Rimettere al centro l’atleta: “Doping. Una storia di sport” di April Henning e Paul Dimeo
di Pierfrancesco Trocchi
Le recenti vicende riguardanti Jannik Sinner e la Wada, ossia l’Agenzia mondiale antidoping, hanno avuto il demerito di sguinzagliare un più che prevedibile isterismo cronachistico e così soddisfare il cupo interesse della maggior parte degli avventori di siti e social. Al contempo, tuttavia, hanno riacceso un più approfondito dibattito riguardo al concetto di doping, oltre che alla legittimità e allo scopo dell’operato della Wada. Perché Sinner, benché sia stato dichiarato dallo stesso organo giudicante inconsapevole di avere assunto Clostebol, è stato squalificato – per giunta senza che tale assunzione abbia migliorato le sue prestazioni sportive? Di che cosa viene allora ritenuto responsabile il tennista più forte del mondo? Per quale ragione è stata responsabilità della Wada giudicarlo? Infine: che cos’è la Wada?
A tutti questi quesiti rispondono April Henning e Paul Dimeo, autori di Doping. Una storia di sport (66thand2nd, 2025, nella traduzione di Dea Merlini), non limitandosi a compilare l’elenco delle risposte. Il titolo del libro è già di per sé particolarmente significativo. Quella del doping è una storia di sport, e non a lato di esso, ed è dunque da analizzare come concrescenza in grado di offrire nuove luci sotto cui indagare la pratica sportiva e le sue multiformi valenze. Altrettanto multiformi sono le ragioni del doping, come emergerà da una trattazione guidata con ordine e cura accademica da Henning e Dimeo. Il testo assumerà una prospettiva duplice: da una parte ricostruttiva, grazie all’esposizione di un’esaustiva storia della fenomenologia del doping nonché della sua nozione; dall’altra costruttiva, profilandosi come un appello in diretto dialogo con le istituzioni. Del resto, l’autrice e l’autore, docenti presso università scozzesi con alle spalle molti anni di ricerca sull’utilizzo di sostanze nello sport, possiedono l’autorevolezza per farlo. A più riprese hanno partecipato a progetti per conto della Wada stessa, alla quale, fin da subito, non risparmiano critiche. La dichiarazione d’intenti presente già nell’introduzione porta nella direzione di una riforma delle modalità con cui l’Agenzia mondiale antidoping agisce, sostenendo che «gli atleti dovrebbero prendere parte attiva al sistema e non semplicemente subirlo, venendo trattati con sospetto in quanto potenziali imbroglioni».
Per comprendere il doping e combatterlo, insomma, è di imprescindibile importanza evitare di demonizzarlo. È proprio a questo scopo che la trattazione è sviluppata secondo un criterio diacronico, utile a inserire tale pratica in un più ampio quadro causale che è sociologico, economico e politico alternativamente o al contempo. Il doping deriva da quell’approccio migliorativo della medicina che, pur intrinseco della scienza stessa, è stato massimizzato e distorto dall’avvento del capitalismo. Lo sport per come lo intendiamo si è infatti sviluppato nella seconda metà dell’Ottocento insieme alla società dei consumi e alla nascita del concetto di tempo libero, che lo hanno assurto ad attività di massa. La diffusione delle discipline sportive creò una prima demarcazione tra dilettanti e professionisti, vale a dire tra i ceti più alti e la working class, meglio ancora tra chi faceva sport come divertissement e chi invece poteva o doveva procurarsi da vivere grazie alle proprie capacità atletiche. I secondi,uesQue spiegano gli autori, erano più portati all’assunzione di sostanze dopanti per ragioni economiche e di prestigio sociale. Si può dire che i professionisti rispecchiassero meglio il sentimento del proprio tempo, animato dalla sperimentazione, espressione di una società turboprogressista dove, per esempio, la cocaina veniva consigliata come rinvigorente dal farmacista di fiducia. È allora più semplice comprendere perché il doping non fosse un tabù, bensì una pratica non soltanto diffusa, ma anche suggerita dai medici stessi.
