Star di casa in città. Quando il teatro interroga il rimosso borghese

foto ©Luca Del Pia

di Pietro Savastio

Si entrava in questa città per essere trasformati in cose, in cifre, o respinti. Ci tornavano in mente le parole del pazzo sul dolore proibito, comunque illegittimo, sul dolore, cioè sull’essere umano, vietato; ci tornavano in mente gli scarsi, rarissimi colloqui avuti in questa città; il senso di vergogna di fronte al pensiero, al colloquio, che avevano tutti, come di un furto alla comunità, una mostruosa perdita di tempo. Ci domandavamo se qui, e soprattutto qui, in questo suo violento tentativo di farsi moderna, scavalcando gli abissi di una educazione e una economia pastorali, l’Italia non perdeva definitivamente il suo equilibrio, non entrava in crisi.

Anna Maria Ortese, Silenzio a Milano

Nella città contemporanea il processo di strutturazione delle vite e delle coscienze conosce uno sviluppo senza precedenti. L’esperienza urbana si organizza come un dispositivo permanente di produzione e riproduzione, con tutte le sue funzioni sociali attribuite e normate, in qualche modo predisposte. In città il potere lascia il suo marchio, tenta di controllare le persone, ingabbiarle nelle proprie regole e norme: finiamo così intelaiati in una fitta rete di condizionamenti. Di cosa potrebbe dunque occuparsi l’arte se non di questi temi così urgenti e veri? Se non di interrogare la vita nei suoi costringimenti più duri e più invisibili? E se ammettiamo che la grande arte abbia sempre in sé qualcosa di anarchico, che porti in sé una qualche critica dell’esistente, di contestazione dell’ordine sociale dato, si può dire che nell’incontro con l’ultimo lavoro drammaturgico di Lorenzo Ponte si ritrovi quell’afflato che rende tale la grande arte.

In un circuito dominato in larga parte dai piccoli imprenditori della felicità, che sono soliti regalarci “intrattenimenti e svaghi” di bassa lega ma con grande lena, si fa prezioso un lavoro che ha il coraggio e la capacità di interrogare lo spettatore, portandolo a fare i conti con se stesso e la sua collocazione sociale. Ma si badi bene che il testo del Ponte dal titolo Buoni a nulla non è una drammaturgia ideologica o manichea. Tutt’altro: Trattando un tema al tempo stesso sottaciuto e bruciante quale la povertà estrema, l’autore si guarda bene dal produrre un j’accuse scenico che sarebbe parso stantio e forse pure un po’ scontato. Più astutamente, lo spettacolo (andato in scena al teatro Olinda di Milano dal 16 al 18 giugno) ha saputo lavorare sul piano dell’immedesimazione, portando lo spettatore a spasso tra i patemi suoi propri, quelli borghesi, carichi di verità di fronte al dramma della povertà e dell’indicibile disuguaglianza. Anzi, è proprio lo spettro vivo e visibile della povertà e della disuguaglianza a rappresentare la vera chiave attraverso cui i patemi borghesi si (di)spiegano.

Di questo testo colpisce dunque il gesto primo: quello di accostare privilegio e indigenza, di farli dialogare senza che la condizione borghese sia moralisticamente condannata a priori, riuscendo così a scrutare davvero nell’intimo dello spettatore, a metterlo nella condizione di osservarsi e osservare i fili che (s)legano la città reale. In fondo, ci chiediamo, la povertà estrema a chi interessa? Chi la osserva? Il pubblico si trova inevitabilmente costretto, sul finale, a guardarsi dentro, a interrogare i propri condizionamenti e i propri dispositivi di azione e invisibilizzazione attiva. Cos’altro chiedere all’opera d’arte?

Con un apparente paradosso si può dire che pur essendo uno spettacolo che parla di città, Buoni a nulla si rivela una pièce che non lascia spazio al movimento metropolitano, al suo brulicare, al suo caos o alla sua frenesia: l’autore sceglie un individualismo metodologico – se volessimo scomodare antichi concetti sociologici. La città insomma non va mai in scena nel suo senso più letterale ed esteriore (se non nella banchina dei mezzi pubblici che costituisce una scenografia volutamente essenziale) ma viene fuori in tutta la sua forza attraverso le voci dei suoi personaggi. Essa è ricostruibile come un prisma proprio nelle voci, nei corpi e nei vissuti dei suoi protagonisti, caratteri idealtipici che la animano e la agitano. Così, troviamo il giovin borghese in crisi (Achille), una lavoratrice culturale precaria (Maria) e un uomo senza dimora (che resterà, non a caso, senza nome).

