Edificare castelli. C’è un’alternativa alla desertificazione culturale?
C’è un racconto di Chuck Palahniuk dove lo scrittore si meraviglia del fatto che diverse persone abbiano speso tempo e soldi per edificare castelli in giro per gli Stati Uniti. Non si tratta di un’opera di fiction, perché il libro da cui è tratto, «La scimmia pensa, la scimmia fa», è composto da una serie di reportage narrativi che raccontano storie improbabili ma assolutamente vere. Anche se si tratta di un’attività completamente senza senso, almeno dal punto di vista pratico, se la si guarda da un’altra angolazione può non stupire più di tanto: i castelli sono forme che hanno smesso di abitare la sfera del valore d’uso ma non sono mai usciti da quella del simbolico.
Anche l’Italia ha avuto i suoi eccentrici “costruttori di castelli”. È il caso del Castello di Sammezzano, del cui destino incerto si è tornato a parlare di recente. O del Castello Pasquini di Castiglioncello, che è stato invece recuperato dal comune di Rosignano, in provincia di Livorno. Chi si aggira per le strade del teatro contemporaneo il Castello Pasquini lo conosce bene, perché è da anni la sede di Armunia e del suo lavoro preziosissimo tra danza e il teatro.
Shakespeare 400. Ancora nella Tempesta
Nel quinto atto del «La Tempesta» il mago Prospero, giunto alla conclusione della sua macchinazione che lo porterà a suon di incantesimi a riottenere il ducato di Milano e far sposare la sua Miranda con il figlio del Re di Napoli, decide di abbandonare la magia. Spezza la verga con cui dà ordini agli spiriti e sotterra il suo amato libro degli incantesimi.
Con un’assonanza abbastanza semplice, diversi studiosi hanno voluto vedere in questo monologo l’addio di William Shakespeare al teatro. «La Tempesta» è infatti l’ultima opera del drammaturgo inglese, andata in scena per la prima volta la notte di Ognissanti del 1611, cinque anni prima della sua morte, il 23 aprile del 1616.
Ricordando Claudio Abbado
Ricordiamo Claudio Abbado con un video in cui dirige la Sesta di Beethoven all’Accademia di Santa Cecilia e con un’intervista apparsa sul sito di Rai Radio3. Cogliamo l’occasione per ringraziare Radio3 per il prezioso lavoro di diffusione della musica classica e vi invitiamo ad ascoltare Classica Radio, Primo Movimento, La Barcaccia e Il Concerto del Mattino.
Tra il dicembre 1999 e il maggio 2000 Claudio Abbado e i Berliner Philharmoniker hanno realizzato una nuova incisione discografica delle Sinfonie di Beethoven, ora disponibili in un cofanetto di cinque CD pubblicato dalla Deutsche Grammophon. L’interpretazione offerta dal grande direttore italiano è assolutamente nuova: l’edizione critica di riferimento è la più recente di Jonathan del Mar. Il pensiero di Claudio Abbado è riportato in quest’intervista, parzialmente tratta dal libretto che accompagna la pubblicazione discografica.
Claudio Abbado a colloquio con Wolfgang Schreiber
Come si pone di fronte all’edizione delle Sinfonie beethoveniane, al problema delle partiture autografe e delle correzioni del compositore, alle Stichvorlagen (matrici per l’incisore), alle parti orchestrali…, e quali sono le peculiarità della nuova edizione a cura di Jonathan Del Mar?
È una fortuna avere oggi a disposizione l’edizione di Jonathan Del Mar; io ho deciso di valermene, poiché si tratta di un lavoro critico di altissimo livello. L’autore stesso scrive che molte delle sue osservazioni vanno intese come stimoli, e ciò mi ha consentito di operare scelte competenti fra varie possibilità documentate e plausibili.
Peter Brook agli occupanti del Valle
Qualche mese fa, Peter Brook inviò questo videomessaggio agli occupanti del Valle. Il riferimento alle elezioni italiane può essere datato, tutto il resto viene dal presente. Lo proponiamo ai lettori di minima&moralia perché crediamo nel suo valore educativo. Uno dei più noti registi teatrali a livello mondiale dice una cosa molto semplice: fare, in luogo di non fare. “Fare, in luogo di non avere fatto” è anche il verso di una celebre e da me molto amata poesia di Ezra Pound. Questa, non è vanità.
A lezione di satira dentro il ministero
Questo pezzo è uscito sul manifesto. (Nella foto: una scena della pièce tratta da Firdousi andata in scena al Teatro nazionale di Kabul; scatto di Giuliano Battiston.)
Da queste parti, i paradossi diventano plausibili, assumono sembianze verosimili, si fanno realtà. Prendiamo quanto è accaduto qualche giorno fa qui a Kabul, nella capitale di un paese a sovranità limitata e sotto occupazione militare. Appena arrivato in città sono andato a salutare Timur Hakimyar, il direttore della Foundation for Culture and Civil Society, una delle tante organizzazioni (ma tra le più serie e oneste) nate su impulso e sostegno della comunità internazionale dopo il rovesciamento dell’Emirato islamico. Il suo ufficio si trova all’ingresso di Deh Afganan, un vivace quartiere popolare non lontano dal bazar principale e sulle cui stradine scoscese si avventurano ben pochi stranieri, tranne quelli diretti da lui, a via Joye Sheer («ruscello di latte»).
Il valore delle storie. Serie tv ed esperienza contemporanea
Narrazioni di ogni genere e tipo: come già scriveva Raymond Williams, l’uomo non ha mai visto (e sentito, e letto) tante storie quanto nell’età contemporanea. Ma si tratta sempre delle stesse storie? E queste svolgono le stesse funzioni, hanno le stesse implicazioni, fissate da Aristotele in avanti? Per certi versi, sì. A ben guardare, però, negli ultimi anni, il cinema e la serialità ne hanno cambiato in parte la natura. E la visione, non più guadagno di esperienza, lascia spazio al disincanto. Pubblichiamo un articolo di Federico Di Chio uscito sull’ultimo numero della rivista «Link».
di Federico Di Chio
In uno dei suoi scritti, Walter Benjamin annota con una certa sorpresa il fatto che alcuni reduci della prima guerra mondiale, una volta tornati a casa, non riuscissero a raccontare – cioè non volessero o non potessero raccontare – nulla di quanto vissuto. Lo stesso succede all’inizio di Heimat, la lunga opera di Edgar Reitz: un giovane torna a casa dal fronte (siamo alle soglie del 1919); è muto e resterà muto per molto tempo. Ancora: in Shoah (1985), di Claude Lanzmann (opera monumentale, costruita a partire da oltre 350 ore di interviste a superstiti dei campi di concentramento nazisti e testimoni diretti) troviamo una galleria infinita di individui incapaci di raccontare, titubanti, reticenti, sopraffatti dall’emozione, bloccati da uno choc mai assorbito. Ci sono cose, insomma, (vissuti, esperienze) che proprio non riusciamo a raccontare. Perché non le abbiamo “metabolizzate”, “elaborate” (per dirla con Freud), “ri-figurate” (Ricoeur).
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Stato dell’arte e proposta teorica