La voce di Conrad

Esce oggi il nuovo numero di Nuovi Argomenti, dedicato al senso di appartenenza all’Europa. Di seguito pubblichiamo un testo di Vincenzo Pardini contenuto nella rivista, che ringraziamo.

di Vincenzo Pardini

Molti anni fa, leggendo Lord Jim di Joseph Conrad, mi parve che alcune righe, verso la metà del romanzo, le avesse dedicate a me: «Era difficile, in quel momento, credere all’esistenza di Jim – partito ragazzo da una parrocchia di campagna, avvolto nella moltitudine degli uomini come in una nuvola di polvere, ammutolito dallo strepitoso contrasto della vita e della morte in un mondo tutto materiale: eppure la sua realtà indistruttibile mi si presentò davanti con una forza convincente e perentoria!».

Parole che mi agirono dentro come un risveglio, riportandomi indietro nel tempo. Ossia al giorno che, insieme a mia madre, ad appena tre anni, partii da una parrocchia, o meglio da un villaggio di montagna, per raggiungere mio padre e mio zio, emigrati in Belgio, a lavorare in miniera. Eravamo poco dopo gli anni Cinquanta e in Italia, al solito, mancava lavoro. Gli abitanti di montagna, lontani da centri urbani erano, pertanto, costretti ad andarsene nelle periferie delle città, o all’estero, in cerca di un’occupazione. Mio padre e mio zio Giuseppe, prima di partire, avevano dovuto sottoporsi a visita e mostrare documentazione di essere immuni da precedenti penali.

Ho perso un lavoro per un tweet

di Claudia Durastanti

Lo scorso 27 aprile, mentre Teju Cole, Rachel Kushner e altri scrittori ritiravano la propria partecipazione dal galà del PEN in seguito alla decisione del comitato di assegnare il Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award per il 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, in un’altra parte della galassia, e con molto meno clamore, io perdevo una collaborazione di lavoro con una testata per aver manifestato tramite un tweet la mia perplessità nei confronti degli insulti che questi scrittori stavano ricevendo: è una circostanza strana quella di dileggiare la libertà di opinione altrui quando lo si fa per difendere la libertà di opinione di chi nell’esercizio di questa pratica è morto.

Ora, un direttore ha il diritto di selezionare e scartare ogni collaboratore nella maniera che preferisce o per le ragioni che ritiene più opportune, anche per un tweet di cui non condivide il contenuto. Il collaboratore, dalla sua, ha la facoltà di raccontare la propria esperienza, soprattutto se questa svela alcuni meccanismi che ritiene di interesse comune.

Tra un manifesto e lo specchio e un’altra sigaretta. Una (lunga) intervista a Francesco De Gregori

Alla quindicesima sigaretta del pomeriggio, Gitanes senza filtro, Francesco De Gregori dice: “E’ vero, vent’anni fa, ma anche dieci anni fa, non l’avrei mai fatto”. Andare a “X Factor”, ricantare Alice con Ligabue, scherzare con Checco Zalone, scrivere una canzone per un film di Paolo Genovese, fare un audiolibro su “America” di Kafka (e prima “Cuore di tenebra” di Conrad), entrare in un video di Fedez, non leggere cinque giornali ogni giorno, non guardare otto tg e sentirsi bene lo stesso, telefonare e dire: devi ascoltare assolutamente Caparezza, è meraviglioso. E passare le ore prima del concerto (il primo del tour di “Vivavoce”, a Roma) nei cunicoli del Palalottomatica non soltanto con i fonici, la band, il giovane cantante emozionato che aprirà il concerto, le Gitanes, il caffè e Ambrogio Sparagna che suona l’organetto in due canzoni riarrangiate assieme, ma anche sopportando lì seduto, o in piedi con la chitarra a riprovare Titanic, la cronista che accende il registratore e pretende di sapere che cosa c’è di diverso, adesso, in Francesco De Gregori. “Sarà per un fatto di maturità, e perché è cambiato il mondo intorno a me in meglio, ma è vero che è un po’ cambiato anche il modo in cui io lo guardo. Sono sempre stato aperto alle distanze. Se una cosa è distante da me non solo non mi fa paura, anzi mi eccita, ed è un processo assolutamente spontaneo, ma sostenuto da un ragionamento: so che non voglio chiudermi al mondo nell’area museale che potrebbe rappresentarmi perché ho scritto cinque, sei, dieci canzoni di quelle che rimangono. Non posso restare, nella mia testa, quello di Rimmel, io sono altro, sono anche Calypsos, Finestre rotte, non voglio fare il Bufalo Bill della canzone, che rievoca i tempi gloriosi del West su un palco a Sarzana o a Torino, e forse già inconsciamente lo sapevo nel 1976 quando ho scritto Bufalo Bill”. “Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi, la locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere”. De Gregori parla e dentro le persone che vanno e vengono e lo salutano e un po’ ascoltano quest’intervista, parte una musica, non muovono le labbra ma si capisce che stanno cantando.

