Short Theatre, la performance come corpo che ispira e cospira

di Mario De Santis

foto credit @Claudia Pajewski

Short theatre, da anni la rassegna di arti performative che – insieme al Roma Europa festival – porta nella capitale la parte più vivace e interessante dell’offerta teatrale nazionale e internazionale, dalla sua fondazione nel 2006. Sono state molte le opere e le personalità artistiche ospitate, con un programma articolato tra performance, danza, teatro, musica. Una scelta di ricerca rimarcata con la nuova direzione di Piersandra Di Matteo studiosa e drammaturga,  che da questo 2022 e per il prossimo biennio dirige la rassegna. Riunite dal titolo “Vibrant Matter” le proposte viste tra l’8 e il 18 settembre nello spazio del Mattatoio e in altri luoghi (Short Theatre si è esteso da quest’anno in vari luoghi della metropoli e anche della provincia)  mettevano in rilievo  modi diversi in cui, nello spazio della performance, sono attivi, esistono, partecipano i corpi. Si sottolinea ulteriormente:  “non solo quelli umani” – così è scritto nella frase della teorica femminista Karen Barad che apre le note del programma, ad evidenziare una volontà di concezione multiforme dello sguardo sul mondo. Tutti i corpi, secondo la filosofa americana ( autrice di una teoria indicata come “del realismo degli agenti” )  “arrivano a materializzarsi attraverso la intra-attività del mondo. La sua performatività”.

Lo spettacolo, dunque, come luogo non separato o doppio del reale, ma parte e azione di una complessa fenomenologia delle creature viventi che manifestano la vita e non solo la rappresentano. Il punto teorico dichiarato, su questa scia concettuale, da Di Matteo è partecipare al  continuum di naturacultura, in cui ci sono esperienze, ma sottraendosi a gerarchie di soggettività. Il mondo stesso, le cose, hanno un diritto di “essere”. La materia, se la pensiamo come mondo e ambiente, insomma non è solo materia-cosa di proprietà di un soggetto che esperisce.  Allo stesso modo la pluralità attraversa il corpo sociale che nello spazio-tempo della performance diventa evidente. Così, ad esempio, lo spazio in “Otello” della compagnia italiana Kinkaleri è partecipe della metamorfosi continua dei corpi e dei loro incastri-mutamenti, quasi esso stesso luogo modificato dalle composizioni dei performer che insieme a ciò danno corso ad uno degli emblemi della cultura occidentale, l’opera di Shakespeare in cui è tragicamente evidente la potenza violenta del linguaggio.

“Hacer Noche”, di Barbara Bonuelos, regista spagnola,  porta nel teatro la vita ne fa continuum di esperienza dell’incontro Carles Albert Gasulla, un guardiano di un parcheggio notturno a Barcellona, con il quale per un anno e mezzo ha intrattenuto un intenso scambio di letture e riflessioni da cui è nato lo spettacolo, che forse porta il peso eccessivo da un certo punto in poi della riflessione politico-teorica.
Ancora, la materia del mondo è partecipe e fusa al corpo umano, alla lettera, nella performance “Nebula” dell’attrice, danzatrice e regista brasiliana Vania Vaneau.
Vorrei soffermarmi in particolare però su due spettacoli. Il primo “Manifesto Transpofágico” scritto, diretto e interpretato da Renata Carvalho attrice, produttrice teatrale e transpologa (ovvero: antropologa transgender) brasiliana, che ha studiato la scelta e la condizione dell’ essere “ travestì” (è il termine usato in Brasile per le identità transessuali)  come ricerca e affermazione politica. Si parte innanzitutto dalla presenza in prima persona dell’autrice, che con il proprio corpo. Già questa immersione col pubblico è esperienza e accoglienza di ogni non-conformità.  La sua ‘transpologia’ ha come conseguenza la performance, proseguimento della sfida alle costruzioni sociali disumanizzanti, che permeano l’immaginario di senso comune (e quindi mediamente di noi spettatori, anche più disposti ) di cosa significhi essere trans.

