L’importanza dell’antifascismo. Una conversazione con Davide La Rosa

“E come ogni anno, prima del 25 aprile, il fascistume residuo di cui purtroppo il nostro paese non è ancora riuscito a liberarsi, tira fuori la testa e cerca un po’ di visibilità sulla pelle di chi è morto per liberare il nostro paese. È tipo una tassa, ormai.”.

Così, con consueta lucidità, Emiliano Rubbi ha ben sintetizzato la situazione, in un suo post pubblicato sul suo profilo Facebook.

Ci troviamo, ancora, una volta a dover lottare per ribadire l’ovvio: l’opposto di fascismo non è comunismo ma democrazia, dunque l’antifascismo non è una fissazione della sinistra ma la base stessa della nostra Repubblica. Tutto il resto è, se in malafede, propaganda fuori tempo massimo, se in buonafede, una grossolana incomprensione del concetto stesso di democrazia.

Vera e Franca

Vera Vigevani è in Italia per una serie di conferenze e incontri: a Roma, il 19 ottobre presso la Fondazione Basso, presenterà il libro Il Carro della vita. Qui e qui gli altri pezzi pubblicati su minima&moralia dedicati alla questione argentina.

La voce di Vera Vigevani, milanese classe 1928, è dolce, decisa e squillante come se fosse animata dalla gioventù coraggiosa di sua figlia, Franca Jarach. Nel 1939 Vera fu costretta dalle leggi razziali ad abbandonare insieme ai genitori l’Italia destinazione Argentina: «Ho compiuto undici anni sulla nave – racconta – . Ero una bambina, ma quelle cose non si dimenticano come quando mi hanno cacciata da scuola in quanto ebrea. È stata la prima ingiustizia che ho conosciuto nella mia vita. Poco più piccola mio padre, che mi aveva spiegato cosa volesse dire fare l’avvocato, mi portò davanti alla facciata del tribunale cittadino e mi parlò della giustizia. Ho sempre creduto fosse una cosa meravigliosa».

Pio La Torre è stato una storia diversa

Pubblichiamo la prima parte di un lungo ritratto di Pio La Torre realizzato da Gabriele Santoro a partire dal libro Sulle ginocchia. Pio La torre, una storia, scritto dal figlio Franco per Melampo.

Per la foto ringraziamo l’archivio online del Centro studi Pio La Torre.

1. La terra a tutti

«Due di maggio, bandiere al vento. Son morti due compagni, ne nascono altri cento», urlarono dal cuore del corteo. In fondo però sapevano anche loro che la morte violenta di Pio La Torre e Rosario Di Salvo non era una ferita suturabile. A Enrico Berlinguer, e soprattutto al Paese, il terrorismo politico mafioso, che ha dettato parte cospicua dell’agenda dei giorni nostri, aveva sottratto due uomini valorosi. «(…) Perché hanno ucciso La Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e popolo. Era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire ampie alleanze con forze e uomini sani, democratici di altre tendenze; di prendere iniziative che colpivano nel segno», scandì il segretario del Partito Comunista Italiano durante l’orazione funebre.

Una strage di mafia, trent’anni fa

Trent’anni fa, il 2 aprile 1985, un’autobomba esplose a Pizzolungo, vicino Trapani, uccidendo Barbara Rizzo, 31 anni, e due dei suoi tre figli, Giuseppe e Salvatore, entrambi di 6 anni. Il tritolo era destinato al magistrato Carlo Palermo, sopravvissuto alla strage.
Pubblichiamo un estratto dal libro Sola con te in un futuro aprile, pubblicato da Fandango e scritto da Michela Gargiulo e Margherita Asta, figlia di Barbara scampata all’attentato.

di Michela Gargiulo e Margherita Asta

La cattedrale di San Lorenzo è piena di gente, io e mio padre non riusciamo a passare. Entriamo da un ingresso laterale. Il nostro posto è davanti all’altare.

Davanti a noi ci sono le bare di mia madre e dei miei fratelli. Al centro quella scura di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto a lei quelle più piccole e bianche, con i gigli, di Salvatore e Giuseppe. Quando sono uscita di casa, questa mattina, ho trovato il pallone di Giuseppe, era dietro la magnolia.

Quel silenzio da numero uno. L’intervista a Dino Zoff

Pubblichiamo un’intervista Malcom Pagani a Dino Zoff apparsa sul Fatto quotidiano. Ringraziamo l’autore e la testata. (Nella foto, Dino Zoff con Gaetano Scirea. Fonte immagine)

di Malcom Pagani

Se il signor Zoff parlava poco, una ragione c’era: “A casa mia le regole non erano scritte, ma scolpite. Si viveva di realtà e di concretezza, per scuse puerili e vittimismi non esisteva spazio”. Specchiandosi nel fiume Aniene, l’uomo che superò il guado a tempo debito confessa che avrebbe avuto ancora voglia di remare. Il pudore di sempre. L’amarezza lenita dall’ironia: “Mi chiede se mi sarebbe piaciuto dare una mano al calcio italiano di oggi? Onestamente sì, sa cosa mi ha fregato? L’età. Sono vecchio. Ho 72 anni, conosco le persone che comandano il gioco e loro sanno perfettamente chi sono io”.