Una mappatura musicale nella creazione di mondi: The Knick e Stranger Things

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Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro Addicted. Serie tv e dipendenze, a cura di Carlotta Susca per LiberAria, che ringraziamo.

di Michele Casella

I mondi lynchiani vengono generati da un particolare, un singolo suono o immagine che si amplia nello spazio e nel tempo in soluzioni vorticosamente spiraliformi, ma pur sempre drammaturgicamente omogenee. La colonna sonora di Lynch/Badalamenti è sapientemente suggestiva, capace di proiettare tramite l’udito il mood di base delle singole scene. Così come la melodia e il ritmo contribuiscono a caratterizzare i protagonisti della storia, allo stesso modo la soundtrack è capace di legarsi a paesaggi e tensioni delineandone chiaramente i contorni emotivi.

Un po’ come una linea vocale che, nella forma canzone, scelga di seguire ed esaltare la linea di basso e batteria, allineandosi metodicamente ai percorsi armonici degli strumentisti. Quel che accade in The Knick è qualcosa di decisamente opposto, sebbene il processo compositivo affondi il proprio archetipo sonoro nel minimalismo elettroacustico degli ultimi venticinque anni. C’è una sensibilità caravaggesca  nelle immagini di The Knick, la serie TV diretta da Steven Soderbergh per Cinemax e ambientata in un ospedale newyorkese del secolo scorso. Le forme e i personaggi vengono delineati dalle piccole fiamme delle lampade ad olio, che illuminano il volto di Clive Owen sia nei momenti di massima concentrazione scientifica sia nelle sue estreme derive psicotrope. Il geniale dottor John Thackery, interpretato dall’attore britannico, è infatti il punto focale attorno a cui ruotano le esperienze personali e professionali di medici, infermiere, amministratori e dirigenti del Knickerbocker Hospital.

Eppure,  quando ci poniamo alla visione di ciascun nuovo episodio di The Knick, i nostri occhi vengono dapprima immersi – ora per alcuni istanti, ora per lunghi secondi – nel buio più totale. L’ingresso nel mondo del dottor Thackery non avviene da subito attraverso le immagini, bensì per mezzo del suono, che ci fornisce le prime coordinate per ricostruire il corrente scenario. A guidarci in questo antro anti-immaginifico ci sono i suoni, talvolta ricavati da scarne registrazioni d’ambiente, più spesso espansi attraverso un inquieto beat in cui è insita un’a-ritmia cardiaca. L’uso della musica in The Knick ha infatti i caratteri dell’alterazione, elemento sintomatico di una patologia che è insita nelle vite dei protagonisti. Il suono è davvero un tappeto su cui questi personaggi scivolano con drammatica grazia, talvolta addirittura fluttuando attraverso interni di inizio Novecento illuminati da una fioca luce arancione.

La serie TV diretta da Steven Soderbergh sta tutta in questa caustica giustapposizione: la New York dell’upper class, rigorosa e imbellettata sebbene corrosa dagli stravolgimenti sociali dell’epoca, e l’elettronica minimale di Cliff Martinez, il compositore che ha inglobato l’estetica del 1901 nei beat sincopati e nei vibrafoni cristallini. The Knick, semplicemente, non sarebbe lo stesso senza la gravità di quel battito digitale, che scandisce gli arrivi in bicicletta dell’infermiera Lucy Elkins ai primi bagliori dell’alba e accompagna con austerità il lavorìo clandestino dei medici nei sotterranei dell’ospedale.

Il nucleo di questa commistione sta tutta in due parole, drums e metal, che ricorrono numerose volte nelle note interne degli album a cui Cliff Martinez ha partecipato. Ai più noto per la collaborazione a sei dischi dei Red Hot Chili Peppers, il compositore del Bronx andrebbe ricordato soprattutto per i suoi lavori con Lydia Lunch e Captain Beefheart. Dalla prima, infatti, ha mutuato la necessità di ridefinire una narrazione attraverso lo stravolgimento di un’estetica: nello stesso modo in cui la New York di fine anni Settanta viene demolita dalla forza deflagrante della no-wave, così gli intrighi del Knickerbocker Hospital vengono rivelati dalla modernità di una soundtrack analiticamente introspettiva. Da Captain Beefheart ha invece ereditato l’esasperata visionarietà, la prospettiva obliqua e decentrata da cui i personaggi vengono osservati e (spesso) spiati. Quella stessa obliquità che Soderbergh ha scelto per le sue inquadrature, quando la macchina da presa segue i personaggi a pochi centimetri dal terreno, tagliando i corpi dei propri attori con una simmetria che ha le direttrici dell’intervento chirurgico.