In qualche modo un neo-habeas corpus nella riaffermazione di un diritto ad essere inclusi come corpo tra gli altri, dove tutti sono diversi, nessuno “normale”. Le cose e la carne, per il corpo di Renata Carvalho, si incontrano: sono i materiali con cui è stata modellata la sostanza della sua identità, a partire da un racconto crudo e insieme ironico dell’uso delle iniezioni di silicone industriale.  Il corpo transgender è da un lato vittima di repressione, sessualizzazione per stereotipi (inclusa la apparente inclusione nella società dello spettacolo del Carnevale o della Tv) e poi criminalizzazione come accaduto in Brasile e di cui “Manifesto Transpofágico”si fa narrazione. La ‘transpofagia’ diventa,  nell’azione teatrale , oltre la narrazione (e con venature da rito para-evangelico del mangiare il corpo sacro) la possibilità di entrare a contatto con quel corpo. Ad un certo punto si vira infatti in happening, un botta e risposta col pubblico in cui Renata Carvalho spiega, muovendo dalla scena alla platea,  le declinazioni anche linguistiche necessarie per comprendere la donna trans o l’uomo trans e altre scelte identitarie (in alto la parola brasiliana “Travestì” lascia l’ambivalenza maschile femminile ) e si lascia – ma solo nella logica della performance – anche toccare, perché il corpo, quel corpo frutto di scelte e storicizzato, come tutti i corpi,  e chiede di essere tra noi, riconosciuto e accettato, visto, esperito.

foto credit @Claudia Pajewski

L’altro spettacolo da evidenziare è “L’etang” di Giséle Vienne, artista, coreografa, regista e burattinaia franco-austriaca, da anni una delle voci più originale del teatro europeo, che adatta un’opera giovanile dello scrittore svizzero Robert Walser, dedicato alla sorella (in italiano “Lo stagno”. Un testo  in cui Walser pone al centro una storia d’amore, di possesso e di controllo: protagonista Fritz, un adolescente che non si sente pienamente amato dalla madre e che, nel punto più basso della sua disperazione,  finge di suicidarsi per mettere alla prova l’amore materno, manipolando anche altri personaggi e mettendo in atto un ricatto affettivo che è sempre alla base – con la gelosia – dell’ideologia dell’amore assoluto o romantico, che non a caso è il presupposto su cui poi è consolidata la famiglia, che nasce dalla coppia amorosa. Giséle Vienne parte dunque dal disagio adolescenziale, marcato dalla scena iniziale,  con alcuni Puppet (manichini di silicone, un tratto distintivo del linguaggio di Vienne evidenziata anche dalla mostra di fotografie al Mattatoio Macro)  a guisa di adolescenti imbambolati, come stonati,  in una camera, con i corpi abbandonati intorno a un letto disfatto. Corpo o puppet, che riattualizza l’idea dell’attore biomeccanico di Mejerchol’d ad un tempo in cui l’artificiale sta progressivamente avvicinandosi a ciò che pensiamo come naturale (dalla chirurgia, all’AI).

I manichini adolescenti inoltre, lasciano trasparire, in questa postura artificiale  – come spiega la studiosa Elsa Dorlin  – “indizi di una cultura della violenza repressa che infesta i nostri miti di innocenza, di purezza”. Nel racconto di Walser, il protagonista adolescente decide di compiere dunque un attacco al cuore dell’amore materno e familiare. Vienne parte da questo nucleo e mette in atto una partitura a più voci con in scena due attrici, le bravissime Adèle Haenel ( già nota interprete del Ritratto della giovane in fiamme, premiato al Festival di Cannes nel 2019) e  Henrietta Wallberg. Due attrici e insieme dieci voci e personaggi, con sapiente uso della dissociazione fonetica, dei suoni dei vari personaggi. Il ragazzo, dominato dal sistema “amore familiare” determina la sua sovversione non rifiutandolo ma portandolo all’estremo di una prova di assoluto e di fatto trasformandosi – col suo ricatto affettivo – in dominatore.

Questa distorsione è anche della scrittura dei corpi in scena, con l’evidenza di una forte sensualità, scandita da un’alterazione psichica della percezione, evidenziato da un registro allucinato del parlato e del rallenty dei movimenti, con i colori fluo, la musica claustrofobica di Stephen O’Malley. Oltre il livello della vicenda narrata, al centro del lavoro di Vienne c’è proprio la rottura di schemi  culturali, sociali, attraverso l’alterazione  e la rottura degli schemi mentali e percettivi che in teatro porta il collasso di immaginazione allucinata, restituita proprio dall’alterazione di tempo performativo per gli attori. Vienne sembra anche lasciare che lo spettatore perda qualcosa, ciò permette di avere spazi di libertà interpretativa, restituendo verità immersiva e al tempo stesso perturbante, straniante dell’opera, tra coscienza e incoscienza.

È un punto che Vienne condivide con le intenzioni di Short Theatre nella nuova mettere in discussione con le nostre abitudini percettive scompigliando l’ordine. Sperando che l’esperienza artistica, la creazione necessaria di nuove forme, e quindi di nuove letture e esperienze del mondo, possano permetterci di mettere in discussione e scuotere la pseudo-realtà, che è risultato della creazione di naturacultura, esso stesso teatro del nostro sistema sociale, un teatro sempre attivo quello della nostra norma sociale che la performance ha l’obiettivo di decostruire.

 

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