Cohen: l’eterna domanda

Oggi prende il via al Circolo degli Artisti di Roma il minimum fax LIVE festival (qui i dettagli), una tre giorni di incontri con gli autori, musica, spettacoli e proiezioni di documentari. Questa serata inaugurale vedrà sul palco Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni, accompagnati dalla musica di Bruno Marinucci, recitare le poesie di Leonard Cohen, in uno spettacolo omaggio al grande cantautore canadese. Pubblichiamo di seguito, per farvi entrare nell’atmosfera, l’introduzione che lo stesso Giancarlo De Cataldo scrisse per la pubblicazione italiana della prima raccolta delle sue poesie, Confrontiamo allora i nostri miti (minimum fax, 2009).

di Giancarlo De Cataldo

La sera del 28 luglio 2008, dopo tre ore di concerto e quattro o cinque bis, Leonard Cohen si è scusato con il pubblico che affollava, in religioso silenzio, la cavea dell’Auditorium di Roma: dipendesse da me, sarei andato avanti tutta la notte insieme a voi. E in altri tempi l’avrei anche fatto. Ma sono un anziano signore di settantaquattro anni. Vi ho dato tutto quello che potevo. Goodnight, my friends, goodnight. Eravamo lì a sentirlo, stregati, assuefatti. Non volevamo che il momento magico finisse. Eravamo lì e ci domandavamo: ma da quanti anni lo seguiamo? Da quanti anni ci ritroviamo intorno a una sua pagina, a un suo disco, a un suo video? E soprattutto: perché? Perché questo anziano signore dall’aria modesta e gentile parla ancora con tanta forza al nostro cuore? Forse l’idea stessa di pubblicare – finalmente – in italiano l’opera poetica completa di Cohen è un tentativo di rispondere a questa domanda. Forse in questo libro è nascosto, da qualche parte, un frammento della risposta.

Let Us Compare Mythologies, la prima raccolta poetica di Leonard Cohen, consta di quarantaquattro componimenti. Fu pubblicata nel 1956 nella McGill Poetry Series, in un agile volumetto al prezzo di due dollari canadesi, corredato dai disegni di Freda Guttman, una delle prime «fiamme» del giovane poeta. Fresco di laurea alla McGill, Cohen si era già fatto conoscere, negli anni precedenti, grazie alla benevolenza dell’autorevole Louis Dudek e all’amicizia di Irving Layton, già considerato, all’epoca, il maggior poeta canadese vivente. Le sue prime poesie erano apparse sulla rivista civ/n, ossia «civilizzazione/cultura» nell’acronimo inventato dal Gran­de Maledetto Ezra Pound.
Figlio di una facoltosa famiglia di mercanti, il giovane Leonard Norman Cohen era presto rimasto orfano di padre, alla cui memoria sono dedicati sia il libro che una delle più commoventi poesie della raccolta, «Rites». Nonostante le affettuose raccomandazioni della famiglia, il ragazzo non aveva nessuna intenzione di avviarsi a una ordinata, «seria» carriera commerciale. Musica, poesia, scrittura erano le sue vere vocazioni. Aveva messo in piedi una band country, ma fu la poesia a indurlo ad abbandonare uno di quei lavoretti con i quali tanti ragazzi di costume anglosassone integrano le magre entrate studentesche. E grazie alla poesia, Cohen sperava di avere maggior fortuna con le donne: «Le volevo», avrebbe dichiarato, anni dopo, all’informatissimo biografo Ira Nadel, «ma non potevo averle. Questo è il vero motivo per cui ho cominciato a scrivere poesie. Scrivevo messaggi per le donne, per sedurle. Loro li facevano circolare, e la gente li chiamava poesia. Quando non funzionava con le donne, mi rivolgevo a Dio».2
In questa riflessione autoironica c’è tutto Cohen. E, a ben vedere, espresse con sublime grazia disincantata tutte – o quasi – le ossessioni della sua poetica: il distacco appartato e come sciamanico del Poeta/Bardo, il sesso, il misticismo. Tutte o quasi, perché Cohen nasconde, ci nasconde, come farà spesso negli anni a venire, l’altra grande ossessione della sua scrittura: il rapporto fra il Poeta/Bardo e la Storia. Rapporto che, pur non prescindendo mai dal Mito, avrebbe dimostrato, in alcune raccolte successive (Flowers for Hitler e The Energy of Slaves su tutte), nel romanzo Beautiful Los­ers e nell’ultimo, singolare e affascinante Book of Longing, di saper coltivare con una forza espressiva e visionaria immune da ogni moda e condizionamento contingente. Che il verbo di Cohen sia destinato a sopravvivere al tempo è provato da una circostanza singolare: Let Us Compare Mythol­ogies fu pubblicato lo stesso anno di Urlo di Allen Ginsberg. A mezzo secolo di distanza, dell’avventura beatnik si sono pressoché perse le tracce. Cohen, a settantaquattro anni suonati, è ancora in grado di stregare folle di «fedeli», come dimostra il successo clamoroso del suo recentissimo tour. E torna la domanda. Perché?

