Nel paese della tempesta selvaggia

di Simone di Biasio

Cos’è che ci muove al pianto in questa “Tempesta”? Quale incantesimo ci tiene cogli occhi spalancati sprofondati sulla poltrona a seguire gli sviluppi di nient’altro che un esercizio di magia, di immaginazione? La ragazza con il cappotto rosso ha appena assistito alla messa in scena dell’opera shakespeariana al Teatro Eliseo di Roma: prima di alzarsi per lasciare la platea, riunisce il viso dentro le sue mani, si china verso le gambe, i suoi ricci sipario alla commozione («Spalanca il frangiato / sipario dei tuoi occhi»[1], Prospero a Miranda).

Quello che non si comprende vale più di quanto si pensa di aver capito. Viene il dubbio che, sulla scia della fiction prosperiana, non sia finzione anche la credenza che il fratello del duca di Milano ne usurpi il trono, se non sia solo una prosperiana congettura figlia del ritiro del vero duca dal regno di corte al regno di carta dei suoi libri, del suo sapere, della sua fantasia. Miranda è letteralmente, letterariamente rapita dal racconto di suo padre, padrelingua, padre cantastorie: lei stessa non sa se ciò cui Prospero accenna sia vero, verosimile, falso, immaginato, pensato, creduto, naufragato, approdato. Ma lo com-prende.

Ribellarsi nell’America segregazionista. “Un altro tamburo” di William Melvin Kelley

di Giorgia Sallusti

«What we did was to help our generation realize
They got to get busy cause it wasn’t gonna be televised.»
Gil Scott-Heron, Message to the Messengers

In The Tempest, scritta intorno al 1610, William Shakespeare arma Prospero delle seguenti parole: «But as ’tis, we cannot: he does make our fire, fetch in our wood, and serve in offices that profit us. What ho! Slave! Caliban! Thou earth, thou!», e così nel primo atto entra in scena Caliban lo schiavo. È selvaggio, bestiale, deforme, «fango» lo chiama Prospero; soprattutto, Caliban è nero. Caliban è fango anche per i personaggi di The Turner Diaries (in Italia per Bietti editore col titolo La seconda guerra civile americana), romanzo distopico di Andrew Macdonald (pseudonimo di William Luther Pierce) del 1978, manifesto e bibbia dei suprematisti bianchi ancora oggi. Macdonald-Pierce ipotizza una guerra civile che porti alla pulizia etnica di tutti i non bianchi (neri, asiatici, ebrei), spazzati via dal Nordamerica, e renda finalmente gli Stati Uniti lo specchio della Gerusalemme celeste cantata nell’Apocalisse di Giovanni. Ma se i neri scomparissero dall’America, sarebbe davvero così? E se ne andassero di loro spontanea volontà?

Rileggendo Shakespeare: intervista a Giovanni Nucci

Non lasciatevi ingannare dal titolo, suggestivo ma fuorviante. La differenziazione dell’umido. E altre storie politiche di Giovanni Nucci (Italo Svevo Libri) non è un divertissement letterario, né una elucubrazione sterilmente distante della realtà: al contrario, è una delle più lucide letture sulla contemporaneità.

Nell’assordante e vano cianciare degli ultimi mesi, la riflessione che propone Nucci è tra le poche che aiutano veramente a comprendere il presente allucinante che stiamo vivendo. Si tratta di un libro di rara intelligenza, a tratti formidabile. Ripetiamo, il titolo è beffardamente fuorviante: Nucci, in realtà, si produce in una appassionata e urgente dissertazione sull’attualità del Giulio Cesare shakespeariano. La tragedia romana del Bardo si impone, nella ponderata interpretazione di Nucci,  come cruciale chiave di lettura della disperante contemporaneità politica.

Quando la letteratura è d’acqua

Il rapporto di Shakespeare con la forza dell’acqua muta nel tempo. In un primo momento, con La dodicesima notte, ne racconta solo conseguenze. Viola entra in scena spaesata, sopravvissuta a un naufragio, e chiede ai pochi superstiti su che terra siano approdati. È convinta che il mare si sia preso suo fratello, Sebastian, così come lui, presente dal secondo atto, crede lei «annegata […] nell’acqua salata». L’immagine della donna sulla spiaggia d’Illiria, seguita da marinai e capitano, pone alle spalle l’esperienza di morte che scatena l’azione e il mutamento: i due protagonisti si muovono sulla scena già cambiati dalla catastrofe, e intenzionati a giocare con quel che resta.

La tempesta, scritta circa dieci anni dopo, si compone degli stessi ingredienti, proposti in dosi diverse. Anche qui, tra primo e secondo atto, due familiari si cedono il testimone del credersi reciprocamente morti. Si ripete addirittura, ma è meno importante, un Sebastian(o). Tutto cambia, però, se si pensa al modo in cui la tempesta, fin dal titolo, acquista centralità: la scena si apre sul mare burrascoso, e i tentativi di mettersi in salvo sono descritti in modo dettagliato. L’acqua, come nella storia di Viola e Sebastian, è un elemento risolutivo, ma qui presentato in azione, nella sua piena, purgatoriale complessità. Alleata di Prospero (che, mago, dialoga bene con gli elementi), nemica di suo fratello Antonio, l’usurpatore. Madre e potenziale assassina.

