Il colore delle cose la mattina presto, ovvero perché lo stile di Ernest Hemingway è così indimenticabile

(fonte immagine)

C’è qualcosa nello stile di Ernest Hemingway che lo rende indimenticabile. Non è solamente quel suo modo celebre di narrare,così asciutto, snello, in cui ogni singola frase, ogni singola parola esprime esattamente quel che ha da dire, senza neanche un orpello, senza aggiungere nulla di più e nulla di meno a ciò che intende comunicare. Non è neanche il suo umorismo, sempre vivo, pungente, irresistibile, profondamente intelligente. Non sono i dialoghi, così essenziali, realistici e acuti. Non è la qualità del mondo rappresentato, tanto nitida e pervia, che consente al lettore di guardarci attraverso per contemplare l’essenza stessa delle cose. Si tratta piuttosto di un insieme di tutti questi fattori, un tratto unico del suo modo di scrivere che rende i suoi romanzi e i suoi racconti indimenticabili e immediatamente riconoscibili.

Il destino di animali e uomini nel Vecchio e il mare di Hemingway

Questo pezzo è uscito sull’ultimo numero di Confronti, dedicato agli animali e al rapporto tra uomo e animale.

Pochi giorni fa, un’amica mi ha chiesto di accompagnarla in una pasticceria per cani. Lì per lì sono rimasto spaesato, quasi afono, e ho finito per seguirla. Ma, mentre i clienti giravano per il locale con i rispettivi cagnolini in braccio per evitare che si sporcassero le zampette offrendo loro scintillanti gelati, le ho detto con chiarezza che mi pareva il sintomo di un mondo malato. “E quale sarebbe un rapporto sano con gli animali?” ha domandato lei “forse quello che piace tanto a te? il torero che uccide il toro?”. Esatto. Nel momento in cui il torero si confronta con il toro per l’ultima volta, prima di dargli la morte, ossia in quello che è chiamato “momento della verità”, risiede oggi ancora uno spiraglio per guardare a una relazione alta dell’essere umano con gli animali e con se stesso.

Come Vivere Nella Faccenda: rileggere Hemingway oggi

di Leonardo Merlini

Nel 1918 in un elegante palazzo del centro di Milano il giovane Ernest Hemingway fu ricoverato e curato per le ferite ricevute sul fronte italiano della Grande guerra. Cento anni dopo, in via Armorari rimane la lapide che ricorda quei giorni, e, accanto a essa, rimane la domanda di fondo su un autore che è diventato – in una certa misura con compiacimento, in un’altra suo malgrado – “l’icona  dello scrittore americano del Novecento” (come hanno scritto nel loro Dizionario Einaudi della letteratura americana dal 1900 a oggi Luca Briasco e Mattia Carratello), ma che anche è stato schiacciato dalla sua stessa immagine e, come aveva sottolineato Italo Calvino già negli anni Cinquanta, da quella “filosofia di vita di cruento turismo”, divenuta presto, nella temperie della contemporaneità, per molti insopportabile.

Vivere e lavorare alla Shakespeare & Company di Parigi

Dal nostro archivio, un pezzo di Sara Marzullo apparso su minima&moralia il 4 ottobre 2016.

È in una sera di fine giugno che Julia mi invita a cenare con gli altri tumbleweed nell’appartamento che un tempo era stato di George Whitman. Da un po’ a questa parte lo hanno messo a disposizione dello staff e dei ragazzi che dormono tra i libri, perché abbiano un posto dove cucinare; in questa stagione il tramonto arriva tardissimo e fuori dalla finestra Notre Dame è splendida come sono splendide le cose che non paiono mai vere.

Sotto il tavolo c’è Aggie, la gatta chiamata come Agatha Christie che un giorno è apparsa nella sezione dei gialli e che ha finito per essere adottata dalla libreria; se questa non fosse un’immagine davvero troppo stucchevole, direi che chiunque qui si sente come quel gatto: una volta che impari a muoverti in mezzo a quegli scaffali, andarsene diventa difficile.

La guerra di Brian Turner

Esistono tre modi di approcciarsi a un romanzo scritto da un non-scrittore. Il primo, che parrebbe il più diffuso, prevede un’immersione sincera e appassionata, e un senso di fiducia che assolve, esaltandoli, eventuali attentati alla struttura. È l’approccio, questo, che spinge i dylaniani a non accettare che un amico stimato abbia letto Tarantula con serietà e impegno, ma senza innamorarsene; che fa strabuzzare gli occhi di chi crede (soprattutto adesso) in Leonard Cohen, quando scorge Beautiful Losers tra i libri “da consultazione” dei propri contatti su Anobii – bello, importante, da riprendere, sì, ma in un altro momento. È l’approccio numero due: considerare il romanzo scritto da un non-scrittore alla stregua di quelle persone che stimiamo ma che scegliamo di non frequentare, se non in precise occasioni.

L’approccio numero tre, infine, è l’abbandono senza appello, il rifiuto fantozziano. Ora, questi tre approcci non sono una regola assoluta, e riguardano una categoria che a ben vedere è un’anti-categoria, e cioè: chi non fa lo scrittore di mestiere o chi, per meglio dire, non è per prima cosa scrittore (à la Hemingway).

Matthews, Fidel e il New York Times

«Fidel Castro, il ribelle, leader della gioventù di Cuba, è vivo e sta lottando duramente e con successo nell’aspra, quasi impenetrabile roccaforte della Sierra Maestra, nell’estremità meridionale dell’isola», recita l’incipit dell’articolo di Herbert Matthews, pubblicato dal New York Times il 24 febbraio 1957, che smentiva in modo clamoroso la morte di Castro e ne delineava la lotta.

