Daniele Del Giudice: prendere la mira

Di Giacomo Ferrara

 

Lo stadio di Wimbledon è il primo romanzo di Daniele Del Giudice. Racconta la storia di un giovane che cerca di capire qualcosa riguardo Bobi Bazlen, compiendo numerosi viaggi, a Trieste e a Londra, in cerca delle persone che lo conoscevano. A noi non serve dire molto sulla figura di Bazlen, come ammette lo stesso protagonista del romanzo:

Non mi interessa il guru, o l’eminenza grigia, o il lettore di libri strani

Di questo intellettuale – usiamo il termine in mancanza di uno migliore o più edificante (qualcuno forse lo definirebbe mistico) – bisogna sapere due fatti: che amava profondamente la letteratura (lo testimonia la sua carriera di lettore e, occasionalmente, di editor), e che ha compiuto la scelta di non scrivere per pubblicare. Ecco dunque la ragione di tutti questi viaggi:

Quello che a me interessa è un punto, in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere. Chiunque scrive se l’immagina in un certo modo. Con lui invece in quel punto c’è stata un’esclusione, una rinuncia, un silenzio. Io vorrei capire perché

Questa dichiarazione, così esplicita, arriva piuttosto tardi all’interno del romanzo: come se la sua motivazione dovesse risultare misteriosa al lettore, a cui magari, negli anni ’80, la figura di Bazlen non era così nota – certamente lo è per il lettore avveduto di oggi.

Formuliamo un’ipotesi di partenza: il protagonista di questo romanzo, narrato in una prima persona che rifugge praticamente ogni informazione su se stessa, coincide in qualche modo con l’autore di cui leggiamo il nome in copertina. La nostra ipotesi ci appare per lo meno sensata: i due hanno la stessa età, e sono accomunati da una conoscenza di aeroplani, e mezzi di trasporto in genere, decisamente fuori dal comune. Se leggiamo il romanzo assumendo quest’ipotesi, e vi aggiungiamo l’informazione che possiamo leggere sul dorso di copertina, ossia che questo è in effetti il primo romanzo dell’autore Daniele Del Giudice, allora forse già sappiamo cosa aspettarci da questa storia, pur avendone letto solo poche pagine. La storia di un giovane uomo che si sta chiedendo se è il caso di cominciare a scrivere e pubblicare. Il modo migliore per rispondere a questa domanda, sembra dirsi, è cercare di capire le motivazioni di una persona profondamente immersa nella letteratura, che ha risposto negativamente a questa domanda. Bene, per il fatto stesso di tenere Lo stadio di Wimbledon tra le mani, sappiamo che in un dato momento, dentro o fuori dal libro, il protagonista/autore deve aver preso la decisione opposta a quella di Bazlen. Così tante informazioni tratte solo dall’involucro di un libro e poco più: credo si possa dire che questo non è un romanzo che fa della trama il suo punto forte.

Già, a questo punto dovremmo discutere il punto di vista di Italo Calvino, espresso in un testo brevissimo, tanto che nella prima edizione appariva addirittura in quarta di copertina, mentre nella mia (un’edizione tascabile esaurita da tempo, che ho dovuto farmi spedire, sorprendentemente, proprio da Londra) è posto a mo’ di postfazione. Calvino scrive:

A un certo punto del suo itinerario (o già in principio?) il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresentare le persone e le cose sulla pagina, non perché l’opera conta più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in un’appassionata relazione con il mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso

Ha ragione: la qualità più evidente nella scrittura di Del Giudice risiede nella sua singolare capacità di descrivere così lucidamente gli oggetti che incontra sul suo passaggio. Ma, posta a questo modo, ci sembra che si collochi troppo decisamente Del Giudice nella casella di un realismo radicale e asettico (quel “razionalismo” simboleggiato dalla carta di Mercatore che dava il titolo provvisorio al romanzo. Si riprenda ad esempio la pagina in cui viene descritto il viaggio aereo da Roma a Londra, passando per le diverse stazioni di rilevazione: è di rara bellezza). Naturalmente il testo di Calvino è troppo breve per consentirci di attribuirgli una posizione così decisa, ma decidiamo di forzare la sua lettura: sembrerebbe così dire, forse legittimamente, che Del Giudice ha scelto ben presto di distanziarsi definitivamente dalle preoccupazioni di Bazlen, in favore di uno sguardo volto tutto verso l’esterno (il solo che permetta di raggiungere questo misterioso «nocciolo irriducibile della soggettività»), che, insomma, Lo stadio necessita senza dubbio di un immacolato bianco Einaudi (come Palomar, uscito lo stesso anno), e non di un pastellato Adelphi. Ma Calvino in questo brano sembra intendere anche un’altra cosa: un certo sguardo fotografico sulle cose del mondo, nitido e senza ombre come quello che apprezziamo in ogni pagina del romanzo, forse non si assume se non si è già deciso di farne qualcosa in futuro, ossia di tradurlo in letteratura. Il modo di stare al mondo di quello che diverrà il narratore del romanzo – il suo stile sulla pagina – è insomma forse troppo attento, rivelando di aver già accolto la possibilità che ciò che osserva dovrà infine essere descritto. Del resto sembra che lo stesso protagonista ne sia cosciente:

