“O agora que demora”, l’opera di Christiane Jatahy premiata a Venezia

Christiane Jatahy, Leone d’oro alla carriera / Courtesy La Biennale di Venezia – © Andrea Avezzù 

di Mario De Santis

Il Leone d’oro alla Biennale Teatro 2022 è andato alla regista brasiliana Christiane Jatahy, una delle protagoniste più innovative della scena internazionale. Il suo è un teatro che sconfina, esplorando diverse discipline artistiche parallelamente ad un acuto, intenso lavoro su raddoppiamento di realtà e finzione, attore e personaggio, teatro e cinema nella stessa opera che però rimane potentemente e fisicamente teatrale.

Il primo successo è stato nel 2010 Julia, da La signorina Giulia di Strindberg, tra le opere che sono seguite notevole accoglienza c’è stata anche nel 2014 per  E se elas fossem para Moscou? da Le tre sorelle di Cechov. Anche nello spettacolo portato in prima nazionale a Venezia un punto di partenza è stato un classico, stavolta l’archetipo della letteratura occidentale: l’Odissea di Omero. La declinazione però ha portato Jatahy a confrontarsi con i temi di attualità, iniziando a scrivere, girare e lavorare con gli attori, subito dopo le crisi migratorie in Europa, nel 2015. Il risultato è stato l’opera-mondo O agora que demora – tra film, finzione, teatro, narrazione autobiografica  – in cui la stessa ha intrapreso un lungo viaggio di documentazione attraverso alcune esperienze di conflitto, esilio, fuga, guerra, distruzione, in cui parlano, narrano le loro gesta, sovrapponendole a Omero: rifugiati, chi ha perso la casa, la famiglia per la guerra o per conflitti radicali come quelli razziali del Sud Africa. Sono – citando La Storia di Elsa Morante – “scandali che durano da diecimila anni”.

L’opera, come le altre, usa il cinema, ma lo sa portare dentro lo spazio teatrale, immergendolo in una fisicità che è sia attoriale che del pubblico, chiamato a superare confini di percezione e categorie estetiche. Jatahy abolisce i confini del palcoscenico, per parlare dei confini del globo, delle limitazioni e costruzioni. Anche la meta teatralità (e meta letterarietà) diventa parte della realtà debordante, persistente ancora adesso (il O agora que demora  – con un gioco i parole con l’accento agora/agorà, adesso/piazza – potrebbe essere tradotto “L’adesso che trabocca” o “il persistente adesso” ). Jatahy ha infatti seguit i racconti di persone che fanno teatro e che hanno vissuto l’esperienza della guerra, del conflitto, dell’esilio. Girato in Palestina, Libano, Grecia, Sud Africa e Brasile, ai professionisti del teatro e insieme rifugiati ha fatto raccontare le loro odisse, il vivere nel limbo dei campi profughi senza alcuna prospettiva di tornare a casa o trovare un posto.

Molte persone/personaggi, gli attori che vediamo nelle parti in video sono ancora nei campi, altri in sala. Come Yara Ktaish, performer siriana, che è oggi in Europa, e il suo essere a Venezia Biennale 2022 con la sua “presenza fisica” è un vessillo di “habeas corpus”, oltre che simbolo del ritorno in presenza nei teatri con corpi e volti. Il pubblico è parte della macchina teatrale, gli attori in presenza sono tra il pubblico, da lì raccontano, ballano, fanno ballare, ancora mescolando le tre dimensioni.

Partendo dalla bellissima sequenza in sovrapposizione di racconti, tra i fatti siriani del 2011 e quelli di Omero, non portando la realtà in una storia di fantasia (come sarebbe attualizzare l’Odissea mettendola in scena)  ma di immergere le storie di Omero in un’esperienza vissuta, vera. Perché forse, in attesa di un ritorno alla dignità, al posto nel mondo da eleggere a propria Itaca, il primo “approdo” dell’esiliato è il racconto dell’Esilio, come insegna proprio l’Odissea. L’altro polo magnetico che Jatahy davvero tesse come una tela che ogni sera, ad ogni replica viene ritessuta di nuovo  in questi intrecci di multimedialità e corpi, è la biografia della stessa regista, che ha vissuto l’allontanamento, a suo modo l’esilio volontario dal Brasile in Belgio, prima di scegliere di tornare oggi, come primario impegno di intellettuale.