Nel dicembre 1956, al contrario, si supponeva che Castro fosse stato ucciso insieme al fratello Raúl, colpiti subito allo sbarco sulla costa, e che i militari avessero i loro corpi. Almeno così riportava un dispaccio di United Press sul quale la corrispondente Phillips tentennò molto, e si spese invano per non farlo finire in pagina sul New York Times.

La passione di Herbert Lionel Matthews, uno dei corrispondenti esteri più influenti e controversi del XX secolo con alle spalle i campi di battaglia in Africa ed Europa, si era riaccesa per quello che stava avvenendo nell’isola caraibica. Aveva l’urgenza di andare a vedere con i propri occhi laggiù, oltre i 144 chilometri che separano Cuba dagli Usa, muovendosi dall’ufficio spazioso al decimo piano del Times Building a New York. Molto vicino e coccolato dall’editore Arthur Hays Sulzberger, dopo una vita al fronte, dal 1950 ricopriva il ruolo di editorialista, e ne approfittava per viaggiare e scrivere senza fretta. Nei diciassette anni successivi si occupò soltanto del Centro e dell’America Latina.

Don DeLillo, il grandissimo freddo

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo (fonte immagine).

NEW YORK. Per un uomo di sconfinate risorse la morte è, prima di tutto, un affronto imperdonabile. L’eccezione che conferma la regola aurea secondo la quale «per tutto il resto c’è Mastercard». Ross Lockhart, che ha fatto miliardi speculando sulle conseguenze finanziarie dei disastri naturali, non se ne capacita. Così, quando la seconda moglie Artis si ammala senza speranza, con un aereo privato la trasporta in una località segreta del deserto uzbeko che ospita la Convergenza, una via di mezzo tra una clinica zen, una prigione foucaultiana e il laboratorio dove si costruiscono i sensuali automi del film Ex Machina.

La specialità della casa è la crioconservazione. I morti vengono sospesi in capsule di azoto liquido nella speranza di scongelarli quando la medicina avrà capito come riparare gli organi difettosi. Sembra follia, ma all’ultima contabilità erano 144 i deceduti ospiti della Alcor, in Arizona, fiduciosi in tempi migliori. E io conosco almeno tre persone, tra cui uno scienziato stimatissimo, che hanno firmato un oneroso contratto con la suddetta compagnia per essere ibernati quando verrà il momento. Qui però siamo dentro la trama rarefatta di Zero K, il nuovo romanzo di Don DeLillo uscito in Italia l’11 ottobre per Einaudi (traduzione di Federica Aceto, pp. 240, euro 19). Un libro sull’elusivo senso della vita, sulla sua fine, sulle promesse messianiche della tecnologia, sulla guerra a bassa intensità in cui rovinano certi rapporti padri-figli e molto altro ancora.

La rotta dei profughi antichi

Pubblichiamo la prima di un reportage in tre puntate di Matteo Nucci apparso sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo. (Fonte immagine)

ILDIR (Turchia). I primi a prendere il mare in fuga, secondo i miti più antichi, furono ragazzi troiani. Nessuna guerra. Nessun nemico. A spingerli su barche solide, di notte, nel silenzio del mare nero di fronte a Tenedo, furono i genitori delle famiglie più importanti in città, terrorizzati dalle richieste di Apollo. Era una storia di errori non più rimediabili quella in cui finirono per trovarsi. Il rifiuto di pagare il tributo agli dèi che avevano aiutato Troia a munirsi di mura impenetrabili fu l’origine di ogni male.

La letteratura senza inconscio

Ripeschiamo dal nostro archivio un approfondimento di Gianluca Didino: buona lettura.

Simboli e racconti

Nel suo significato originario, il termine greco σύμβολον, da cui deriva l’italiano “simbolo”, indicava, cito l’Enciclopedia Treccani, un «mezzo di riconoscimento, di controllo e simili, costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto (per es. un pezzo di legno) che i discendenti di famiglie diverse conservavano come segno di reciproca amicizia». L’etimologia del termine contiene dunque il senso di un’unità spezzata che tende al ricongiungimento, un collegamento implicito tra due oggetti ora separati ma che un tempo avevano fatto parte di una stessa totalità. Da qui il significato del termine è passato a indicare un oggetto “che sta al posto” di qualcos’altro, traslando l’idea della connessione dal piano della realtà (le due parti del bastone) a quella delle idee (il senso di amicizia tra le due famiglie). Questo è il presupposto che ha permesso di attribuire al concetto di simbolo una concezione estetica, differenziandolo progressivamente dal semplice “segno”.

Kent Haruf e il giardiniere di Proust

(Attenzione, contiene spoiler)

La letteratura può servire per immergersi nella vita o per accomiatarsi da essa; per metterne in rilievo le asperità o per semplificarne i conflitti; per porre problemi o per illudersi di averli risolti. Per indole, preferisco cimentarmi con quegli scrittori che scelgono di rappresentare la complessità senza provare il bisogno di levigarne le asperità, che non hanno paura di confrontarsi con il lato più oscuro dell’animo umano.

Forse è proprio questo il motivo per cui i romanzi di Kent Haruf – la cui Trilogia della pianura è stata di recente pubblicata in Italia presso l’editore NN con buon successo di pubblico e critica – non mi hanno convinto: perché, secondo la mia percezione, essi vanno a collocarsi sul versante meno interessante di queste opposizioni.