Cliff Martinez ha dunque delineato l’universo sonoro di The Knick grazie a due principali tipologie di suono, ciascuna corrispondente a una stagione. Il primo è quello dei toni medi, spesso ovattati, dove il ritmo in continuo mutamento sembra provenire dall’interno di una cassa toracica. È il tema musicale del dottor Thackery, il protagonista tormentato attorno a cui si dipana la trama della prima stagione, ma è anche il suono del flusso arterioso dei tanti corpi operati nel circus ospedaliero, messi in mostra per il bene del progresso scientifico in un’ostentazione spettacolare della patologia. Il secondo è quello dei suoni cristallini e metallici, appartenenti agli algidi strumenti chirurgici così come alle posate delle cene di gala, ai bicchieri colmi di champagne e ai vetrini su cui vengono isolate le cellule batteriche. È il suono di una comunità, perfettamente delineata grazie a una narrazione corale che è caratteristica della seconda stagione. Una stagione in cui abbiamo visto splendide donne in ricchi broccati danzare come dervishi rotanti, seguendo sorridenti le note inquiete di un’elettronica dalla struttura circolare, ma anche manigoldi dal colletto bianco riscattare prostitute da un bordello su un pattern digitale dalla melodia malinconica. Una musica del paradosso, in cui la giustapposizione diventa essenziale forma narrativa.

Gli ultimi vent’anni di serialità televisiva hanno portato a una nuova golden age che però si sorregge su una necessaria giustapposizione: quella fra una TV costruita su palinsesti preordinati e quella polarizzata su una versione prettamente customer-oriented. Vecchio e nuovo, insomma, che a tratti possono collidere, fortunosamente possono dialogare, coerentemente possono esaltarsi. È questo il caso di Stranger Things, la serie televisiva statunitense ideata da Matt e Ross Duffer, il duo che ha saputo unire il citazionismo spinto di un’intera produzione televisiva all’interno di un immaginario perfettamente identificabile. Un’opera che sollecita i banchi di memoria degli attuali quarantenni, al fine di evocare visioni ormai classiche che appartengono ai memorabili anni Ottanta. La miscela di horror e romanzo di formazione richiama non solo le narrazioni à la Stephen King, ma anche quell’indelebile imprinting adolescenziale.

Dalla font usata per i titoli dei thriller d’epoca alle BMX che sfrecciano su terreni accidentati, dai berretti multicolore ai poteri esper di memoria cronenberghiana, tutto in Stranger Things spinge verso reminiscenze al gusto di madeleine. In special modo la musica, che parte con una sigla geniale e in soli cinquanta secondi presenta allo spettatore tutti gli elementi narrativi della serie: tensione, paura, magia, batticuore, meraviglia, slittamenti e sovrapposizioni. E naturalmente mistero, perno anche delle settantacinque tracce che Kyle Dixon e Michael Stein hanno pubblicato nei due volumi della colonna sonora di Stranger Things.

Suddivisi in ben quattro vinili usciti per la Lakeshore Records, i brani si presentano generalmente come estratti altamente suggestivi ma volutamente parcellizzati, tessere di un mosaico sonoro che può essere ricostruito solo attraverso un ascolto consecutivo o mediato dalle immagini.

Le tracce non possiedono infatti quell’autonomia strutturale propria di una consueta composizione, ma ciascuna contribuisce alla creazione di una dettagliata mappatura demiurgica dell’universo di Stranger Things. Coniugando la classicità della synth music alle intemperanze digitali delle produzioni mutuate dalla Planet Mu, ammiccando a John Carpenter ma senza dimenticare epiche popular di radicamento, Vanegelis, Dixon e Stein profumano di nostalgia quegli intrecci di inquietudine e trepidazione che sono parte eloquente della narrazione.

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