Shakespeare 400. Ancora nella Tempesta

(fonte immagine)

Nel quinto atto del «La Tempesta» il mago Prospero, giunto alla conclusione della sua macchinazione che lo porterà a suon di incantesimi a riottenere il ducato di Milano e far sposare la sua Miranda con il figlio del Re di Napoli, decide di abbandonare la magia. Spezza la verga con cui dà ordini agli spiriti e sotterra il suo amato libro degli incantesimi.

Con un’assonanza abbastanza semplice, diversi studiosi hanno voluto vedere in questo monologo l’addio di William Shakespeare al teatro. «La Tempesta» è infatti l’ultima opera del drammaturgo inglese, andata in scena per la prima volta la notte di Ognissanti del 1611, cinque anni prima della sua morte, il 23 aprile del 1616.

Shakespeare 400

Il 23 aprile del 1616, esattamente quattrocento anni fa, moriva a Stradford-upon-Avon William Shakespeare, nello stesso luogo in cui era nato 52 anni prima.

In Gran Bretagna i prossimi mesi saranno all’insegna di una sorta di “giubileo shakespeariano”: un sito intero è dedicato all’anniversario, un calendario con celebrazioni, messe in scena, rassegne e parate e iniziative per ricordare quello che probabilmente è stato il massimo autore di sempre.

Questa è la casa in cui si presume sia nato il poeta e drammaturgo inglese.

Pretty Deadly: il fumetto western di Kelly Sue DeConnick

Questo pezzo è uscito su RSera (fonte immagine).

Una chioma rossa accesa, un parlare deciso e fermo ma col sorriso, negli Stati Uniti il suo nome è sempre presente quando si parla di “donne nel fumetto”.

È una delle non tantissime sceneggiatrici in un mondo soprattutto maschile, ma lei non vuole sentirne parlare, non sopporta di essere un fenomeno da baraccone, ha tutta la grinta e la bravura per affermarsi indipendentemente da questo discorso, e preferisce parlare dei suoi personaggi, femminili ma ben lontani dagli stereotipi di genere.

Il canone (americano) di Harold Bloom

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo (fonte immagine).

Prima di parlare del Sublime, tema molto caro al vetusto e controverso principe dei critici Harold Bloom, bisogna dar conto di qualche mediocrità. L’anno scorso, appena uscito negli Stati Uniti il suo The Daemon Knows: Literary Greatness and the American Sublime, è partita la solita zuffa. Tagliando e incollando qualche riga estrapolata dal ponderoso tomo, Vanity Fair ha presentato i dodici autori americani che a parere di Bloom incarnano «lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo»: Whitman, Hawthorne, Melville e compagnia di defunti maschi bianchi (con l’eccezione di Emily Dickinson).

La meccanica della retorica. Intervista a Romeo Castellucci attorno ai “Pezzi staccati” del Giulio Cesare

(fonte immagine)

Parto da un appunto personale. Quando ho visto la versione originale del «Giulio Cesare» della Socìetas Raffaello Sanzio avevo circa vent’anni e per me fu una specie di folgorazione. Diverse delle immagini dello spettacolo si fissarono nella memoria con un fuoco indelebile: la proiezione delle corde vocali di uno degli attori durante il suo monologo, esplorate grazie ad una sonda endoscopica; un Cicerone obeso che portava impresse sulla sua schiena enorme le chiavi del “Violon d’Ingres” di Man Ray; l’ingresso di un cavallo vero sulla scena e il suo scheletro che compare nel “doppio” bruciato del secondo atto; i corpi di due giovani anoressiche che incarnavano, letteralmente, la fragilità di Bruto e Cassio; un Marcantonio laringectomizzato che trascina l’arte oratoria in una sonorità alterata nella quale non è solita muoversi.

Se la Rivoluzione ci parla di fragilità. Intervista a Mario Martone

(fonte immagine)

Georg Büchner morì a Zurigo nel febbraio del 1937 a soli 24 anni, lasciando come traccia della sua breve esistenza un paio di testi teatrali – di cui uno incompiuto – ed un racconto. Opere che avrebbero segnato indelebilmente il teatro mondiale, nonostante le prime rappresentazioni avvennero a settant’anni dalla morte dell’autore, ovvero nel nuovo secolo, il Novecento.

Se il «Woyzeck» è diventato nel tempo un banco di prova irrinunciabile per molti registi, grazie anche al fascino che il non-finito ha esercitato sul Novecento, assai maggior reverenza ha suscitato il testo che Büchner dedicò alla Rivoluzione Francese, Dantons Tod, «Morte di Danton». Dramma corale dalla struttura imponente, la «Morte di Danton» è un fiume che travolge lo spettatore così come la Rivoluzione travolse, deviandolo, il corso della Storia.