Viaggio al termine del linguaggio: l’Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio

«Ogni tanto, come ho detto, mi scappa una parola fuori luogo.

La questione della vita, la nostra questione quindi, è tutta costruita sul linguaggio, dal linguaggio viene e con lui se ne va, dalla memoria al futuro, dalla nascita a dopo la morte, perché il corpo non resta ma le parole – che abbiamo detto, adoperato, consumato, scritto, ascoltate o fatto finta di no – rimangono, per nostra fortuna, nostro malgrado. Siamo fatti della stessa (sola) sostanza di cui sono fatti gli alfabeti, quelli che conosciamo e quelli che non arriveremo mai a scoprire, quelli che ci hanno preceduti.

Siamo una grammatica fatta di ricordi consunti, cucine, radio che trasmettevano la hit-parade, voci che rimbalzano da un cortile. E dopo, il suono della voce di una nonna che ci chiama in dialetto, o che canta, siamo un rimprovero di una mamma, una carezza a sorpresa di un padre. Siamo una sintassi domestica, scolastica, di bus, di tram, di metropolitane e poi siamo quell’altra fatta di poesia, di parole nuove da cercare nei libri, o in alcuni insospettabili, altri da noi, siamo come un rumore, agitati da una vibrazione costante che è la nostra biografia, il nostro battito più intimo.

Siamo la prima parola d’amore scucita dalle nostre labbra, siamo lo slogan urlato durante i primi cortei, siamo parole politiche e private, siamo un sentimento che comincia per A e non finisce per Zeta, perché poi giorno dopo giorno ricomincia. Siamo cresciuti così, e così invecchieremo, parole bollite come pentole sul fuoco, parole nuove come la corsa in motorino in un mattino di primavera; siamo lessico famigliare e lingue straniere da imparare, siamo i codici segreti che stabiliamo con chi amiamo, siamo un viaggio fatto di ogni parola data, di ogni frase perduta.

Queste frasi in sequenza escono ora come se qualcuno me le stesse dettando, come se qualcuno me le avesse suggerite da una radio in sottofondo, come se le avessi ricavate dopo l’ascolto di un reading di poesia, la ninna nanna che cantava mia zia, escono così dopo aver chiuso Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio (minimum fax, 2024), un libro che prende le lettrici e i lettori chiamandoli per nome, tenendoli per mano. Un libro che è come una lunga conversazione, dove una volta tanto stiamo in silenzio e ascoltiamo.

È stata, quella della madre, una lingua anti-istituzione? Una lingua anti-padre? O forse una lingua che offriva al padre ciò che lui cercava in lei, uno svelamento – un po’ conferma, un po’ evasione – del mondo calvinista in cui l’aveva portata? Ti faccio entrare così mi fai uscire?.

Tommaso Giartosio ha scritto un libro raffinato e molto godibile che non somiglia a niente, se non a quello che siamo. Dopo averlo letto si ha l’impressione (o fors’anche il desiderio) di essere portatori di linguaggio, non importa se sani oppure no, se morti oppure no. Se la lingua è lo strumento attraverso il quale raccontiamo, se ne è forma è anche sostanza. Ovvero la lingua è il mezzo ma anche il contenuto della narrazione, è il motivo.

Giartosio ci dice che il linguaggio è una lunga corda, da qualche parte – chissà dove – c’è il capo, in mezzo ci sono le mani che hanno fatto e toccato e modificato il percorso, il suono, lo stato delle parole. Ci sono i nodi e gli snodi, c’è chi ha sciolto il nodo e chi non c’è riuscito.

Al centro di tutto ci sono le coscienze, le esistenze, le modulazioni delle nostre frequenze. L’altro capo non c’è. Cos’è questo libro? Che importa, verrebbe da dire. È romanzo di formazione e d’informazione, è intimo ma poi canta come un diario collettivo in cui anche chi legge è interpellato. Ebbene sì, ci toccherà dire la nostra, a bassa voce, sottolineando e accennando qua e là un sorriso. Amore e dolore, memoria e desiderio. Una postura fatta di sguardo che non può fare altro che affacciarsi sul futuro.

A volte ricordare il passato serve proprio a non vederlo agire nel presente – e poi, all’improvviso, riviverlo.

Un viaggio affascinate in queste pagine, fascino che subiamo, così come l’autore fin da piccolo lo ha subito da ogni singola lettera, da ogni parola pronunciata. C’è della bellezza in questo, tanta luce, angoli d’ombra, perché anche dall’oscurità parliamo. Sì, certo, è anche un memoir, ma è un trattato sull’amicizia, sulla dolcezza che fanno le parole che abbiamo imparato da piccoli, a pranzo, nelle gite, prima di andare a dormire e su quell’altro tipo di dolcezza che viene da come le abbiamo cambiate, reinventate, usate. Si parla molto d’identità di questi tempi, di cosa significhi, di quanto conti. L’identità perduta, l’identità cercata, l’identità non voluta. Per Giartosio il linguaggio identifica, è la chiave identitaria. La grammatica di questo libro se si ispira a quella di Natalia Ginzburg poi se ne allontana. Qui ci si trova davanti a un rigore e una profondità che somigliano alle certezze che ci offre la matematica. Le lettere, le parole e le frasi per Tommaso Giartosio sono numeri, formule, teoremi, e perciò sono speranze.

L’autore ha un vestito pieno di parole, ha il coraggio di portarlo, perché – come si dice – le parole bisogna saperle portare, in quel caso sono come il colore blu che funziona praticamente con tutto.

 

Commenti
Un commento a “Viaggio al termine del linguaggio: l’Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio”
  1. Andrea ha detto:

    Dopo una recensione del genere come si fa a non comprare e leggere questo libro!
    Mi farò risentire alla fine della lettura.
    Per ora grazie.
    Andrea

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