Il rebus infinito degli animali: sul libro di John Berger

lasc

Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Li abbiamo incontrati, osservati, studiati. Ne abbiamo fatto il soggetto delle nostre prime rappresentazioni pittoriche, li abbiamo elevati a simboli, a metafore, li abbiamo considerati messaggeri, promesse, intermediari tra mondi diversi.

Li abbiamo addestrati al lavoro nei campi e li abbiamo usati per sintetizzare qualità e caratteri; li abbiamo idealizzati, demonizzati, li abbiamo imitati. Addomesticandoli – riducendoli a pet – li abbiamo fisicamente e culturalmente marginalizzati (da un lato cooptandoli nella famiglia, dall’altro spettacolarizzandoli – e a ricordarcelo sono ogni giorno le foto feline che il pianeta intero condivide sui social network facendo manutenzione ordinaria di questo addomesticamento).

Eppure, nonostante tutto, gli animali continuano a essere un rebus, lo specchio opaco che ci restituisce l’arcano irrisolvibile delle nostre esistenze. Una ragione di stupore e di inquietudine che trapela dai testi – scritti in un arco di tempo che va dal 1971 al 2009 – che compongono Perché guardiamo gli animali? Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi (il Saggiatore, cura e traduzione di Maria Nadotti), un libro in cui John Berger, raccontando il parto di una vacca,un uccello di legno bianco o il teatro delle scimmie dello zoo di Basilea, analizzando il nostro modo di mangiare oppure disegnando ripetutamente un topo così da metterne a fuoco i movimenti più minuti e peculiari, si confronta con l’inesauribilità del mistero animale.

Collocato a metà del libro, un testo del 1984, C’era una volta, sembra costituirne l’endoscheletro e rivelarne il senso più profondo: prima e al di là di ogni tentativo di comprensione, gli animali sono narrazioni. C’era una volta – una lepre in fuga, un gattino bianco, due anatre in amore, una lucciola che brilla di notte su un cassettone – è il loro modo di venire al (nostro) mondo, e il racconto è il luogo nel quale li osserviamo esistere.

Se da millenni continuiamo a guardare gli animali, e se dalle grotte di Lascaux ai bestiari medievali ai romanzi che raccontano storie di balene bianche, cavalli selvaggi, serpenti, astori o cinghiali continuiamo ad avvertire il bisogno costante di metterli in scena, è perché percepiamo che nella vita animale c’è una sfida muta alla nostra capacità di comprensione delle cose: un segreto spalancato, nitidissimo e inconoscibile, che ci attrae e ci tormenta: un enigma senza fine che guardiamo, ci guarda negli occhi, e aspetta.

Aggiungi un commento