Selma è tutti i giorni. L’elogio alla disobbedienza di Allen Iverson

Il rumore deve essere stato fragoroso, quanto sincero lo stupore dei compagni di squadra. «Non sono venuto a Memphis per un secondo posto. Coach, Alonzo Mourning non promise di regalarti, una volta approdato in Nba, un pullman decente per le trasferte? Ci penserò io», disse l’allora tredicenne Allen Ezail Iverson, dopo aver gettato dal finestrino il trofeo di consolazione. Qualche anno più tardi un giornalista chiese a caldo a Michael Jordan, se l’esordiente non parlasse troppo in campo. Jordan s’asciugò una goccia di sudore, scosse la testa, per poi rispondere: «Iverson vuole essere rispettato nella Lega. È confidente e vuole emergere. Ed è veramente veloce». Pochi minuti prima Dennis Rodman aveva rifilato una gomitata a quel ragazzino dalla taglia limitata, ma dal cuore fuori misura, reo di averlo beffato a rimbalzo. The greatest heart, secondo Larry Brown che ritroveremo spesso in questa vicenda umana. Per sovvertire le regole del gioco e cambiare la direzione di una vita, che non promette nulla, serve il cuore.

Molti per un malinteso senso di riverenza si defilarono dall’affrontare Jordan. «Nonostante avessi eseguito alla perfezione il mio movimento, riuscì quasi a stopparmi. Una cosa pazzesca che spiega quanto fosse anche un difensore straordinario». Il 12 marzo 1997 Philadelphia cominciò a innamorarsi del bambino che decise di sfidare il mito.

L’America dei Maravich: non è facile essere Pistol Pete

Sugli spalti della palestra della Daniel High School sedevano meno di novanta spettatori, quando il dodicenne Pete Maravich iniziò a mettere in scena il proprio destino. Non fu un contropiede banale. In campo aperto la palla viaggiò al ritmo di una vita che avrebbe riscritto le regole del gioco. Calcolò l’infinitesimale frazione di tempo esatta per scagliare un passaggio da dietro la schiena che, dopo aver beffato la fessura fra le gambe del difensore, si concretizzò in un appoggio morbido al tabellone del compagno.

Toni Kukoc si domandava se non fosse meglio ammirare da fuori Dražen Petrović, anziché distrarsi dallo spettacolo correndo al suo fianco. Donna Sibenka, che generò il Mozart di Sebenico, si emoziona, mentre ricorda i risvegli all’alba del figlio per lunghissime, solitarie sedute di allenamento. Danny Ainge, che l’affrontò nell’esibizione di lusso Jugoslavia – Boston Celtics (torneo targato McDonald’s, dicembre 1988), ha ragione: «È un atleta esaltante. Posso compararlo soltanto al mio idolo Pistol Pete. Ho incrociato la mia strada con quella di Larry Bird. Conosciamo Michael Jordan. Ma nessuno è stato in grado di concepire le magie del giocatore più puro, Maravich».