Il cervello e la responsabilità

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“Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos’è che sento urlare dentro al mio cervello? E come uccido: non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi sento urlare una voce, e io non la posso sentire!”

Sono parole di Hans Beckert, assassino seriale di bambine, che si difende davanti a una giuria di criminali che vogliono linciarlo. Si tratta del finale di un film di Fritz Lang, M. Il mostro di Düsseldorf, che nel 1931 seppe dar voce a un paradosso che sempre più occupa la discussione pubblica: il criminale afferma di non essere responsabile dei propri atti, invocando una distanza tra sé e qualcosa di incontrollabile che lo muove. Il paradosso consiste nel fatto che Beckert sta rispondendo dei propri atti, e dunque incarnando il senso etimologico della parola ‘responsabilità’, ma lo fa negando l’imputabilità delle proprie azioni. Non è un caso che questo paradosso, con tutto il suo carico emotivo di pietà e ripugnanza, sia presentato sotto forma di un richiamo al cervello, piuttosto che all’interiorità. Nell’Europa degli anni ‘30 le idee della psichiatria e della psicanalisi sui moventi inconsci erano ormai penetrate nella cultura popolare, dalla letteratura al cinema. Eppure i tempi per una comprensione delle basi cerebrali dell’inconscio non erano maturi, come lo stesso Freud aveva riconosciuto.

Oggi le cose sono cambiate, e appelli come quelli di Hans Beckert costituiscono materia di giurisprudenza penale. Le neuroscienze, grazie allo straordinario sviluppo delle tecniche di osservazione anatomo-fisiologica, ripropongono con decisione l’ipotesi di collegare l’attività cerebrale con le capacità dell’individuo, e di decretare l’incapacità di volere, parziale o totale, in caso di lesioni o condizionamenti genetici che influiscono sulle funzioni cerebrali. Il potenziale di queste tecniche consiste nel fatto che il giudizio sulle capacità individuali avviene indipendentemente dalla testimonianza diretta delle persone, che è notoriamente inaffidabile per il sospetto d’insincerità, ma anche per i limiti intrinseci dell’autoconsapevolezza, che le scienze cognitive hanno messo sempre più in evidenza. Simili diagnosi hanno portato di recente, anche in Italia, mediante la perizia di neuroscienziati forensi, a modificare sentenze penali in maniera prima impensabile.

Una donna di Como viene arrestata mentre tenta di dar fuoco alla madre, e si scopre che in precedenza ha ucciso la sorella; ma la donna dichiara di non ricordare nulla di questo evento. L’analisi psichiatrica e neuropsicologica ha permesso di verificare che la donna possiede significativi deficit cognitivi e nel controllo del comportamento, portando a una riduzione della pena. L’improvvisa insorgenza di comportamenti sessualmente molesti verso bambine accomuna altri due casi, uno in Virginia e uno in Veneto: nel primo caso si scopre un tumore al cervello, la cui asportazione determina la scomparsa delle tendenze pedofile, e l’uomo viene sottoposto a terapia riabilitativa; anche nel secondo caso la presenza di un tumore al cervello viene invocata a sostegno di una riduzione della pena, ma stavolta i consulenti del GIP rilevano che la patologia non ha significativamente alterato i comportamenti dell’uomo, e la condanna viene confermata nella sentenza di primo grado (gennaio 2013). Come si vede, la complessità di un approccio integrato che coinvolge studio del comportamento e dell’organismo non produce risultati univoci.

Esistono casi estremi, come l’anosognosia (l’inconsapevolezza dei propri deficit), che fa ripetere a un paziente di 33 anni con un’estesa lesione cerebrale le parole di Hans Beckert: “Offendo tutti i miei amici con le parolacce (…) Io non voglio. È il mio cervello che mi dice di farlo”. Il resto è un territorio grigio in cui è estremamente complesso stabilire in concreto in che misura le azioni siano condizionate. Se dalla finzione siamo passati alle aule dei tribunali, è tanto più urgente la domanda sulla portata – e sui limiti – di questo approccio scientifico ai moventi dell’azione umana. È in gioco il concetto di responsabilità, che costituisce un cardine dei nostri codici giuridici oltre che del senso comune: pertanto la questione di diritto chiama in causa la filosofia, poiché risolleva su nuove basi l’antica questione del libero arbitrio.

