Due romanzi a confronto: Zero K e La vegetariana

La più bella battuta cinematografica sull’America post-Undici Settembre l’hanno scritta due fratelli (ora sorelle) di Chicago, per un film uscito prima del disastro del World Trade Center. È incorrotta dalla retorica come tutte le profezie, e arriva a metà di Matrix, pronunciata dal Morpheus di Laurence Fishburne come il vibrato di un martello contro muro di specchi: «Benvenuti nel deserto del reale», dice. È una battuta che funziona, per perfezione formale e per impatto, tanto che nel film la suggella un tuono di disneyana tempestività, ma la sua fortuna arrivata dopo, oltre i titoli di coda.

Hollywood sul Tevere

Giuseppe Sansonna è in libreria con Hollywood sul Tevere. Storie scellerate (minimum fax): pubblichiamo una galleria dei personaggi raccontati nel libro e vi segnaliamo che domani, domenica 23 ottobre, alle 17 l’autore presenta il libro alla Libreria Notebook all’Auditorium, all’interno della Festa del Cinema di Roma con Flavio Bucci, Gianluca Nicoletti e Francesco Zippel. (fonte immagine)

Il mio amore è un deserto — intervista a Giorgio Vasta su Absolutely Nothing

Questa sera, alle 20.30, Giorgio Vasta, Andrea Cortellessa e Giuseppe Zucco presenteranno Absolutely Nothing a Roma, presso la libreria Giufà). Pubblichiamo di seguito una lunga intervista di Giuseppe Zucco a Giorgio Vasta. Le fotografie sono di Ramak Fazel.

Nel 2013, nelle prime due settimane di ottobre, con Ramak Fazel (un fotografo americano di origine iraniana) e Giovanna Silva (fotografa e editore responsabile del progetto), hai intrapreso un viaggio insolito. A bordo di una jeep, per ottomila chilometri, attraversando uno spazio che va dalla California alla Louisiana, hai cercato e esplorato le ghost town, un cimitero di aeroplani, un lago fossile, spazi abbandonati, deserti. Da quell’esperienza hai tratto un libro, Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Quodlibet Humboldt, 2016). Come è nata l’idea di andare proprio lì, come si è formata questa compagnia, in che modo avete deciso le tappe di questo viaggio?

Qualche anno fa, mentre in treno tornavo a Torino dalla Fiera della piccola e media editoria di Roma, ho incontrato Alberto Saibene, che lavora da anni in editoria. Ci siamo messi a parlare e il discorso è finito sui viaggi, quelli fatti e quelli che avremmo voluto fare. In quel periodo cercavo spesso notizie sulle ghost town nordamericane, non avevo bene a fuoco le ragioni di questa curiosità – forse c’entrava la passione per il cinema western e per i romanzi di Steinbeck e Caldwell –, ma ricordo che osservare la fatiscenza e leggerne la storia aveva qualcosa di perturbante nonché di gratificante (ne traevo quel senso di rassicurazione involuta che possiamo avvertire davanti a qualcosa che percepiamo come irreversibile).

Benedetti, l’europeo

Questo pezzo è uscito in forma leggermente diversa su Succede oggi (fonte immagine).

“Io, ad esempio, non amo particolarmente la letteratura sudamericana. La trovo troppo grassa, floreale, sovrabbondante. A me piace la nettezza della lingua”: così, Francesco De Gregori, che confidava ad Antonio Gnoli i propri gusti letterari, nel recente Passo d’uomo. Per quanto mi riguarda, il mio non potrebbe essere altro che un pre-giudizio, coincidente con le preferenze del cantautore, perché quella letteratura la conosco poco, ma le sensazioni che ne ho tratto, le poche volte in cui mi sono deciso ad avvicinarla, erano simili alle sue: avevo a che fare con un carnevale umano molto colorato, nel quale le figure finivano per essere un po’ appiccicose e tracciate con contorni spessi – io preferivo l’acquerello –, e mi dava fastidio una certa ossessiva ricerca dell’epos.