Henning e Dimeo riescono lungo tutta la durata del libro a tenere presente il nesso tra società, sport e alterazione delle prestazioni sportive. È una visione lucida e chiarificatrice, capace di definire e ridimensionare, schivando le usuali categorizzazioni anche quando in apparenza l’unica azione opportuna sembrerebbe essere quella di condannare. Per esempio, la crisi del doping del secondo dopoguerra, facilitata dall’utilizzo di anfetamine e metanfetamine normalizzato dai reduci del conflitto, per gli autori può essere «una crisi solo se vista con le lenti di quel che è accaduto in seguito». Allo stesso modo, se a un primo impatto la nascita tra gli anni Cinquanta e Sessanta di una coscienza antidoping corroborata dalla scienza può sembrare salvifica, essa in realtà favorì una «cultura dell’intolleranza», incapace di tenere conto delle cause del doping, «che affondavano le radici nelle pressioni subite dagli atleti in ambiente altamente competitivi». L’«epidemia degli steroidi» degli anni Settanta e Ottanta è, allo stesso modo, figlia di dinamiche diversificate e ben più complesse rispetto alla semplice scorrettezza individuale degli atleti. Basti pensare al doping di Stato della Germania Est, un Paese di 16 milioni di abitanti che nei medaglieri olimpici riusciva a precedere gli Stati Uniti, e alle ragioni nazionalistiche che ne stavano alla base; oppure allo scandalo legato a Ben Johnson e alle sue medaglie “drogate” di Seul 1988, quando era lo stesso medico della squadra di atletica Francis a procurarsi steroidi e stabilire posologie. In entrambi i casi, le evidenze emersero a fatto compiuto. Tra le argomentazioni del libro emerge allora chiaramente come il problema dell’utilizzo delle sostanze dopanti fosse prima di tutto culturale e sistemico su entrambi i fronti: quello di chi si dopava, e dato il contesto non aveva alternative, e di chi avrebbe dovuto evitarlo, senza tuttavia avere i mezzi per organizzare con efficacia e tempismo i test.
Torniamo ora ai quesiti iniziali. Se esiste la Wada, è anche grazie allo scandalo del Tour de France 1998, quando il mondo si accorse che un intero sport, il ciclismo, era dopato. Nata nel 1999 con la benedizione del Comitato olimpico, l’Agenzia mondiale antidoping fu investita del monopolio di garantire uno svolgimento “pulito” di tutte le competizioni sportive. Nello stesso momento, secondo Henning e Dimeo, nacquero la soluzione e il problema:
l’antidoping passò da sistema frammentato, disunito e caotico a organizzazione sempre più centralizzata, standardizzata e burocratica. Ma, come in molti altri sistemi burocratici, i mezzi sarebbero diventati presto il fine e, nell’ansia di seguire le regole, ci si sarebbe dimenticati del bene superiore.
Per gli autori, la Wada è colpevole di un atteggiamento «draconiano» che punisce con le medesime modalità sia chi assume di proposito sostanze dopanti per migliorare le prestazioni sportive sia chi introduce inavvertitamente uno steroide nell’organismo a causa di un balsamo per le labbra o di una pomata cicatrizzante (vedi alla voce Sinner). Il codice Wada, redatto nel 2003, ha criteri di discutibile oggettività e permette un’invasione non regolamentata della privacy degli atleti. È proprio qui, su queste incongruenze e prepotenze, che si concretizza il brio construens degli autori. Le ultime pagine del libro sono infatti dedicate a una strutturata proposta di intervento su più livelli, caratterizzata da un certo realismo («Uno sport libero dai farmaci non è più pensabile») e dalla volontà di tutelare il fair play e la salute degli atleti, smettendo di «considerarli tutti dei potenziali dopati» per entrare invece in costante e proficuo confronto con loro. Allo stato attuale, infatti, soltanto gli sportivi dotati di significativi mezzi economici possono “dialogare” con la Wada, generalmente in tribunale, anche quando qualunque altro organo giudicante li dichiarerebbe innocenti.
Doping. Una storia di sport è, in conclusione, un efficace e inedito strumento per affrontare un fenomeno che, oltre alle sue implicazioni specialistiche, ha molto da dire anche sulla nostra percezione dell’errore e della colpa. La vivacità della trattazione rende la lettura accessibile tanto a chi affronta l’argomento per la prima volta quanto, poiché ricca di spunti e proposte, a chi volesse misurarsi con nuovi stimoli su un argomento di attualità da ormai quarant’anni.