La tempesta e il sacro

di Gaia Benzi

A cavallo tra saggistica, reportage, memoir, La tempesta e l’orso di Claudia Boscolo è un pamphlet ibrido di difficile inquadramento. La tempesta da cui prende le mosse è la terribile Vaia, fenomeno atmosferico gargantuesco che ha travolto l’Europa nell’autunno del 2018 e che in particolare si è abbattuto sul Nord-Est del nostro paese, devastando ampie porzioni di territorio. Vaia è però solo un caso, uno fra i tanti, che ha avuto il merito di intrecciare le sue sorti a quelle dell’autrice, diventando il pretesto per parlare del cambiamento climatico e delle ripercussioni minute e infinitesimali che esso ha sulle nostre vite. “Indicibile è la natura della devastazione, anche se dicibili ne sono le cause”: con questa parole Boscolo segnala che il suo discorso, così come ogni discorso intorno a Vaia – incarnazione di quello che Timothy Morton ha definito un iperoggetto, processo mastodontico e incomprensibile, letteralmente inconcepibile – non può che essere un’approssimazione, il tentativo di circumnavigare un’entità che “è con noi da un tempo indefinito”, forse dal “massimo slittamento mai conosciuto dall’uomo, la stanzializzazione”.

La prima domanda che Boscolo si fa, la più importante, è questa: cos’è stata, davvero, Vaia? Fin dalle prime pagine la sua potenza ancestrale, la sua capacità di distruzione assurge a simbolo di altre istanze, più divine che umane. È un evento nel senso proprio del termine, dal verbo latino evenire: qualcosa che giunge, accade, ma anche si compie, in un certo senso. Perché Vaia è pure, sin da subito, una profezia che si avvera, nella forma particolare della tempesta; è la conseguenza materiale della hybris umana che investe da decenni un territorio solido solo all’apparenza. Gli alberi schiantati dal passaggio di Vaia – quattordici milioni di abeti rossi caduti “come stuzzicadenti”, per usare le parole di Boscolo – diventano allora il sintomo di una natura posticcia, innesto umano malriuscito, maldestro tentavo di sanare le ferite inferte alla montagna già all’epoca della Prima Guerra Mondiale.

E rivelano il tema profondo del libro, quello del limite e del suo senso, e del rapporto che l’umano ha con esso: tema prometeico dalla genealogia complessa, storicamente legato al sacro, alla sacertà funzionale di alcuni elementi e alla spinta contraria di una secolarizzazione che ha assunto l’aspetto di un’appropriazione bulimica. Che la società abbia defenestrato il sacro non significa che il sacro sia sparito dal mondo, certo. Ma la sua funzione di argine, il ruolo del sacro nel rende intoccabili alcuni elementi, invalicabili alcune linee, si è progressivamente persa. Oggi dire “sacro” qualcosa sembra voler insultarlo. Ma come non scomodare questa categoria di fronte a Vaia? Come non pensare che Vaia è diretta conseguenza, o meglio effetto materiale del superamento di un limite invalicabile, della profanazione di qualcosa di sacro?

Il carattere di eccezionalità del sacro è il marchio di Vaia, che nella narrazione comune continua a presentarsi come, appunto, eccezione, rimuovendo l’assiduità normalizzata dei disastri ambientali provocati dal nostro modello di sviluppo. Un’eccezionalità che si fa emergenza quando incontra le persone e le loro vite, e che nel processo di sussunzione capitalistica diventa addirittura, parodisticamente, opportunità. Boscolo è bravissima nel ripercorrere questo filo, nello svelare la natura ributtante, predatoria del capitalismo applicato al disastro, con le sue promesse rumorose di guadagno e ripresa. Vaia, il disastro, la tragedia in generale, in quest’ottica e con queste lenti, non è più – se mai lo è stata – inserita in un processo di crisi, vale a dire di iato fra un prima e un dopo, di evento che innesca una rivoluzione e messa in discussione di ciò che si è, che si è stati fino a quel momento; ma è mero sfruttamento, occasione sì ma per estrarre valore, persino dalla morte.

E l’orso? L’orso è lo specchio animale di Vaia: è il limite che l’uomo non è più in grado di mettere a sé stesso e alle proprie azioni, che non è più in grado di rispettare, e che allora impone con violenza agli altri esseri viventi. L’orso è l’emblema animale di quel sacro ancestrale con cui abbiamo perso ogni contatto, nato dalla capacità di epoche remote di far aderire un limite astratto e normativo a un corpo pulsante di muscoli e carne, e rendere il sacro presente e operativo nella vita concreta degli individui della nostra specie.