Probabilmente sarò partito da nomi che risuonavano nelle pagine, in piano, ormai puri nomi, astratti e potenti; poi sarò andato verso la voluminosità rotonda e ambigua da cui furono ristaccati al momento del ricalco. E di nuovo avrò cercato il dovere della carta, reinventando gli angoli di rappresentazioni […] Così adesso è ancora per fedeltà alla carta che osservo la donna che va su e giù nella piazza del municipio…

Nelle pagine finali del romanzo troviamo il protagonista seduto su una seggiola dello stadio di Wimbledon. Dietro di lui qualcuno ha lasciato inavvertitamente una macchina fotografica. Gli vien voglia di prenderla per poter scattare alcune foto di quel luogo, perciò comincia a chiedersi se sia giusto, e come fare per salvare il rullino del proprietario precedente. In precedenza abbiamo scoperto che nutre una certa avversione per le foto; in particolare, per quelle che ritraggono Bobi Bazlen: quando in uno dei colloqui con chi lo aveva conosciuto gli erano state poste di fronte, aveva fatto di tutto per non posarvi lo sguardo (lo stesso sguardo che, secondo Calvino – e noi siamo un po’ d’accordo –, è già macchina fotografica, macchina de-scrivente, per dirla con un termine degno di un post-strutturalista francese). Il protagonista indugia ancora un po’, ma un altro uomo, non il suo possessore, si avventa sulla macchina con maggior decisione e la prende con sé. Come dobbiamo intendere questo episodio? La scrittura di Del Giudice è destinata a prendere il posto di quell’oggetto tecnico, e farsi essa stessa macchina fotografica (sguardo esterno e obiettivo, se mai ce ne fosse uno) o piuttosto che quello non è il suo destino, e che dovrà decidersi a fare (anche) altro?

In questo come nei successivi libri, i protagonisti di Del Giudice amano discutere di questioni tecniche in modo insolitamente dettagliato. In Atlante occidentale i due personaggi principali sono uno scrittore affermato, in aria di Nobel, e un fisico sperimentale, impiegato al CERN di Ginevra. Entrambi, come Del Giudice, nutrono la passione per il volo: si sono incontrati proprio in un aerodromo. Su cosa si fonda la loro amicizia? Lo scrittore sembra voler scoprire quanto più possibile dei meccanismi di misurazione (che, in quanto a precisione e obiettività, superano decisamente la macchina fotografica) adoperati dal fisico, più giovane di lui, il quale a sua volta ha delle motivazioni piuttosto comprensibili per voler parlare con una personalità così importante. Del Giudice sceglierà di utilizzare la voce narrante, in prima persona, del fisico, ponendosi così nuovamente dal lato opposto a quello dello scrittore/intellettuale. Anche il protagonista di Staccando l’ombra da terra è un pilota, di cui si racconta l’apprendistato svolto in una cabina al fianco di un maestro, Bruno, che si limita a pronunciare solo le poche e indispensabili indicazioni in gergo aeronautico («Bruno si affaccia alle parole con prudenza e da chissà dove, come se le sue parole andassero usate in casi eccezionali e quando proprio non si può fare diversamente»).

