senso di responsabilità che — a dispetto di tutto — fa ancora la differenza tra chi scrive e chi genera contenuti.

 

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2 commenti

  1. Bell’articolo. Nulla da dire, eccetto qualche ovvia conclusione. E’ nell’evidenza dei fatti che la tecnologia seguirà un percorso obbligato, ergonomico, raziocinante fino al midollo e del tutto incontrollabile e che gli editori che non se ne serviranno , saranno destinati all’oblio, al fallimento; e con loro i professionisti della cronaca. MIca ci vuole tanto per capirlo! Già si sente la puzza di cadavere. E dopo i giornalisti, gli scrittori, gli autori letterari toccherà ad altri, se nel frattempo non son già schiattati. Ma il peccato più grave non è l’immobilismo, il vero peccato è la superbia di chi ancora crede nel potere della qualità, nel merito, altra carogna puzzolente che agonizza sotto due buoni metri di terra , nel senso che il merito è stato già tumulato prima ancora che implodesse sotto il peso della logica dell’utilitarismo e del politicamente corretto , sotto la logica delle produzioni dettate dalle agende di partito. Ora, se veramente , le due categorie più esposte di cui si è detto non si ravvederanno al più presto , se quindi non la smetteranno di riporre speranze negli stessi ideali che hanno contribuito a trucidare e sotterrare (cosa del tutto improbabile) sarà necessario ricorrere all’unica soluzione possibile allo stato attuale, all’unica soluzione che si son rifiutati costantemente di prendere in seria considerazione: quella di re-introdurre una scrittura su base simbolica, davanti alla quale ogni macchina mostrerebbe i suoi limiti. E’ la lezione che ci proviene dal passato, dalla necessità degli antichi di utilizzare il ‘velame’ del linguaggio simbolico caro a Dante, (Voi che c’ avete gli intelletti sani…) per mettere fuori gioco le peggiori minacce della nuova tecno-editoria. MInacce che riguardano soprattutto le categorie di professionisti di cui detto poc’anzi.
    Attenzione però, non basterà la professionalità, nemmeno la più dotata in termini di talento, bisognerà che i giornalisti, emulando gli autori del passato, i quali hanno retto col loro ingegno la dura prova del tempo, sappiano equipaggiarsi per leggere gli insegnamenti di saggezza, e questa, credo, sia per la spaventata mandria degli autori della carta stampata, un ostacolo non di poco conto. Auguri!

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Autore

v.corrado@tin.it

Vincenzo Corrado, classe '87, nato al mare (Catania) ma cresciuto tra la nebbia (Mantova). È giornalista professionista, scrittore e altre cose che andavano molto di moda prima dell'intelligenza artificiale.

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