Gli scrittori e i libri da Strand, a New York

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“Upstairs at the Strand”, il terzo piano di Strand (la libreria indipendente più famosa di New York, all’angolo tra la Broadway e la Dodicesima Est, a pochi metri da Union Square), è un luogo che per alcuni di noi rientra nella lista dei posti dove vai quando: 1) vuoi sentirti a casa; 2) vuoi spendere qualche soldo senza poi sentirti in colpa; 3) devi incontrare un tuo simile, per caso o per appuntamento; 4) devi comprare un regalo a qualcuno che come te ama i libri incondizionatamente.

Il terzo piano di Strand è quello dove c’è la stanza dei libri rari (e dove per raro si intendono anche le fanzine punk degli anni settanta e ottanta, vendute a un prezzo onesto, o i gialli tascabili degli anni sessanta). La maggior parte delle volte ci vai più per sentimento che per ammazzare il tempo, laddove l’affetto che provi per libri e scrittori è a tutti gli effetti un sentimento.

Al massimo diventeremo dei senzatetto molto istruiti. Di New York, i libri e altre ostinazioni romantiche

È in libreria Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America di Giulio D’Antona (minimum fax): pubblichiamo una conversazione tra Claudia Durastanti e l’autore e vi segnaliamo che oggi, domenica 3 aprile, alle 15 Giulio D’Antona presenta il libro alla fiera Book Pride di Milano con Laura Pezzino (Sala Mompracem) (Fonte immagine)

Anni fa, il mio primo caporedattore mi spiegò che non dovevo avere paura di telefonare a un autore che avevo amato e mi metteva in guardia da una soggezione che poteva risultare poco professionale. Non gli ho mai dato retta, e di telefonate di quel tipo ne ho fatte poche. Giulio D’Antona invece le ha fatte e ogni volta che l’ho sentito raccontare dei suoi soggiorni americani, ammetto di aver provato invidia per la disinvoltura con cui riusciva a rimediare appuntamenti con colossi come Renata Adler (oltre ad aver pensato che il mio primo caporedattore lo avrebbe assunto seduta stante).

Un tempo conosciuto come Quit the Doner

Mi sono trovato diverse volte nella posizione di discutere con Quit riguardo al problema del (suo) nome. La prima è stata a Torino, più o meno esattamente un anno fa. Era appena uscito il suo primo libro, Quitaly (Indiana, 2014) e la discussione si è protratta per tre giorni ed è sfociata in un profilo. La seconda volta è stato a Milano, in piena estate. Le cose sono andate più velocemente, perché sembrava che il grosso del lavoro fosse fatto: si preparava alla pubblicazione di un romanzo e non vedeva una grande urgenza di abbandonare lo pseudonimo — ma d’altra parte… E tutto si riapriva di nuovo. La terza volta è stato a New York, in autunno. A quel punto aveva cominciato a fare quasi tutto da solo, io avevo espresso le mie opinioni e non erano servite a granché per risolvergli il dubbio. Quindi, a dire la verità, è stato abbastanza sorprendente dover preparare questa intervista, perché non sapevo come sarebbe andata a finire. Il primo romanzo di Quit The Doner si chiama Lascia stare la gallina (Bompiani, 2015) e uscirà il 21 maggio . Porta con sé alcuni passaggi fondamentali per la vita e per il lavoro dell’autore, che cominciano da una domanda molto più importante di quanto non sembri.
Come ti chiami?
Martina Veltron… ah no scusa Daniele Rielli.
E fin ora come ti hanno chiamato?
Quit , Quit the doner, Doner, o KKASSTA.

Restituire le palle a Dio. Breve storia del dottor Hunter S. Thompson

Questo pezzo è uscito sul numero di aprile di Blow Up.