Quando si tratta di parlar d’altro (di cosa? Delle “cose che contano”?) tutti questi personaggi tacciono, cambiano argomento, fanno finta di non sentire o, al più, ricorrono a gesti e frasi allusive, nella speranza che esprimano molto più di ciò che è lecito aspettarsi. Ecco cosa ha da dire a riguardo il protagonista del racconto L’orecchio assoluto:

Anche il suo modo di parlare apparteneva a ciò che da giovane avrei pensato come il prima di me, un modo assediante di stringere l’interlocutore con un argomento ma senza mai aderirvi completamente, come se le parole servissero ad altro e ci fosse uno spazio parallelo di curiosità e conoscenza, uno spazio silenzioso, e quello solo contasse. […] Più la conversazione s’avviava più io cercavo di svuotarla, riducendola per quanto riguardava me al solo perimetro fatto di assensi, sorrisi, silenzi

Come può non venire in mente il «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» di Wittgenstein? Le vicende de Lo stadio di Wimbledon sono prevalentemente questo: dialoghi a lungo attesi che però si scontrano con imbarazzi, sottintesi, incapacità o non-volontà di elaborare oltre. A tratti è snervante. Altrove nell’opera di Del Giudice sembra che i personaggi si rassegnino più volentieri a «triangolare» il loro rapporto attraverso appassionate descrizioni di un oggetto, l’oggetto delle loro manie (lo spiega molto bene Tiziano Scarpa, nella prefazione al volume Racconti).

Torniamo ora alla questione dirimente che occupa la mente del giovane protagonista de Lo stadio. Perché non scrivere? In particolare: perché Bobi Bazlen non ha voluto scrivere? Nel libro, nonostante la generica ritrosia che lo anima, si azzardano alcune risposte. Viene suggerito che Bazlen temesse di deludere le sue aspettative sulla letteratura in generale, o le aspettative degli altri nei suoi confronti. O che preferisse agire nel mondo solo per via indiretta, cambiando la vita delle persone che lo circondavano, spingendo loro a scrivere, o diffondendo letteratura nelle vesti di editor. Lui stesso prova a dare in un certo senso una risposta, sentenziando sul suo momento storico, nel quale «Non si possono più scrivere libri», ma solo «note a piè di pagina». Roberto Calasso per rispondere alla domanda tirava in ballo la filosofia orientale, e il dovere di non lasciare tracce. In generale, si possono addurre alla domanda risposte di vario genere, non ultima una di tipo etico, per cui scrivere (qui sempre sotto inteso: per la pubblicazione, e con scopi letterari) possa essere in sé qualcosa di dannoso (nel saggio La conoscenza della luce Del Giudice vi accenna parlando di aerei da caccia: così veloci che il loro sparo, per essere efficace, non è innescato da comandi manuali ma semplicemente dallo sguardo del pilota, rilevato da sensori posti nel suo casco. Il protagonista del racconto Dillon Bay, un militare, dice: «È strano, ma ho sempre pensato che ci fosse una differenza tra il guardare e il prendere la mira. Pensavo che questa differenza potesse separare il mio mestiere dalla vita». È una specie di sindrome di Medusa, per cui si ha paura delle conseguenze del proprio stesso sguardo. Nei suoi testi sul volo Del Giudice torna spesso a descrivere, affascinato, le situazioni in cui ci si trova a pilotare senza poter ricorrere alla vista, come per esempio in mezzo a una nube, e bisogna affidarsi alle indicazioni dei sistemi di misurazione, anche contro il proprio intuito. Come se fosse grato di queste strane occasioni in cui si può fare a meno dell’osservazione diretta per stabilire la propria condotta – morale o del veicolo, non fa molta differenza). Non elaboriamo oltre, e osserviamo piuttosto che, trivialmente, le ragioni per non scrivere non possono veramente essere scritte. E, forse, non possono neanche essere dette (il nostro post-strutturalista interiore vorrebbe dire che questo è un caso in cui si vede bene come la parola è sempre già testo). Del Giudice scrive qualcosa del genere in un suo saggio, Conversazione sull’animale parlante:

1. Ogni considerazione sull’atto del narrare è obbligata a usare la stessa materia – le parole – della narrazione.

2. Quando tentiamo di spiegare la legge delle sue forme o il suo mistero, restiamo comunque fuori dall’atto della narrazione (fuori dal romanzo, dal racconto, dal libro, e fuori dallo scrivere e dal leggere)

Per questo i numerosi colloqui con le persone che conoscevano Bazlen, interrogate dal protagonista, si devono per forza (non-)risolvere in cenni, parole vacue e non detti. Per questo non possiamo sapere nulla delle motivazioni di Bazlen: se, come diamo per scontato, avesse davvero accolto queste buone ragioni per astenersi dalla scrittura, come potrebbe dirle, senza inficiarne automaticamente la validità? L’unica sua possibilità era forse, al contrario, esemplificare questa sua risoluzione attraverso il comportamento di una vita.