Un’introduzione alle complesse discussioni su questi temi è resa possibile oggi dal volume Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società, a cura di Andrea Lavazza, Mario De Caro e Giuseppe Sartori (Codice). Uno dei meriti di questo volume, oltre alla chiarezza dei saggi e alla discussione di esempi concreti come quelli sopra riportati, è il fatto di dar conto delle prospettive contrastanti che sono attualmente in campo. Come nel volume gemello di qualche anno fa – Quanto siamo liberi? (Codice 2011) – si dà voce a chi ritiene che le neuroscienze mostrino (o stiano per mostrare) che la libertà del volere è un’“illusione”, ritenendo necessario ripensare o abbandonare le idee di retribuzione e prevenzione che sono alla base del diritto penale, ma anche a chi ritiene che le nuove conoscenze scientifiche non possano annullare la portata di un’intuizione comune come quella della responsabilità reciproca, che costituisce la base stessa del nostro vivere sociale.

Un tratto unificante del volume è una giustificata prudenza sul significato delle conoscenze neuroscientifiche, basata su un serrato esame delle tecniche osservative e delle loro ricadute giuridiche, condotto alla luce di un’analisi storica e critica del concetto di responsabilità. Per esempio Sartori e Scarpazza, nel loro saggio su Cervello e responsabilità, definiscono la responsabilità come “la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione”. Dal punto di vista neurologico “il lobo frontale può essere considerato la base anatomica del comportamento responsabile”, perciò alterazioni strutturali e funzionali di quest’area coincidono con patologie del comportamento. Ma, sulla base delle conoscenze disponibili, gli autori concludono che “non vi è equazione danno al lobo frontale/dis-controllo del comportamento”, perché in taluni casi vi è evidenza di capacità intatta di controllo.

Inferire una funzione cognitiva dall’attivazione di un’area è un errore logico. Semmai le neuroimmagini possono fornire oggi un “supporto della diagnosi” psichiatrica, per esempio fornendo alla diagnosi di “perdita del controllo” motorio nuove basi sperimentali, che sono cruciali nella valutazione di reati d’impeto. Ma per leggerle devono essere incrociate con dati ambientali, contestuali, e sottoposte a un’attenta sorveglianza critica. Il caso delle dipendenze, esaminato da Guala alla luce dei modelli economici sulla sensibilità agli incentivi, mostra analogamente come tra pieno autocontrollo e piena incapacità dell’individuo vi siano gradi intermedi, e pretendere un giudizio nettamente positivo o negativo sulla responsabilità, in base alla fisiologia, sia dunque riduttivo.

Le discussioni filosofiche, tuttavia, tendono a generalizzare la questione, proiettandola nel futuro: ponendo il caso che le tecniche osservative e diagnostiche fossero perfezionate, quali potrebbero essere le conseguenze? Secondo Perelboom, che accoglie la tesi sull’illusione del libero arbitrio, si dovrebbe considerare l’azione criminale come una “malattia”, come tale non suscettibile di biasimo morale e di rabbia, ma solo di misure restrittive. Raccogliendo la sfida De Caro formula una vera e propria “antinomia” del giudizio neuroscientifico: da una parte gli esseri umani, in quanto sottoposti alle leggi della natura, non sono liberi; dall’altra parte, “l’intuizione suggerisce in maniera altrettanto netta che la libertà è indispensabile per le nostre attribuzioni di responsabilità”.

Una prospettiva fortemente rappresentata nel volume, anche alla luce del lavoro interdisciplinare, è che questa antinomia possa essere superata, mostrando come entrambi i punti di vista, quello scientifico e quello dell’intuizione comune, possano coesistere senza contraddizione. Per un verso, non si può negare il fondamento naturale delle capacità umane e, pertanto, anche il condizionamento inevitabile che l’accertamento di patologie e disfunzioni – condotto con le dovute cautele metodologiche – può avere sulla pratica giuridica. Ma non c’è ragione di concludere che questo debba sconvolgere dall’esterno l’intero fondamento dei codici civili e penali, la responsabilità. L’attribuzione di responsabilità costituisce infatti un presupposto della vita sociale, che non è scalfito dall’indagine neuroscientifica (Bagnoli, Reichlin).