Esce oggi in Italia “Sottomissione”: l’intervista a Michel Houellebecq

Dopo essere uscito in Francia lo scorso 7 gennaio, giorno dell’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo, arriva oggi nelle librerie italiane Sottomissione, il nuovo romanzo di Michel Houellebecq (edito da Bompiani)Pubblichiamo l’intervista che lo scrittore ha rilasciato a Stefano Montefiori per il Corriere della sera, e ringraziamo la testata e l’autore. (Fonte immagine)

di Stefano Montefiori

Parigi. Dopo l’attentato a Charlie Hebdo, il più celebre scrittore francese Michel Houellebecq ha lasciato Parigi, protetto dalla polizia. Il giorno del massacro alla redazione, il 7 gennaio, è uscito in Francia per Flammarion il suo ultimo romanzo, Sottomissione, che sarà nelle librerie italiane domani [oggi per chi legge, ndr], edito da Bompiani. Houellebecq immagina una Francia del 2022 dove il presidente musulmano Ben Abbes vince le elezioni, islamizza la società e progetta di ricreare in Europa e nel Mediterraneo una sorta di impero romano, unito dall’Islam. Houellebecq aveva sospeso la promozione del suo libro, ma ha scelto di mantenere l’impegno preso con il Corriere della Sera.

Arriva qualcuno a raccontarci tutta la storia di un immenso mare, l’Atlantico

Questo articolo è uscito su il Venerdì di Repubblica

Sfogliamo un atlante. O ancora meglio: prendiamo un mappamondo, osserviamolo, facciamolo girare. Quel che vediamo sono i continenti, le lingue di terra di cui non ci eravamo mai accorti, le catene montuose, le isole, grandi e piccole, i poli, i ghiacci con i loro contorni bianchi, grigiastri, immacolati e misteriosi. Il resto è mare. Mare immenso che è come un buco attorno alla vita. Il mappamondo, in genere, lo dipinge di azzurro. Sfumature ridotte al minimo. Ombre bianche attorno alle terre e nient’altro. Un azzurro nulla senza vita. D’altronde, cosa importa? Tutta quell’acqua è ciò che divide i continenti, ciò che impedisce le comunicazioni. Un ostacolo, insomma. Non dobbiamo saperne poi troppo. Sappiamo i nomi degli oceani, certo, e di alcuni mari, ma sono nomi che contengono il vuoto nulla di quell’azzurro indistinto. Finché non arriva qualcuno a raccontarci tutta la storia di un immenso mare, la storia dell’oceano per eccellenza, l’Atlantico.

L’onda della narrazione: raccontare il mare

Questo pezzo è uscito su Pagina 99.

“Se noi abbiamo bisogno del mare, il mare non ha bisogno di noi: può fare tranquillamente a meno dell’uomo”. Scriveva così lo storico francese Jules Michelet nel suo famoso saggio Il mare. Era il 1861. Da allora l’uomo non ha fatto che sfruttare, deturpare, insozzare quel mare così prezioso. All’epoca di Michelet non si conosceva il concetto di biodiversità, ma era già chiaro che l’uomo stava sbagliando qualcosa. Poi è venuto Jacques Cousteau, oceanografo e ecologista ante litteram, che disse: “Non è l’uomo che deve battersi contro una natura ostile, ma è la natura indifesa che da generazioni è vittima dell’umanità”.

Scrittore, a tua madre tornerai

Pubblichiamo la versione integrale di un articolo di Andrea Cirolla apparso su Pagina 99.

Sarà vero che sempre alla madre torna, la scrittrice, lo scrittore, come al ricordo più antico? Che non ne parli o che ne celebri il culto a ogni pagina, davvero non può fare a meno di sceglierla? Ma poi, perché parlare proprio di scrittori e di scrittrici? Perché non domandarsi della madre del broker finanziario, ad esempio, o del lavavetri sui grattacieli, o del disoccupato?

