Il quiz come spaccato sociologico: su “A domanda rispondo” di Armando Vertorano
di Pierfrancesco Trocchi
Ognuno di noi può citare almeno un gioco televisivo-madeleine, dove si annidano momenti familiari vissuti più o meno attentamente, la cui scala cromatica emotiva è tuttavia rimasta nitida. I quiz mantengono da circa settant’anni un ruolo per nulla secondario nell’immaginario collettivo degli italiani, come dimostra la memorabilità – e la “memabilità” – di concorrenti come la signorina Longari o il signor Giancarlo, le cui vicende ludiche sono state entrambe rese imperiture dal soffio omerico di Mike Bongiorno. Pensiamo, ancora, a Chi vuol esser miliardario? (prima ancora che milionario) e alla forza ammaliante del suo impianto narrativo, capace di innestare nel linguaggio comune un’espressione ancora oggi riconoscibile: «La accendiamo?». Con A domanda rispondo. Divertimenti e ambasce di un autore di quiz (nottetempo, 2025) Armando Vertorano, autore e domandiere di lungo corso, si addentra in uno studio approfondito dei quiz, offrendone una retrospettiva che è soprattutto un’analisi sociologica e scandagliandone i dietro le quinte, eminenze grigie e intenzioni. Vertorano ci aiuta a comprendere meglio i contorni di quel «confine tra finzione e realtà» su cui si muove la televisione e le modalità di una «costruzione del racconto» che «tende a passare sottotraccia, nel senso che molti spettatori non la vedono o semplicemente preferiscono non vederla per non perdersi l’illusione».
Così, autori e domandieri si configurano come forze rampanti di una nuova antropologia aperta alla «percezione accurata della sensibilità generale, del sentiment popolare del momento». I giochi televisivi, infatti, fanno pienamente parte della vita culturale di una nazione, non stanno a lato di essa né costituiscono un prodotto obsoleto. Basterebbe notare come a programmi come L’Eredità partecipino ragazzi e ragazze neodiciottenni desiderosi di vivere da protagonisti quello che è a tutti gli effetti un pezzo di storia personale e della propria famiglia. Allora i quiz non possono essere altro che «una cartina di tornasole non solo dello stato dell’arte della cultura di massa ma anche dei suoi cambi di sensibilità e delle sue reazioni di fronte a determinate circostanze». Chi si occupa dell’ideazione delle domande non può esimersi dalla «sovraesposizione a informazioni di ogni tipo» per comprendere a fondo e aggiornare il concetto di «“giocabile”» con il fine di scrivere «su misura del concorrente».
Lo scopo, tuttavia, non è sempre stato lo stesso. Agli albori della televisione, il quiz aveva tutti i contorni di un rito, figlio del teatro, a cui gli italiani assistevano al bar o al ristorante come davanti a un’irresistibile rappresentazione alla cui mensa non erano degni di partecipare. Un esempio su tutti: il «pater familias dei telequiz», ovvero Lascia o raddoppia?, venne spostato dal sabato al giovedì sera per non “derubare” della clientela locali e teatri. Si assisteva passivamente a una performance dove il partecipante allo show affrontava domande molto complesse e il cui principio fondante era il nozionismo.
Soltanto in seguito la TV iniziò a percorrere una strada sempre più capitalistica, seguendo il percorso dell’arte “pop” in genere: soddisfare il gusto del fruitore riducendo l’importanza e la consistenza del messaggio. Ciò avvenne in contemporanea con l’aumento del benessere e la trasformazione della televisione in rito non più collettivo, ma familiare. Il telespettatore non doveva più sentirsi escluso, bensì avere l’impressione di poter partecipare ai quiz, e di non esserne schiacciato in quanto non sufficientemente acculturato. L’inserimento della componente della fortuna, che si registrò per la prima volta nella trasmissione Flash (1980), spezzò la monarchia del «sapere del concorrente» trasformandolo in un fattore complementare a una diversa forma di intelligenza, ovvero «fare dei ragionamenti, collegare elementi».
Con la turbodiffusione degli apparecchi televisivi degli anni Novanta e Duemila, poi, la fruizione della televisione si fece sempre più individuale. I game show affrontarono l’arduo compito di riunire una famiglia sempre più parcellizzata e, allora, il gioco televisivo ideale divenne «quello in grado di attirare l’attenzione, anche momentanea, di chiunque si trovi a passare davanti a un televisore acceso». Pertanto, senza possedere anche una profonda conoscenza narratologica è impossibile elaborare un quiz, che nel suo svolgimento è piuttosto vicino a un romanzo o a un racconto.
La costruzione dell’impianto narrativo ludico-televisivo prevede poi una peculiare forma di destinatario dei quesiti prodotti dagli autori, ossia il concorrente, che a sua volta è un intermediario – in direzione dello spettatore – senza il quale la domanda non potrebbe «raggiungere la sua forma definitiva». Anche il messaggio vive un singolare sdoppiamento: è al contempo la domanda stessa e il conduttore dello show, tanto che un autore non «può mai pensare di scrivere ciò che gli passa per la mente ignorando la persona/mezzo che dovrà trasmettere quei testi».
Vertorano completa la diacronia della propria analisi preoccupandosi dei quiz di domani. Grazie al confronto con alcuni colleghi, l’autore immagina quale potrebbe essere l’impatto sui giochi televisivi dell’intelligenza artificiale, della voracità crescente dello spettatore o delle feroci divergenze in seno alla nostra società. Un quiz per prosperare deve «“stare” nel tempo», e in tal caso sarebbe difficile pensarne uno più azzeccato di quello «condotto da una donna, della durata di circa venti minuti, in cui si gioca senza far troppe chiacchiere».
A domanda rispondo è un testo vivace, stimolante e stratificato in grado di spiegare molto di un fenomeno sottovalutato nella sua valenza antroposociologica quale è l’intrattenimento ludico-televisivo. Leggendo Vertorano scrutiamo la nostra condizione di “giocatori” massmediali, capace di dirci dell’intreccio delle nostre intime sensibilità più di quanto si possa immaginare. Allora capiamo bene perché «il quiz è destinato a popolare i nostri media ancora a lungo». Non c’è dubbio che «questi programmi, pur cambiando ed evolvendosi nel tempo, rispondono da sempre a un’esigenza non vitale eppure costante nell’essere umano: la voglia di giocare», la quale, si sa, afferisce al gioco solo in superficie. L’estinzione dell’homo ludens televisivo è ben di là da venire.