La vita è imperfezione: su “Il destino di un bomber” Andrea Carnevale e Giuseppe Sansonna
di Pierfrancesco Trocchi
Basterebbe osservare il suo comportamento dopo la conquista del primo, storico Scudetto napoletano del 1987 per comprendere che Andrea Carnevale è un personaggio stratificato, lontano dalla bidimensionalità del calciatore che si esaurisce negli insulsi automatismi di un’intervista. Mentre i compagni delirano, Andrea è «assorto a specchiarsi nella sua compostezza». Vorrebbe andarsene dal Napoli: cerca garanzie di titolarità, desidera essere apprezzato per quello che è, senza sfibrarsi in continue sgomitate. Resterà, lotterà ancora, perché, ama quel gusto di vita che gli resta attaccato al palato alla fine della giornata, quello della gioia di esistere ancora e nonostante tutto. Ciò che Andrea non negozierà mai sono i propri spazi, visibili e invisibili. Proprio come il suo fratello di esaltazioni e malinconie, Diego Armando Maradona. Carnevale è un veltro insaziabile sul campo, si fa bruciare dal sole e assordare dal San Paolo senza mai perdere la forza delle gambe. Di Napoli, però, «preferisce il versante in ombra, certe quieti notturne e le note struggenti delle melodie classiche, o del rivoluzionario Pino Daniele». Ci sarà sempre un lato randagio, inafferrabile di Andrea, azzannato nella sua adolescenza da un colpo che avrebbe ridotto la maggior parte di noi a un’ombra incapace di definirsi.
Carnevale ne tratta e si confida in Il destino di un bomber (66thand2nd, 2025) insieme a Giuseppe Sansonna, regista e autore Rai che, dopo Zeman, vivifica un altro dei miti “privati” e generazionali dei calciofili italiani. Grazie a scrittura energica, precisa ed evocativa, emerge con un ordine mai eccessivamente cronachistico – pericolosa intercapedine in cui affondano spesso le biografie degli atleti – la storia prima di tutto di un «ragazzo del Sud», che sa bene come il suo fato sia quello di lottare. Ha iniziato a farlo, Andrea, fin dall’infanzia, quando nella sua Monte San Biagio, «terra scabra, violenta, avventurosa, tra la via Appia e il West» ogni sera assiste alle efferatezze del padre Gaetano contro la madre Filomena. Carnevale trova nel calcio il proprio Lete insieme ai fratelli Enzo e Germano, colpisce il pallone come per cavarne fuori risposte. È però adombrato, parla con i carabinieri che nondimeno respingono le sue denunce. Hanno bisogno di prove, sostengono. Un giorno, al fiume, Gaetano uccide a colpi di accetta Filomena. Allora Andrea, quattordicenne, raccoglie in un contenitore l’acqua insanguinata e lo porta in caserma al maresciallo: «Ecco il sangue che volevi», aggiunge. Malgrado ciò, proverà amore per il padre, tentando di alleviarne la follia. L’incubo finirà soltanto qualche anno più tardi quando Gaetano Carnevale, tornato a casa dopo la detenzione nel manicomio criminale di Aversa, si getterà dal balcone davanti ai propri figli. Per Andrea «il futuro può cominciare».
Allora capiamo che il calcio è molto più di un mestiere. È un’iniziazione, un mezzo e una meta. Grazie al pallone Carnevale conosce il mondo. Conosce la madre di due dei suoi figli, Paola Perego, e tramite il matrimonio con lei esperisce anche l’incomprensione, la solitudine. Conosce gli amici di una vita, come Renica, Maradona e Pierpaolo Marino, che nei primi anni 2000 gli dà una nuova vita a Udine come osservatore dopo un assurdo e infondato arresto per traffico internazionale di droga. Conosce la maturità e l’emancipazione, ma anche lo smarrimento una volta che il pallone si è sgonfiato, facendogli «recuperare a tratti quello stato infantile mai vissuto pienamente» e «pagare tutte le sue ingenuità». Nella sua prosa cinematografica Sansonna non dimentica, al contempo, di illuminare il contributo che, in senso inverso, Andrea ha dato al calcio. Carnevale è stato un grande attaccante capace di trasformare la propria divergenza con il tempismo esistenziale in una testardaggine tremendamente efficace in quei fazzoletti di fato a lui favorevoli, se è vero che, oltre a vestire tra le altre le maglie della sua Roma e dell’Udinese di Zico, a Napoli ha vinto due Scudetti e una Coppa Uefa. Tuttavia, è soltanto in equilibrio sull’apice. Andrea, che ha speso una vita intera a «incidere il suo destino», non riesce a dimenticarne la radice, rivolgendo dopo ogni successo il pensiero «al lutto, a Monte San Biagio, alla tavola imbandita di ogni Natale, la sua gioia più grande». Per tutta la sua carriera continuerà a lottare contro «un’ingiustificata sindrome dell’impostore», che gli deriva da una coscienza critica di sé e del mondo rara nell’universo parallelo del pallone.
Derubricare Il destino di un bomber ad album di ricordi sarebbe un errore di leggerezza. Il libro è soprattutto il racconto di un uomo in dialogo con la vita, alla quale non ha mai negato la parola nemmeno davanti alle sue più gratuite infamie; di un «imperfetto» che è «padre e nonno prezioso», nonché eccellente rabdomante di talenti in quella che è diventata la sua seconda casa, Udine. In una riga, il testo è la testimonianza di un uomo che continua a incidere il proprio destino.