Assunta questa impossibilità di esporre le ragioni per cui è necessario non esporsi, ci dobbiamo chiedere se lo scrittore che abbia deciso di esser tale debba necessariamente uccidere il Bazlen che ha in sé, e fare di questo delitto un “rimosso” mai più confessabile. L’ultima conversazione raccontata nel romanzo avviene subito dopo la visita allo stadio. Il narratore ha viaggiato fino a Londra per incontrare Ljuba Blumenthal, la persona da cui più si aspetta di poter scoprire qualcosa di fondamentale su Bazlen (la stessa donna cui Montale dedicò A Ljuba che parte). Lei è quasi cieca. I due, al solito, non si dicono molto. Quando si stanno ormai per salutare, lei lo chiama. Ha con sé un maglione, o pullover, appartenuto proprio a Bobi Bazlen: lo appoggia sulla sua giacca per valutarne le misure. E poi? Quando lessi per la prima volta questo romanzo, qualche anno fa, finii per distorcene il ricordo, così mi è capitato di raccontarne il finale a degli amici sbagliandomi, mostrando di non averci capito molto. Nel finale, per come lo ricordavo io, il protagonista del romanzo trovava che il maglione gli stesse benissimo, ma subito lo levava di dosso, restituendolo a Blumenthal. Vestire il maglione di Bazlen avrebbe significato ripetere la sua scelta, non scrivere. Terrorizzato dalla facilità con cui potrebbe egli stesso divenire un non-scrittore, in questa mia versione erronea del racconto, decideva di restituirlo, e vi riusciva. Anche nelle pagine scritte davvero ne Lo stadio il protagonista finirà per levarsi il maglione (non potrebbe essere altrimenti, per le ragioni di cui si diceva all’inizio). Quando glielo mostra, Blumenthal osserva che è «corto e largo», ma è fiduciosa che lui possa ripararlo. Lui non lo ha ancora addosso, e spera che, nel proseguio della chiacchiera, possa rimanere lì, dimenticato. È solo quando ormai deve andare che non può fare a meno di metterlo, incoraggiato dalla sua ospite. Lo tiene però più a lungo di come ricordavo, anche dopo aver salutato Blumenthal, dirigendosi sulla via del ritorno a casa. Camminando cerca di non respirare, per avere meno aderenza al maglione. Si concentra sullo spessore della camicia che lo divide dalla lana grigia del pullover. Appena arrivato alla stazione della metro, si sveste. Qui il punto fondamentale: il protagonista del romanzo non getta via il maglione, non se ne disfa, ma decide di portarlo con sé.

Se ho deciso di scrivere un articolo su questo romanzo che, mi auguro, potrà ricevere una nuova attenzione dopo la sua ripubblicazione, è perché credo che il finale mostri straordinariamente bene una possibilità della letteratura. «Portare il maglione con sé», cosa significa? Significa, credo, non dare mai per scontato che si debba scrivere, o che ne valga la pena, ma continuare a frequentare quel sé non-scrittore che pur si è scelto di abbandonare (un abbandono consapevole di cui si accettano, a malincuore, le conseguenze). Significa riconoscere che per uno scrittore guardare è, per forza di cose, prendere la mira, ma non smettere per questo di chiedersi come potrebbe essere altrimenti. È parte di quello che da sempre si dice sull’ottima letteratura: la sua capacità di stare accanto al suo contrario, di smontarsi e negare se stessa, ampliare i limiti del linguaggio. Del Giudice lo dice così: «Custodire l’ombra della lingua lavorando al tempo stesso con la sua parte in luce». Ovunque, ne Lo stadio di Wimbledon, è presente l’ombra di ciò che non può essere detto. Moltissimi scrittori sembrano non vedere l’ora di staccarsi da quest’ombra, gettando via il maglione. In pochi resistono alla tentazione, provando a mostrare l’altra possibilità. È sorprendente che qui in Italia, e in fondo poco tempo fa, uno scrittore vi sia riuscito, con tutta questa chiarezza.

Commenti
2 Commenti a “Daniele Del Giudice: prendere la mira”
  1. Piero Di Susa ha detto:

    Complimenti per il bellissimo articolo.

  2. Giacomo ha detto:

    Grazie, Piero!

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