Grand Ludwig Hotel

Questo pezzo è uscito sul Foglio.

Je suis Charlie? Mah. Piuttosto, Ich bin Ludwig, dunque via, via dall’Europa reale sanguinolenta delle islamofobie e islamofilie, e invece ecco innocenti evasioni in un’Europa regale e felix, sulle tracce del monarca più scapricciato e keynesiano che il vecchio continente abbia mai prodotto, Ludwig II di Baviera. Si parte col nostro Corano d’elezione, “Fratelli d’Italia” di Alberto Arbasino, in ultima edizione Adelphi con peso da bagaglio a mano, manuale di successo per ragazzi anni Sessanta, e fondamentale Baedeker e Tripadvisor per gite fuori porta.

Eccoci dunque all’aeroporto Strauss di Monaco, dove accoglie un alcolico Riesling Bar intitolato al principe cancelliere Metternich; e poi in autostrada, superando a sinistra l’Allianz Arena, il nuovo stadio della coppia Herzog-De Meuron che sembra un borsone Chanel capottato oppure un copertone di camion rovesciato, come se ne trovano tra i guard rail: seguendo scrupolosamente l’itinerario arbasiniano tra questi famosi castelli di Ludwig (1845-1886), si parte da Herrenchiemsee, una Versailles neanche tanto in miniatura su un lago nerissimo, mai abitata dal re amante del cemento e del laterizio al chiaro di luna; qui, si sale al piccolo villaggio di Prien su un battello Josef con poltroncine e tappezzerie verde tabacco dello stesso colore delle campagne tedesche che si sono attraversate; attraverso vetratine lucidissime del piroscafo, con effetto Hopper, si vedono dentro coppie di anziani con canetti che mangiano piccoli bratwurst e pretzl, seduti su divanetti di chintz rossi decorati a piccole casine e ancorette, tipo Naj Oleari negli anni Ottanta.

Abercrombie & Fitch e la fine del ciabattaro

Michele Masneri oggi parte con i suoi infradito per il tour in Versilia, in attesa dell’incontro di domenica a Libri Come. È molto orgoglioso di questo suo pezzo uscito il 6 marzo sul Foglio.

Sarebbe un personaggio perfetto per un prossimo film di Paul Thomas Anderson, raccontatore brutalista di maschi alfa americani, dal “Petroliere” allo scientologo “The Master”: Mike Jeffries, inventore di Abercrombie & Fitch, marchio ghiandolare e aspirazionale dell’abbigliamento giovane nell’America clintoniana e bushiana, e oggi in crisi di identità e fatturati.

Il 28 gennaio scorso il manager è stato destituito dalla carica di presidente della società dopo un crollo delle vendite del 18 per cento nel terzo trimestre, la chiusura di oltre 170 negozi negli ultimi cinque anni e l’ottava trimestrale in rosso. E pur rimanendo ceo – non si sa ancora per quanto – è chiaro che un’epoca si è conclusa, quella della rinascita di un marchio che da classicone borghese il sessantanovenne manager aveva trasformato nel volto sessual-imperiale dell’America adolescente anni Novanta.