“Il culto dell’orso, la sua trasformazione in divinità è parte integrante del rapporto armonico fra la civiltà pagana nord-europea e le foreste”, scrive Boscolo, facendo risalire questo culto al paleolitico e alle sepolture di orsi ritrovate nel sito neanderthaliano di Regourdou, in Francia. Divinità integralmente teriomorfa, come poche se ne incontrano nell’Europa Medievale, il plantigrade è allegoria di un’alterità irriducibile, ferina, nemica degli uomini e soprattutto lontana. L’orso “abita spazi, ambienti non battuti dall’essere umano”, abita cioè proprio il territorio del limite che sta oltre la linea tracciata dal sacro. “Ancora oggi i rarissimi incontri fra l’uomo e l’orso testimoniano il vagare di quest’ultimo in spazi non abitabili, lontani dalla civiltà […] La caccia all’orso è quindi una di quelle attività umane la cui unica giustificazione è il tentativo i dimostrare la propria superiorità sulla natura, la volontà di assoggettare qualsiasi essere vivente alle proprie regole, l’ambizione di antropizzare ogni centimetro di terra emersa del globo”.

Le pagine dedicate agli orsi sono le più toccanti. Con la sua spiccata individualità, con la sua personalità distinta, l’orso è anche il nostro doppio ferino, “sempre più simile all’uomo contemporaneo: assediato, sedato e privato di una foresta che non riconosce più”.

Cacciato, sterminato, poi reintrodotto e monitorato, l’orso è oggi il promemoria vivente dei numerosi tentativi dell’uomo di farsi divinità. I contatti con il plantigrado degli ultimi anni, ricostruisce Boscolo, pericolosi o letali che siano stati, sono comunque nati dal nostro intervento sul territorio e sul pianeta, con stagioni alterate che costringono gli orsi a letarghi sempre più brevi, dove i risvegli sono segnati da una fame impossibile da soddisfare se non avvicinandosi sempre più, e di malavoglia, agli spazi abitati dal suo unico vero antagonista: noi. “Una riflessione seria sulla tragicità del perduto rapporto tra uomo e fauna selvatica nell’Antropocene deve ancora essere scritta”, commenta Boscolo con enorme amarezza, “e forse nessuno mai la scriverà, perché parlare seriamente del collasso che questa perdita presagisce è troppo impegnativo per tempi poveri di spirito e dalla cultura stracciona come questi”.

Attraverso l’orso e la terribile Vaia, il tema del limite e del suo superamento si trasformano dunque in emergenza e opportunità. All’emergenza ambientale – ferina o meteorologica che sia – abbiamo imparato a rispondere con reazioni immediate, intrusive, secondo un paradigma di incuria capitalistica che si perpetua e si applica, in questo caso, al pianeta intero e ai suoi ecosistemi. E al centro di questo processo di incuria c’è, ospite inatteso la resilienza.

La resilienza – “termine infestante”, secondo l’ottima definizione di Boscolo – è il contrario della cura: l’idea che un sistema possa essere brutalizzato fino al suo annientamento sfruttando la sua innata capacità di rigenerarsi. L’ingiunzione alla resilienza, il diktat della resilienza (della ripartenza, della ricostruzione, della reattività) è la coazione contemporanea a non fermarsi mai, a non prendersi mai lo spazio – e il tempo – per la discontinuità, l’autocura, la crisi in senso positivo. Al contrario, ci vorrebbero risposte di cura in senso proprio e lato, risposte che riconoscano la resilienza come l’antivalore che è, e contrappongano all’idea di autosfruttamento della resilienza capitalistica un prendersi cura di sé e del mondo che abitiamo che parta da presupposti di lentezza, rispetto, umiltà, antispecismo.

Il problema dell’overtourism, in questo contesto, svela la natura perversa del rapporto tra arte contemporanea e capitalismo, dove la brandizzazione del disastro è di fatto indistinguibile dal gesto artistico, e la sponsorizzazione – o mecenatismo che dir si voglia – attraverso il bello apre le porte a una distruzione ulteriore. Squarcia il velo sulla narrazione dominante e punta i riflettori sul rapporto coloniale e sulla natura colonizzata del territorio soggetto al turismo di massa, sedotto dai suoi distruttori “attraverso la promessa del futuro e la lusinga del benessere”.

Grazie a Vaia, e grazie ai plantigradi – che la tragedia di Vaia hanno condiviso con la specie umana – Boscolo riesce ad affrontare questi temi immensi restando fedele a una corporeità che spesso manca alle disamine intellettuali, riassumendo in pochissime righe argomenti complessi senza far loro perdere di profondità, senza banalizzare, collegando i fili che legano il presente al passato, la scienza ai simboli, le cronache al mito, interrogando le nostre intelligenze con un senso d’urgenza affaticata, amara, antica.

“Verranno altre tempeste, altre alluvioni, la siccità”, chiosa in finale. “L’auspicio è che la metafisica continui a occupare un posto importante nella dimensione spirituale del fenomeno umano; posto che l’ardito vero aiuti a tracciare quel limite, oltrepassato il quale non vi potranno più essere nel lungo periodo né il fenomeno umano né le sue meravigliose metafisiche”.

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Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di storia e letteratura. Ha scritto, tra gli altri, per Jacobin Italia, Che Fare, Nazione Indiana, Micromega. Lavora nell’editoria.

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