La curiosità, però, mi rimaneva, mi rimane: il senso dell’avventura, anzi, nel procedere verso la soglia di un intero continente letterario, nell’affacciarmi su quello spazio per me vergine,con l’auspicio di una sua effettiva lontananza da certe iper-teoriche contorsioni europee.

L’arte del racconto secondo Philip Ó Ceallaigh

Philip Ó Ceallaigh sostiene di essersi trasferito a Bucarest perché voleva scrivere racconti. Nel 2000 all’età di trentadue anni si è sistemato dove è scomodo stare. Era primavera e viveva in periferia in un monolocale al decimo piano di una palazzina d’epoca comunista: «Non era esattamente un ghetto, ma nemmeno un quartiere alla moda». Costava poco e poté comprarlo, ma non aveva i soldi per riparare il soffitto. La pioggia penetrava nell’appartamento, a causa dell’umidità crescevano funghi sulla parete («erano multicolori, li avrei dovuti fotografare», dice).

Bucarest era in stato di decomposizione, dal comunismo al salto nel vuoto del libero mercato degli anni Novanta. E quel soffitto ne restituiva l’immagine: tutto crollava e nessuno sapeva come rattoppare. Dentro a quell’appartamento Ó Ceallaigh forse si è salvato la vita. Come i vicini di casa, prostitute che profumavano l’ascensore, giovani che più dei pensionati assomigliavano a relitti alla deriva, cercava la via di fuga all’assenza di senso: «Mi sembrava che perlomeno metà degli inquilini stesse impazzendo, confinati dalla povertà nelle loro stanze mentre il mondo di fuori collassava – ha scritto – . Ero il migliore scrittore irlandese non ancora pubblicato e delle volte, da ubriaco, mi gloriavo di questa follia sbracato nel buio da qualche parte».

“Randagi”, l’esordio a fumetti di Alessandro Mari

di Marco Rizzo

In America è ormai una prassi: scrittori che diventano sceneggiatori di graphic novel o di serie a fumetti. Il primo numero di Black Panther, la nuova serie dedicata al primo supereroe di colore, ha venduto oltre 300.000 copie, grazie certamente anche alla firma di Ta-Nehisi Coates, National Book Award e McArthur Genius, autore di una delle bibbie del movimento Black Lives Matter: Tra me e il mondo.

Giusto per fare qualche nome, Neil Gaiman, China Miéville, Duane Swierczynski, Victor Gischler, G. Willow Wilson, da anni, bazzicano il mondo della prosa come quello delle nuvole parlanti, firmando storie per le major del fumetto americano, Marvel e DC Comics. In Italia, il fenomeno è ancora molto circoscritto. È abbastanza consueto che scrittori affidino a sceneggiatori l’adattamento a fumetti di proprie opere, come è stato, ad esempio, per Senza Sangue di Alessandro Baricco, mutuato da Tito Faraci per i disegni di Francesco Ripoli, per il recente Porci con le ali, cult di Marco Lombardi Radice e Lidia Ravera, adattato da Manfredi Giffone e illustrato da Fabrizio Longo e Alessandro Parodi. O ancora, i vari fumetti dedicati a opere e personaggi di Carlo Lucarelli, ultimo in ordine di (ri)apparizione Coliandro, per le matite di Onofrio Catacchio.

Antoine Volodine e la distopia di “Terminus radioso”

Questa recensione è uscita sul Venerdì, che ringraziamo (fonte immagine).

Prima di tutto – e soprattutto, dappertutto – ci sono le piante: la malguardia, la sciugda, la sparvanella, la tartassina, la berlingotta, la vertena santa, l’iglizia, la stupifragola. Talmente fantastiche da risultare plausibili, non fanno che ondeggiare, mormorare, contorcersi, sibilare, crepitare.