Secondo De Caro, descrizione scientifica e ascrizioni di responsabilità sono “pratiche che hanno modi e finalità del tutto diversi”. Come sottolinea Lavazza, le stesse eccezioni neurologiche presuppongono un criterio di responsabilità: la diagnosi (pubblica) di anormalità – nello psicopatico – presuppone infatti un criterio condiviso di normalità. Sul piano scientifico, d’altra parte, è plausibile che l’ascrizione di responsabilità nelle popolazioni umane sia a sua volta un risultato dell’evoluzione biologica, e non è necessario possederne un resoconto scientifico dettagliato – per esempio sul piano della microfisica – per attestarne la realtà. Lo stesso determinista Perelboom riconosce che, quando ci poniamo la questione filosofico-giuridica di come sia “giusto” o ”ingiusto” comportarsi quando si adottano misure coercitive nei confronti di soggetti irresponsabili, stiamo presupponendo una discussione etica su base razionale e non puramente scientifica. Nel complesso, dunque, dalla polifonia del volume emerge un tema unitario.

Chi si faccia strada attraverso questo intricato percorso interdisciplinare constata come il contributo della filosofia – spostando le questioni sul piano dei principi – appaia indispensabile, ma comporti al tempo stesso nuovi problemi e il rischio di nuove illusioni. Come diceva già il filosofo americano Peter Strawson, nel 1962, il dilemma del determinismo è soprattutto materia della “metafisica oscura e in preda al panico” dei filosofi. Per un verso, i filosofi si affrettano troppo a stabilire che‘la scienza’ è deterministica: come mostrava molto tempo fa già Popper, si scambia spesso la teoria, il modello provvisorio, per la realtà che questo prova a descrivere.

Di fatto, oggi neanche una scienza “dura” come la fisica è in grado di stabilire sperimentalmente il carattere rigorosamente deterministico degli eventi naturali, e tanto meno lo possono scienze di fenomeni più complessi, come gli organismi, e i cervelli. Ma anche ammesso che alcuni aspetti della realtà fisica si lascino descrivere deterministicamente, i filosofi naturalisti sono forse vittima di un vecchio pregiudizio fisicalista, quando scambiano i “correlati neurali” dell’attività cosciente per le cause che ne determinerebbero senz’altro l’evoluzione. La relazione tra stati mentali e stati corporei, individuata con le tecniche di neuroimmagine, è una relazione di corrispondenza reciproca. Fintanto che non si dimostri sperimentalmente la dipendenza causale delle proprietà dei primi da quelle dei secondi – e questo volume mostra come tale questione sia oggi ancora aperta – non è ovvio negare l’autonomia di capacità come il controllo e la pianificazione razionale, anche quando se ne sia scoperta una “spiegazione” neuroscientifica.

Lo pensava già un determinista metafisico come Spinoza, quando affermava l’identità tra “l’ordine delle idee” e l’ordine degli stati corporei, ricavandone la sua etica: proprio perché le idee corrispondono a stati del corpo, seguire il modello di comportamenti eticamente razionali, assimilando l’esempio di altri individui virtuosi, modifica la nostra stessa natura corporea. Pertanto un comportamento razionale, in particolare altruistico, può e deve orientare la condotta dell’individuo, e influisce sulla modificazione della società. Insomma il grande metafisico era più moderato di alcuni scienziati riduzionisti di molti secoli dopo, per i quali la possibile autonomia degli individui – come temeva Kant – viene ridotta alla “libertà di un girarrosto”.

Commenti
10 Commenti a “Il cervello e la responsabilità”
  1. maurizio montanari ha detto:

    Spunto alquanto interessante. Sull’uso assai spregiudicato della formula di ‘vizio’ parziale di mente, il legame sociale viene prima, in termini di influenza, di ogni possibile perizia.

    http://www.psychiatryonline.it/node/4442

  2. luigi ha detto:

    Senza ricorrere alle recenti scoperte delle neuroscienze e riducendo la questione alla tradizione del determinismo mi viene automatico invocare la nozione di “forze” di Foucault dove le azioni e i comportamenti sono determinati dalle “forze” risultanti dall’ “episteme” spazio-temporale.
    Nella fattispecie gli strutturalisti insistevano sualla questione delle performance indotte per cui le realtà scaturivano da archetipi ereditati ai quali si viene puntualmente indottrinati per mezzo dell’apprendimento del linguaggio.
    Per altri versi anche la lezione freudiana predica come l’uomo non sia padrone di se stesso e (tornando indietro) lo stesso illuminismo aveva messo in discussione i concetti agostiniani di responsabilità e di libero arbitrio.
    Il problema vero è la frizione fra questi rinvenimenti concettuali oramai assodati e il comune sentire ancora legato a stereotipi secolari.
    Ce ne sarebbe di che perdere la testa.

