Scrivere di cinema: “Alla mia piccola Sama”

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di Elisa Teneggi

“Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.” Queste le parole che, nel 1942, il filosofo francese Albert Camus, premio Nobel per la Letteratura nel 1957, poneva a sigillo del suo saggio Il mito di Sisifo. Lo scritto, testo fondante dell’Esistenzialismo d’Oltralpe, analizza la condizione umana attraverso il paragone con l’eterno castigo del greco Sisifo, condannato dagli dèi a spingere per l’eternità un pesante masso verso la cima di una montagna. E invano: appena raggiunta la sommità, la pietra sarebbe rotolata indietro, rendendo vane le fatiche del dannato.

Ed è proprio nell’ostinazione, nello sdegno che Sisifo dimostra verso il supplizio infittogli che nasce la grandezza di questo personaggio mitologico. È qui che Sisifo, per Camus, si fa emblema della condizione umana, divenendo metafora tanto dell’assurda vanità dell’esistenza quanto della diabolica, sovrumana perseveranza che la nostra specie dimostra nel cercare di introdurre significato in un mondo che, sub specie aeternitatis, ne è privo. La gloriosa caparbietà di Sisifo nello spingere il macigno è la stessa di Alla mia piccola Sama; e della sua regista, Waad Al-Kateab.

Waad, la quale lavora sotto pseudonimo, è una ragazza come tante; e come nessun’altra. Giornalista siriana, classe 1991, Al-Kateab è figlia della rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad. Waad documenta, produce filmati, denuncia i soprusi alla dignità umana perpetrati dalle parti in conflitto. Nel 2017 i materiali da lei prodotti per l’inglese Channel 4 le valgono un Emmy. E ora, dopo che Waad è stata costretta a lasciare il proprio Paese per rifugiarsi nel Regno Unito, la storia della sua ostinazione è diventata un documentario. Un giornale di resistenza, ma soprattutto una struggente lettera alla primogenita Sama, nata durante l’ultimo anno di permanenza in Siria di Al-Kateab e battezzata dal fuoco incrociato dell’assedio di Aleppo.

Recentemente nominato agli Oscar come Miglior Documentario, Alla mia piccola Sama è allo stesso tempo crudamente feroce e fieramente delicato. Lo sguardo di Al-Kateab esce solo raramente da dietro la videocamera, azzerando così il gioco di specchi della più classica finzione cinematografica. I corpora Christi delle vittime dei bombardamenti sono scioccantemente reali. La regista lo sa, e ne evita la trasformazione in feticcio, presentandoli non come risultato di voyeurismo per accumulazione, ma come simbolo di riconoscenza per il valore della vita. E affermare, come fa Al-Kateab, che un’esistenza spesa intrappolati come topi in fatiscenti edifici di calcina abbia un significato ha la forza rivoluzionaria della verità più appassionata e impenitente.

Grazie a un voice-over puntuale, mai petulante, e all’intelligente lavoro di montaggio e rimaneggiamento dei filmati di Al-Kateab ad opera di Chloe Lambourne e Simon McMahon,  Alla mia piccola Sama fluisce libero al confine tra vlog e diaristica intima, consegnando alla posterità un complesso, ipnotizzante resoconto dei mesi di quarantena bellica trascorsi nell’ancor libera Aleppo nella speranza di un futuro luminoso. E in quel barlume di vita inossidabile danza la fragile, minuscola figura di un infante. E forse, un giorno, Sama verrà a conoscenza di essere stata la più assurda tra tutte le ragioni di sopravvivenza, ma anche la più desiderata; la più azzardata; la più umana.

Se dunque il filosofo tedesco Theodor Adorno si era solennemente pronunciato contro la possibilità di tornare a scrivere poesia sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi orrori, Waad Al-Kateab sembra giunta per aggiornarne la lezione, e dimostrare che non solo l’arte, nella disperazione, è ancora possibile, per non dire essenziale; ma anche che l’unica via d’uscita è, come Sisifo, essere un po’ assurdi, e appassionati. Perché tutto questo, Sama, per dirla alla Jane Austen, è stato fatto per voi. Che il masso continui a cadere. Ora l’assurdo non fa più paura. Bisogna immaginare Al-Kateab felice.

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