Non si può dire che Let Us Compare Mythologies mise a soq­quadro la società letteraria canadese. Le critiche furono, in genere, improntate a un benevolo distacco. Il ragazzo era considerato promettente, ma doveva ancora dimostrare tutto il suo valore.
Come ha scritto Allan Donaldson: «Cohen è ebreo e cittadino di Montreal, e questi due fatti influenzano pesantemente la sua poetica, che verte in gran parte sui temi del rapporto fra Ebrei e Gentili, sull’inumanità della moderna società urbana e sulla sua indifferenza per il fondamentale bisogno umano di libertà e amore. La sua grande debolezza è l’abuso di immagini di sesso e di violenza, tanto che nelle parti peggiori il suo lavoro è una sorta di poetica reductio ad absurdum delle Folies Bergère e della Camera degli Orrori del Museo delle Cere di Madame Tussaud».
Niente di nuovo sotto il sole, da un lato. E, dall’altro, quel poco di nuovo, apertamente censurato.
L’occhiuto critico, in realtà, stava inconsapevolmente sottolineando tanto l’originalità del giovane Cohen che la presenza, nella sua opera, di una vena profetica destinata, negli anni a venire, a fare scuola. Non sarebbero forse, di lì a poco, il vaudeville e l’orrore divenuti la cifra stilistica della modernità? Non si può dire che lo siano, in buona misura, anche oggi? Let Us Compare Mythologies è il manifesto poetico nel quale Cohen annuncia, con estrema onestà, i temi che scandiranno costantemente la sua evoluzione creativa. Una canzone come «The Future», con la sua apocalittica visione del mondo come murder, Cohen avrebbe già potuto scriverla quarant’anni prima del 1993: perché sta già tutta «dentro» le sue poesie giovanili.
C’era dunque, sin dalle prime poesie, una singolare mescolanza di generi e di linguaggi, un felice meticciato destinato a parlare al cuore (per tornare alla domanda iniziale) di tanti che si ostinano a sentirsi nomadi, a recalcitrare nei recinti di destini che scorrono su binari di ordinaria normalità? C’era forse l’indicazione che quella normalità nascondeva la peggiore, la più ingovernabile delle follie? C’è, in definitiva, un «messaggio», religioso, anarchico, individualista che è in grado di raggiungere alcuni bersagli mirati e condizionarli?
Forse. E forse anche questa è soltanto una congettura, arbitraria come tutte le congetture.
A un grande scrittore, Michael Ondaatje, dobbiamo la descrizione/lettura più efficace di queste poesie, e forse di Cohen stesso: «Il libro rivela un delicato mondo vergine dove stupro, assassinio, intrigo politico e crocifissioni sono viste come circondate da un velo. La bellezza è tutto, e la violenza è una delle fonti della bellezza – perché le coltellate sono viste come carezze […] E al centro di queste poesie c’è Leonard Cohen, l’autore dell’azione e l’interprete principale: come Mickey Spillane, è lui il suo miglior Mike Hammer. Dice in una poesia: è importante capire la propria parte nella leggenda, e questi mondi di sogno rivelano nuovi pozzi nella sua mente mentre lui, come Suzanne, si muove e tocca corpi perfetti».
Mi rendo conto di non essere in grado di rispondere, come coheniano di lungo corso, alla domanda iniziale. Perché Cohen? Perché ancora Cohen? La passione, sicuramente, non favorisce il distacco critico. Per chi ama Cohen, questo suo primo libro ha lo stesso peso, la stessa forza, lo stesso valore delle sue più belle canzoni, dei suoi due romanzi di culto, delle memorie, personali o collettive, che la sua voce profonda continua a evocare in centinaia, migliaia di coscienze inquiete da questa e dall’altra parte del mondo. Perciò, ogni lettore è autorizzato a cercare, e a trovare, da sé la propria risposta. «Stiamo creando una chiesa libera nella quale ogni uomo può avere la propria visione», disse una volta Cohen. «In altri termini» – è ancora Ondaatje a chiosare, anche lui perplesso, e in cerca di una spiegazione al mistero Cohen – «in un tempo di eccessivi formalismi, dobbiamo diventare santi di noi stessi e assicurarci di poter promuovere la nostra personalissima cella di anarchia».
E augurarci, magari, che la voce profonda del poeta continui ancora a lungo a imporre il silenzio della profondità al vociare confuso della superficialità.

Commenti
2 Commenti a “Cohen: l’eterna domanda”
  1. marian ha detto:

    Grazie per la recensione 😉

    Ad ogni modo spero avrai tempo e voglia di ricambiare la visita sul nostro blog Vongole & Merluzzi, dove stavolta parliamo dell’ “io” 😉

    http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/06/24/che-cazzo-ce-che-cazzo-vuoi/

    Grazie e complimenti per il post 😉

  2. Tirana Calling ha detto:

    Bello il pezzo di de Cataldo.

    Per di più credo che abbia veramente colto il mistero : ossia, why Lennard? Non lo so. Eppure, in questo piccolo ebreo, c’è qualcosa che va oltre la poesia, i versi, i sentimenti. Forse è quello che i saggi chiamano ” un maestro di vita”

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