Achille, così dialetticamente ancorato alla sua condizione di classe, sprigiona le sue fragilità di fronte ad una società della performance che non lascia scampo, che mette su un binario ad una direzione. Competizione, progresso, fatturato sono le sue indicibili ossessioni che non lasciano spazio al dubbio, all’incertezza, allo smarrimento possibile. L’interpretazione di Tobia Dal Corso è magistrale, frutto di un grande lavoro di recitazione, da vero e proprio tecnico dell’arte, capace di un grosso sguardo sulla singola scena e sull’insieme – segno di grande intelligenza attoriale. I panni del giovane di buona famiglia sono indossati in maniera algida, meccanica, quasi robotica come robotica è la città che li produce. Apparentemente meno emozionante, dietro lo schermo di una recitazione fredda si squaderna il dramma del soggetto borghese alle prese con i suoi imperativi impossibili, quel «dolore» così «umano» e così «vietato» di cui ci dice Ortese, in un (in)felice testo proprio sulla grande Milano.

Diverso e complementare è il personaggio di Maria: giovane precaria, schiacciata dalla sua accesa sensibilità sociale, si accosta al mondo della povertà estrema, dapprincipio muovendo passi timidi e non riuscendo mai, sino all’ultimo, a risolvere il conflitto tra la sua condizione personale e il disagio sociale che vede intorno a sé. Il suo personaggio è intessuto di una fragilità che alla prima vocazione d’aiuto “paternale” cede il passo alla contraddizione tra una postura che si vorrebbe “umanitaria” e il proprio egoistico bisogno di curare l’altro, che però non lo vuole, che non l’ha chiesto. Par di voler per l’altro qualcosa che l’altro non vuole. Può, dunque, il mondo essere salvato? Paola Galassi si fa capace di un’interpretazione più sporca e vera, nella quale ci rivediamo tutt*, per merito della sua capacità di stare con il pubblico e di guidarlo alla propria sentita emotività.

Ultimo non ultimo, il senza dimora, ci restituisce il sottosopra della vita, inverte gli assi, mette gelida allegria nell’incontro col pubblico e ci riporta inevitabilmente all’incontro con la follia, con l’Altro da noi, con il privilegio di avere un documento nel taschino e la libertà di scegliersi un bagno quando necessario. Eppure è un’inedita libertà di “cagarsi addosso” a innescare il paradosso: «Abbiamo tutti bisogno di un posto da chiamare casa, dove essere lasciati in pace. Cagati addosso ed eccola lì.» Qui c’è tutta la verità della follia: il pazzo col volto tinto di bianco, un novello Joker sul cui corpo si inscrive tutta la violenza silenziosa e invisibile della città contemporanea. Luca Oldani lavora magistralmente con il proprio, di corpo, prima ancora che con la parola: sfrutta la sua magrezza, lavora con lo sguardo per dispiegare una fragilità umana che sancisce l’opera. L’uomo Oldani, dietro l’attore, reclama questa fragile umanità, la fa propria e, nel portarla in scena, la consacra all’arte. L’attore, s’intuisce, è lì per se stesso ma anche con noi.

Al centro di queste trame, dunque, emerge la grande Milano, “locomotiva paese”, città che corre, luogo inospitale: respingente per le classi precarie meno tutelate, indifferente rispetto alla “devianza” di chi abbandona i costumi del vivere considerato “civile”, e intransigente nelle sue aspettative di fronte alla sua promettente prole (maschia, bianca e borghese). Lo spettatore si sdoppia o si stripla nella sua mimesis, identificandosi a tratti con l’uno o con l’altro personaggio. È un vortice di verità quello nel quale ci si trova calati nel corso dell’opera. Operazione riuscita, dunque, quella di provare a raccontare in un sol colpo marginalità, rimorso borghese e precariato culturale. Emerge nella messa in scena il tema che sembra aver mosso la ricerca del regista, ossia, nella sua semplicità e forza, lo spettro di una città contemporanea stratificata in classi sociali, con problemi propri e specifici, benché incommensurabilmente diversi.

Il finale, allora, apre a più domande che risposte: cosa rende davvero tale la città? Come si stabilisce l’appartenenza ad un luogo? «Scegliere dove sentirsi a casa, non so se si può fare» dirà Maria sintetizzando così la il mistero del testo teatrale, il suo sottotesto più profondo, l’arcano che non si può svelare. In conclusione, le parabole dei tre personaggi si incontrano in un bacio di morte e sangue, che lega indissolubilmente le parti in causa. Non c’è lieto fine ma nemmeno dramma: è la dura materialità delle cose, la realtà a cui, con placida indifferenza e nel migliore dei casi qualche rimorso, siamo chiamati anche noi a partecipare. Quando invece dovremmo, più semplicemente, cagarci addosso anche noi.

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