Non solo, Jatahy ha avuto il padre perseguitato e fatto sparire, quando la regista era bambina, dalla dittatura brasiliana del “Regime dei Gorillas” tra gli anni 60 e metà anni 80 ; non solo, il nonno, fuggito dal regime di Salazar in Brasile, si è ritrovato a vivere i primi momenti della medesima dittatura e diventa un polo magnetico della narrazione di O agora que demora la misteriosa sparizione del suo corpo, precipitato con un aereo insieme ad altri 50 persone in Amazzonia (dove tutto si concluderà) ma solo il corpo del nonno non sarà ritrovato. Nel mezzo le stratificazioni di molti racconti e luoghi, persone storie, un puzzle ben orchestrato, con qualche discontinuità, ma comprensibile per dare conto di materiali eterogenei. Il cuore centrale è ciò che esprime nel filmato, dentro il capo profughi del libano proprio Yara, che poi ripeterà in scena: la sensazione di essere in quel limbo, “nessuno” come Ulisse, ma senza ritorno. Per molti è un vero sparire nei non-luoghi del “campo”, in un’esistenza invisibile di queste  zone temporanee e perenni (anche li si vive un persistente presenze immobile) senza approdo né ritorno. L’esilio erode la persona, la svuota.

È come se Jatahy raccogliendo questo grido muto provasse a creare una comunità dei nessuno, una “comunità di chi non ha comunità” e proprio come nel racconto di Ulisse, quella condizione di apparente minorità si trasforma in colpo di teatro e salto di salvezza. Questa è ovviamente la speranza, benché la forza del lavoro di Jatahy sia nel farci stare nel mare aperto della tragedia e delle molte odisse di chi si è perso, ferito, con un’attenzione  – data proprio dall’intreccio narrativo, dalla bravura degli attori, dalla loro forza umana, dalla cura della fotografia, dal sapiente mescolamento tra platea parco e schermo anche con uso di camere live e montaggi in dalla consolle in scena – alla vita di queste creature, alla profonda umanità di una storia che dura e cerca in ciò che forse è permanente una radice, la elegge come tale.

La comunità di approdo può anche essere elettiva e futura, non necessariamente la patria. Lo stesso Brasile è fatto di una doppia ingiustizia coloniale: luogo di deportazione per gli schiavi della tratta Africana e poi colonizzazione interna, dei brasiliani verso gli indigeni (“Il Brasile colonizza sé stesso” ha detto la regista durante la premiazione). È a loro che Jatahy restituisce il bandolo delle storie, facendosi raccontare dagli ultimi testimoni di una tribù, quel che ricordano dell’aereo che cadde su cui volava il nonno. E con queste memorie anche quelle di un’Amazzonia in cui non c’erano mai stati bianchi. Non è solo attenzione alle vittime, qualcosa di più del riaffidarsi a mondi local-anti global, come se ne discute nei forum mondiali sociali dagli anni 90.

La forza poetica e esistenziale aggiuntiva dell’approdo della narrazione di O agora que demora è nel fare dell’ “essere nessuno” e senza patria una forza, come Ulisse con Ciclope. Se mi è tolto il luogo, io eleggo l’ovunque come “Heimat”. Così fa Jatahy chiedendo agli Indios di poterli eleggere come antenati, come  corpo vivente di un nonno che non lo ha più avuto.  Come nella tradizione giapponese i vasi rotti si riparavano con l’oro: se da un lato si riempiva il vuoto con il materiale ancora più prezioso della porcellana, dall’altro il riempimento non cancellava la crepa e la ferita, ma nello splendore ne esaltava la riparazione, ovvero nuova identità, affermazione  di ciò che è vivente e che resiste, forte perché fragile.

 

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