La letteratura senza inconscio

Ripeschiamo dal nostro archivio un approfondimento di Gianluca Didino: buona lettura.

Simboli e racconti

Nel suo significato originario, il termine greco σύμβολον, da cui deriva l’italiano “simbolo”, indicava, cito l’Enciclopedia Treccani, un «mezzo di riconoscimento, di controllo e simili, costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto (per es. un pezzo di legno) che i discendenti di famiglie diverse conservavano come segno di reciproca amicizia». L’etimologia del termine contiene dunque il senso di un’unità spezzata che tende al ricongiungimento, un collegamento implicito tra due oggetti ora separati ma che un tempo avevano fatto parte di una stessa totalità. Da qui il significato del termine è passato a indicare un oggetto “che sta al posto” di qualcos’altro, traslando l’idea della connessione dal piano della realtà (le due parti del bastone) a quella delle idee (il senso di amicizia tra le due famiglie). Questo è il presupposto che ha permesso di attribuire al concetto di simbolo una concezione estetica, differenziandolo progressivamente dal semplice “segno”.

Quanto piace la guerra ai National Book Award

di Matteo Bolzonella

Qualche mese fa, quando ho appreso la notizia che il National Book Award 2014 l’aveva vinto una raccolta di racconti sulla guerra in Iraq, sarò sincero, ho avuto paura. Ho avuto paura che il libro in questione potesse avvicinarsi allo spettro del banale,che potesse assomigliare ad un miscuglio ben scritto (si parla sempre e comunque di un vincitore dell’N.B.A.) di cliché alla American Sniper, proseguendo su una tradizione che fa del patriottismo vecchio stile americano e del lato umano del buon soldato statunitense costretto a malincuore ad obbedire agli ordini di superiori spietati, le sue teste d’ariete per far breccia nel cuore dello statunitense medio (e del botteghino medio).Timori del tutto immotivati, legati a sensazioni personali e forse dovuti a un po’ di malizioso pregiudizio, timori che mi hanno fatto rimandare la lettura di Redemployment fino all’uscita della traduzione italiana di Silvia Pareschi uscita per Einaudi lo scorso maggio.

Raccontare l’Iraq: Fine Missione di Phil Klay

(fonte immagine)

di Sara Marzullo

La prima cosa che fa il sergente Price appena rientrato a casa è baciare sua moglie e accarezzare il suo cane: se lo ricordava più in forma, ma è anche vero che la vita di prima sembra lontanissima adesso che è rientrato dalla missione e, se a Ulisse sono serviti vent’anni per ritrovare la strada di casa, possono bastano sette mesi per dimenticarsi com’era vivere qua. Qualche tempo dopo, Price porta il cane vicino al fiume e gli spara tre colpi, due al corpo e uno alla testa, perché non soffra più: in Iraq chiamavano questa cosa missione Scooby, e serviva perché i cani non mangiassero i cadaveri, ma da questa distanza non sembra che un modo per insegnarti a vedere i corpi come tacche, macchie luminescenti che sbiadiscono improvvisamente quando sono colpiti. Quelle degli uomini sono di un bianco abbagliante, spiegano, e i bambini differiscono dai bersagli d’addestramento solo per le dimensioni; nessuno ti spiega che fare se sbagli, però, né come fare a tornare.