Amore e scrittura: intervista a Scott Spencer

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Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Fonte immagine)

L’amore è o non è. È l’indubbia impossibilità di rimanere divisi. È l’assenza di compromessi. Esiste solo al tempo presente (non è amore se è stato o sarà). È senza fine. Lo racconta magistralmente Scott Spencer in un romanzo pubblicato in America nel 1979 e oggi felicemente riproposto in Italia. Il libro si chiama Un amore senza fine (traduzione di Francesco Franconeri, Sellerio, pp. 592, 15 euro), venerato da lettori, critica e colleghi scrittori alla sua uscita e negli anni a venire. Un libro di culto che si rivela ancora oggi pieno di grazia, in ogni pagina, evento o sentimento raccontato.

Protagonista e narratore è il diciassettenne David alle prese con quello che sarebbe riduttivo chiamare “primo”, “grande” o qualsiasi aggettivo si è soliti anteporre alla parola amore. La ragazza è la coetanea Jade. Il romanzo inizia una notte d’agosto del 1967 a Chicago, quando costretto a separarsi da Jade, David dà fuoco alla casa dove Jade abita con la famiglia. Da quelle fiamme prende vita la storia, inaspettata, costantemente perfetta in contenuto e forma, in grado di dare la misura esatta del potenziale erotico di amore e scrittura.

“Ci ho messo quattro anni per scriverlo”, racconta oggi Spencer. “L’ho scritto in un appartamento sulla undicesima West a New York, in una casa isolata nel New Hampshire, e in una casa altrettanto isolata nel Vermont (il proprietario era il figlio di Wilhelm Reich!). In New Hampshire vivevo con 100 dollari a settimana di sussidio di disoccupazione. Poi un amico a New York mi ha rimediato un lavoro come ghostwriter. Sono tornato a New York e ho trovato lavoro in una minuscola casa editrice indipendente, dove venivo pagato quasi a sufficienza da viverci – e quando è bastato per avere il coraggio di sposarmi con una donna che lavorava per un’altra casa editrice indipendente. Scrivevo di notte e nei fine settimana. Mia moglie era un angelo in quanto a sopportazione e lasciava che le leggessi pagine del libro tre o quattro volte a settimana, dispensando incoraggiamenti e qualche critica. Il nostro primo figlio è nato tre mesi dopo che il libro è stato pubblicato”.

David è sempre stato la voce narrante?

No, solo nelle ultime due versioni del romanzo. Per me è lui il personaggio più affascinante del romanzo, e lo è diventato ancora di più dopo avere preso il controllo della narrazione. Ero affascinato dalla sua irragionevolezza, dalla sua capacità di tollerare il dolore e dalla noncuranza di quanto gli altri pensassero di lui. Freud ha scritto magnificamente della civiltà e del suo disagio; la società strutturata, i costumi contemporanei, le aspettative dei genitori e la legge in sé sono tutte cose da cui David Axelrod non è immune, ma ciononostante non molla. C’è chi lo trova mentalmente disturbato, ma io dico: non del tutto.

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