Ventidue fucili, esposti in una teca nella cucina dell’Owl Farm, il complesso fortificato nel cuore del nulla di Woody Creek, Colorado. Ventidue fucili nella teca senza lucchetto e lui che immerso nella neve fino alle ginocchia, gambe a fisarmonica, maniche di camicia, feluca e una sigaretta penzolante da un bocchino all’angolo del labbro, punta una 44. magnum alla sua macchina da scrivere. La vita del dottor Hunter S. Thompson è tutta qui: un elenco di gesti plateali, di uscite spettacolari, senza riuscire a stare fermo ma costantemente annoiato al punto di non poter fare a meno di auto-stimolarsi infilandosi nelle situazione più assurde, con in corpo un ammontare di litri di alcol e droghe sintetiche da abbattere un pugile professionista.

Facciamoci del male, in vita di Michele Apicella

(Immagine: Nanni Moretti/Michele Apicella in Bianca.)

Il problema con Apicella è che non andava mai bene niente.

Il problema con Apicella è che era tutto troppo: troppo rumoroso, troppo silenzioso, troppo colorato, troppo grigio. Oppure non abbastanza, che poi è un troppo al contrario. Vedeva tutto come perfezionabile, ma non era mai disposto a cercare di perfezionare se stesso. Si definiva perfetto, ma non si piaceva, per cui pensava che non ci fosse nulla da fare. Non esistevano mezze misure, Apicella le odiava, ma non poteva sopportare gli eccessi, aveva paura di tutto e la maggior parte delle cose che toccava gli facevano schifo. Il contatto con le altre persone gli faceva schifo, forse per questo nessuno lo ha mai visto stare veramente con una ragazza.

Gli piaceva seguirle, le ragazze, desiderarle, sognarle tutte le notti mentre erano lontane e poi, quando finalmente le incontrava, si metteva a fissarle con quegli occhi enormi e gli veniva una rabbia dentro che lo costringeva a correre via dal ristorante. Io non voglio morire, diceva. Il problema con Apicella è che non si capiva mai cosa intendesse. Era stonato ma gli piaceva cantare, anzi mentre cantava sembrava quasi felice, per il resto si aggirava con le spalle cadenti e il fare nostalgico, in attesa che qualcuno gli rivolgesse la parola solo per dargli contro agitando quelle braccia magre e lunghissime, roteando i polsi e sventolando il ciuffo sulla fronte. Giocava a fare il contrario sperando che gli altri lo notassero, ma in fondo a nessuno importava niente.

Vuoto totale. David Foster Wallace e internet

Nella foto: un taccuino di David Foster Wallace. (Fonte immagine: The New Yorker.)

Lo scorso settembre Bret Easton Ellis ha definito più che pubblicamente – via Twitter – David Foster Wallace un impostore, marcando il proprio territorio in 140 caratteri. Come spesso capita, la notizia ha rimbalzato a destra e a sinistra per qualche giorno, poi si è affievolita in favore di una nuova micro-opinione che, magari, consentisse la replica della persona tirata in ballo. Il compianto Wallace è morto suicida nel 2008.

Molti si sono chiesti cosa avrebbe fatto se fosse stato vivo nel momento in cui Ellis decideva di sguainare la sua spada cinguettante – posto che David non avesse ancora dimostrato di essere il genio che viene considerato e che Bret non avesse trovato il modo di apprezzarlo. La risposta è semplice: assolutamente niente.

Portlandia. Gli anni dei divani

Pubblichiamo un articolo di Giulio D’Antona sulla serie tv «Portlandia».

di Giulio D’Antona

Non so ancora bene come pormi nei confronti degli hipster. Mi piacciono o non mi piacciono? Quanto si discostano dal radical chic?

L’alt-country mi piace, i maglioncini a motivi geometrici mi piacciono, i ray-ban clubmaster mi piacciono. Non mi piace il culto della bicicletta, ma mi piace il cibo biologico, anche se non mi piace il costo, del cibo biologico. La barba mi piace. Mi piacciono i tatuaggi in stile Sailor Jerry, non mi piacciono i tunnel ai lobi. Non mi piacciono le creste, e questo va bene perché non piacciono neanche a loro, ma non mi piacciono nemmeno i ciuffettoni davanti agli occhi.

Mi piace Portland – Oregon, e mi piace Portlandia, è un bene o un male?