Servirà resistere al giudizio che vede banalità nel riferimento, e superare il dubbio di una corrispondenza scontata, perché se è evidente che scrivere non basta a rendere speciale il proprio rapporto con la madre, sarà pure necessario ammettere che solo uno scrittore potrà dire qualcosa della sua relazione dicendo al tempo stesso qualcosa anche della relazione degli altri; se non altro per una questione di mestiere. In altre parole: attraverso la “lente” dello scrittore ci si aspetta di vedere qualcosa di più; o al limite di vedere le stesse cose, ma più chiaramente. E allora, e al di là di tutto, e anche fuori dai libri, chi sono queste madri, qual è il loro volto?

Il grande romanzo americano lo scriverà uno straniero

Questo pezzo è uscito su Pagina 99.

“Appartengo soltanto alle mie parole. Non ho un paese, una cultura precisa. Se non lavorassi alle parole non mi sentirei presente sulla terra”, dice Jhumpa Lahiri, americana di origine bengalese che oggi vive in Italia e, dopo aver studiato l’italiano per vent’anni, ora sta scrivendo il suo primo libro nella nostra lingua (una raccolta di pezzi usciti su “Internazionale”). Jhumpa Lahiri, che è stata una delle prime voci potenti, originali, letterariamente rilevanti, tra gli americani di seconda generazione, è famosa per le sue storie, sempre a cavallo di due culture e due tradizioni, religioni e lingue – divenute presto dei classici, tanto che nel 2000 è stata premiata con il Pulitzer per “L’interprete dei malanni” (Guanda).

Intervista a Bernardo Valli

Questa intervista è uscita su IL a maggio 2013. (La foto è di Marco Visini.)

Vive a Parigi dal 1975 e mi colpisce che un uomo che ha raccontato i più grandi eventi storici e conflitti mondiali degli ultimi cinquant’anni si dichiari legato alla città da motivi puramente letterari: “Io sono un lettore, un lettore non studioso, un lettore-lettore. In questo quartiere”, il nono arrondissement, siamo a casa sua, in salotto, in un mattino di fine marzo freddo e coperto, “c’è tutta la letteratura francese dell’Ottocento. C’è l’Education Sentimentale, a Rue des Martyrs e via del quattro settembre… Flaubert abitava a Rue Herold, quando veniva da Rouen. Dov’è il museo della vie romantique viveva un pittore, che era il pittore dell’imperatrice Sissi, da lui veniva Lamartine, veniva Turgenev, veniva George Sand, era un luogo d’incontro. Se guarda nei romanzi di Balzac c’è ogni strada del quartiere, sono tutti luoghi della commedia umana. I racconti di Bel Ami alla Trinité, è lì che lui seduce la padrona, e lui abitava qua… Zola abitava qui. Voglio dire, qui c’è stato tutto quello che io ho letto da ragazzo… Cos’era la casa di un borghese della pianura padana nella mia giovinezza? C’erano tutti i romanzi francesi. Secondo me questa è la spiegazione per la quale io vivo bene a Parigi. Ha poco a che fare con la Francia di oggi”.

Mathias Enard scrive la nuova odissea, tra migranti morti nel Mediterraneo, primavere arabe, indignados, crisi economica

In Italia Mathias Énard non è un autore molto conosciuto, nonostante il suo quarto romanzo, Zona, pubblicato in Francia nel 2008 e tradotto in Italia da Rizzoli nel 2011, sia stato considerato un piccolo capolavoro (il suo nome accostato, in una sorta di canone europeo contemporaneo, a Jonathan Littell o W.G.Sebald): un libro composto praticamente di un solo ininterrotto periodo (a parte due brevi inserti), un romanzo senza punti che in 500 pagine racconta un omerico viaggio in treno di sei ore – da Milano e Roma – in cui si fanno i conti con le memorie personali e collettive di un’Europa che ha vissuto le violenze delle guerre etniche della ex-Jugoslavia e di altri invisibili conflitti; così era prevedibile che anche il suo nuovo romanzo, Via dei Ladri (sempre Rizzoli, sempre tradotto da Yasmina Mélaouah), uscisse in sordina, mentre invece basta poco per accorgersi che VdL si presenti come un romanzo centrale, sfidante, con l’ambizione non celata di raccontare cosa sta diventando il mondo intorno a noi, la nostra società e la nostra lingua