Poi – ma solo come sopravvissuti, residui poco più che accidentali che affiorano da questo oceano vegetale – ci sono anche gli umani: disertori in fuga, clandestini, strutturali al sistema e allo stesso tempo dissidenti, miti, violenti, visionari, fisiologicamente mutanti, eternamente moribondi come Bargusine («assai frequentemente vittima di ciò che la saggezza popolare chiama decesso»), oppure eversivamente immortali come Nonna Ugdul (che per la sua ostinazione a non morire mai, sospettata di «deviazionismo organico» nonché di «individualismo piccolo-borghese», riceve dal Partito una nota di biasimo).

L’essenza torbida e impudica della vita (ovvero per quale motivo Philip Roth non ha ancora vinto il Nobel)

Ci troviamo nel quarto capitolo di Pastorale Americana. Merry Levov, la figlia dello Svedese, è latitante già da un po’. È accusata di aver fatto saltare in aria il minuscolo ufficio postale di Old Rimrock, e di aver ucciso un uomo nell’esplosione. Quando già i suoi genitori stannoperdendo la speranza di rintracciarla, Rita Cohen, una ragazza che sostiene di essere in contatto con Merry, comincia a tormentare lo Svedese con una serie di richieste da parte della figlia.

Prima si fa portare dei semplici oggetti: l’album con i ritagli di Audrey Hepburn, le scarpette da ballerina, il diario tartaglione (Merry soffre di unagrave forma di balbuzie). Infine gli chiede dei soldi: cinquemila dollari in contanti, in banconote di piccolo taglio non segnate.

Le chiocciole e le lumache

Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, un estratto dal libro di Giuseppe Antonelli Un italiano vero – La lingua in cui viviamo, uscito per Rizzoli (fonte immagine).

di Giuseppe Antonelli

Mia figlia piange. Piange piano, ma ha solo due anni, quindi noi genitori viviamo sempre con l’orecchio teso. Sentiamo il suo pianto sommesso mescolato alle voci di mamma e papà Pig e – all’unisono, senza dirci niente – ci fiondiamo in salotto, provenienti da stanze diverse. Lei è lì che tasta la faccia di Peppa e piange. Ha appena scoperto che la nostra tv non è touch screen e non ha retto alla delusione. Io mi tolgo i guanti da forno e la prendo in braccio. Mia moglie le allunga lo smartphone su cui stava scrivendo un messaggio di lavoro. Il minuscolo indice di Maddalena scorre sullo schermo, seleziona l’icona desiderata, ingrandisce una sua foto, il suo sguardo si specchia in quel ritratto. È di nuovo serena.

Ecco: io ho capito davvero cosa significa nativo digitale solo grazie a mia figlia. Quando le ho raccontato che al tempo in cui noi eravamo bambini il computer non esisteva, lei ha sgranato gli occhi e mi ha detto: «allora giocavate con l’ipèd?».
D’altronde, c’è tutta una letteratura umoristica su questo. Ci sono battute, video, vignette. Per esempio: «Ciao bimbo, quanti anni hai?». «Cinque». «Hai scritto la letterina a Babbo Natale?». «No, ho creato una whishlist sul mio iPad e gliel’ho sharata tramite Dropbox». E le cose, in effetti, stanno così: c’è poco da fare.

Dario Fo e il suo teatro

Pubblichiamo, ringraziando l’autore, un lungo articolo su Dario Fo scritto da Gianni Minà e apparso originariamente sulla rivista Vivaverdi nel 2010. L’intervista al premio Nobel fu rilasciata per il programma televisivo Storie (fonte immagine).

di Gianni Minà

Prima parte — Quando la Commedia dell’Arte diventa letteratura da Nobel

Quella di Dario Fo è un’avventura artistica che, dopo quasi sessant’anni, non accenna a tramontare. Mentre scrivo questo articolo su un “giullare” premiato nel 1997 con il Nobel della letteratura, a Parigi è stata montata una nuova versione di Mistero buffo: Mystère bouffe et fabulages che è stata in scena alla Salle Richelieu della Comédie Française fino al 19 giugno 2010.