  3. Paolo1984 ha detto:

    noi siamo un mix di natura, cultura e storia ma non siamo eterodiretti e siamo responsabili nel bene e nel male delle nostre azioni e delle nostre decisioni. Poi i casi di patologie mentali gravissime sono un’altra cosa e vanno visti caso per caso

  4. luigi ha detto:

    In ambito giuridico è giusto e “conveniente” che agli individui venga attribuita in capo la responsabilità dei propri atti. Piuttosto in ambito medico-psichiatrico spesso si è portati a colpevolizzare il malato e questo rappresenta un autentico obbrobrio.

  5. Marco Mantello ha detto:

    Pienamente d’accordo sutto quello che dice Paolo, a parte un crollario sul tema dei rapporti fra stati mentali e stati corporei, verso la fine del post:, che Paolo peraltro ben risolve. Mi riferisco a questo:

    “proprio perché le idee corrispondono a stati del corpo, seguire il modello di comportamenti eticamente razionali, assimilando l’esempio di altri individui virtuosi, modifica la nostra stessa natura corporea”.

    Qui dalla premessa a io avviso giusta (vi é al massimo corrispondenza fra propeitá degli stati mentali e degli stati corporei, e dunque non é possibile desumere una relazione di causalitá dei primi ai secondi, che escluda la coscienza di sé e delle proprie azioni in termini di capacitá di intendere e di volere) si passa a qualcosa che rischia di sconfinbare nella fisiognomica, e che smentisce la giusta premessa. EQuel’inciso finale mi é parso quasi lombrosiano Paolo. Si corre il rischio di inferire che allora seguire un comportamento eticamente irrazionale imitando l’esempio di un serial killer (e apprendendo dunqeu dalla realtá, o da un contesto di riferimento idee, comportamenti etc.) modifichi la natura corporea. Cosa intendi esattamente con natura corporea? Se intendi anche trati somatici, aspetto fisico, arriviamo molto lontano. Se intendi altro non mi é chiaro cosa….Per tutto il resto é un bel post, e mi ci ritrovo molto. Ciao.

  6. paolopatch ha detto:

    Caro Marco,
    per precisare: mi riferivo al nesso tra assunzione di modelli di comportamento, culturalmente appresi, e plasticità neurale. Questo dato di fatto, anche assumendo una visione materialistica o monistica, impedisce di ridurre il problema della trasformazione del comportamento a un determinismo pseudo-scientifico. La mia posizione è di salvaguardare la razionalità dell’etica rafforzandola, piuttosto che indebolirla, in base alla conoscenza del corpo, di come funziona, di come si può modificare. Con ‘corpo’ ovviamente non intendevo l’organismo, non il volto o il cranio. Spero che così sia più chiaro, ciao e grazie per il commento

  7. Marco Mantello ha detto:

    Così è interessante.

    Per fare il solito esempio dei movimenti corporei che precederebbero o non presupporebbero un atto di volontà che li deliberi, ad esempio: muovo il braccio, o un dito, in un millesimo di secondo, in base a un dato impulso neuronale non preceduto da una -chiamiamola così- volontà consapevole che delibera la mia azione corporea da prima… Se ho capito bene la tua posizione, l’impulso neuronale che fa muovere il mio dito o il mio braccio in un millesimo di secondo mentre penso a tutt’altro è condizionabile da una serie di modelli di comportamento culturalmente apprese. O detto in altre parole: questi modelli di comporamento culturalmente appresi sono idonei a determianre il fatto che in certe circostanze ambientali, in un dato individuo si atttivi l’ impulso neuronale a muovere o non muovere il braccio o il dito, ad esempio per puntare una pistola o premere un grilletto contro qualcuno?

  8. Marco Mantello ha detto:

    Ovviamente nell’ esempio che ho fatto, per evitare altre forme di determinismo sterile si dovrebbe postulare la possibilità che quell’individuo di cui parliamo, in quelle date cirocstanze ambientali, deliberi conspevolmente in senso contrario ai condizionamenti culturali che inciderebbero sul funzionamento del suo cervello “in automatica”… e quindi comandi il corpo in senso contrario a quello atteso dal presunto impulso neuronale…Non so, molti dubbi.

  9. marco mantello ha detto:

    E altra cosa che mi viene in mente: rnon c’é il pericolo di legittimare sistemi rieducativi piú che della figura foucoltiana del pazzo riuqilibrato con supplementi di realtá eni manicomi, della figura sociologica del deviante, e dei suoi neuroni attraveros opportuni stimoli culturali? Io sono dáccordo con te sul fatto che nelle neuroscienze si annidno fomre di determinismo e metafisiche….

  10. marco mantello ha detto:

    ….”d’accordo con te”… (ho la tastiera crucca…)

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