Scrivere di cinema: Weekend di Andrew Haigh

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Pubblichiamo la seconda puntata della rubrica in collaborazione con Scrivere di Cinema Premio Alberto Farassino, il concorso nazionale di critica cinematografica per gli Under 25 promosso da Pordenonelegge, Cinemazero e il SNCCI insieme con Mymoviesminima&moralia. Qui la prima recensione. Vi segnaliamo inoltre il bando della nuova edizione: scriveredicinema.mymovies.it.

di Leonardo Capanni

Russell (Tom Cullen) è un giovane come tanti: vive in un piccolo appartamento di Nottingham, fa il bagnino in una piscina pubblica, si veste come un qualunque maschio tra i 20 e i 35 anni (t-shirt, giubbotto di pelle, camicia a quadri, nike). Sembra un tipo piuttosto tranquillo, anche se non abbastanza da rifiutare un tiro o una striscia, con un gruppo di amici a cui non dice proprio tutto, una parete di camera tappezzata di foto, biglietti e cartoline, innamorato dei suoi oggetti di seconda mano: qualcuno che non sa se dirsi felice, ma a cui ogni tanto tocca ammettere di stare bene.

Weekend racconta due suoi giorni passati con Glen (Chris New), cinico impiegato in una galleria d’arte conosciuto per caso in un locale. I due provengono da pianeti opposti, come scopriremo in seguito: responsabile, timido e realista il primo (l’adulto), più deciso, impulsivo, sfrontato e adolescenziale il secondo. Finiranno a letto insieme. Al risveglio, Glen chiederà a Russell di raccontare in un registratore le impressioni su quel loro primo incontro, per una specie di progetto artistico a cui sta lavorando.

Nasce con qualche esitazione (“perché sarebbe arte e non un insieme di persone che dicono porcherie?”) un rapporto che diventa via via più intenso, raccontato con affetto e ironia dal regista e sceneggiatore Andrew Haigh. La sua scrittura asciutta riesce a immergersi con grande realismo nell’intimità di questa relazione, riuscendo a catturare la nostra attenzione ma lasciando anche il tempo per riflettere ‒ soprattutto, evitando di cedere al compiacimento o alla malinconia. È uno sguardo che assomiglia a quello di Russell quando segue Glen allontanarsi tra le geometrie di una piazza sottostante, affacciato dalla sua finestra. Torna in mente una foto in bianco e nero di André Kertész (Washington Square, Winter), anche se al posto del silenzio della neve c’è il grigiore del cemento insieme al verde di qualche aiuola.

Estremizzando, Russell è il calore umano di cui non possiamo fare a meno, con tutta l’insicurezza che da sempre lo accompagna; Glen, il bisogno che sentiamo di conoscerci a fondo, “ridisegnarci”, prima di muovere un qualsiasi passo verso gli altri. Hanno entrambi le loro ragioni, oltre ai loro difetti: non è facile venirsi incontro, dimenticare tutti i lacci in cui siamo invischiati, fare affidamento soltanto sulla fragilità dei nostri desideri. Resta comunque un momento potente, quando i due provano a stare insieme su una bici (quella di Russell, 30 sterline a un mercatino dell’usato) per le vie della città. Si respira il senso di un nuovo equilibrio, simile a quello che fa esplodere il biondo e irrequieto Steve in Mommy (2014), in una scena che è già culto (anche se la potenza di Dolan è tutta americana ‒ canadese, se si vuole ‒, mentre i dubbi e il pudore di Haigh hanno un sapore decisamente europeo).

Girato nel 2011, in appena 17 giorni e con circa 120.000 sterline di budget, Weekend è il secondo film di questa “giovane promessa” del cinema britannico (dopo l’esordio semi-documentaristico di Greek Pete), quello che lo ha rivelato al mondo e gli ha permesso di uscire dal circuito lgbt in cui rischiava di rimanere confinato. Il salto di qualità dopo i cortometraggi e i primi esperimenti, il film finalmente in grado di parlare a tutti. Per quale motivo allora si è dovuto aspettare così a lungo? E in base a quali calcoli, dopo 5 lunghi anni, distribuirlo in appena 10 sale (tutte al nord, tranne una a Roma)?

Meglio di noi si sono mossi paesi come la Polonia, il Brasile, la Turchia. In Italia si è stati costretti a cavalcare il successo di 45 anni (2015), il terzo film di Haigh premiato con l’Orso d’argento a entrambi i suoi protagonisti, per andare a riscoprire questa sua opera precedente. Che si è potuta perfino spacciare per il suo primo lungometraggio (come hanno scritto testate del calibro di TerzaPagina, Cineblog, Ansa, addirittura la stessa TeodoraFilm che si è incaricata di distribuirlo), visto che di Greek Pete forse è davvero meglio non parlare.

Cosa avrebbe da dire, riguardo a un film su alcuni rent-boy londinesi costato più di sei mesi di lavoro, il dibattito pubblico di un paese dove una Commissione Nazionale Valutazione Film (organo della CEI) è stata capace di stigmatizzare il tocco intimista e delicato di Weekend con aggettivi come “sconsigliato, non utilizzabile [?], scabroso” ‒ praticamente l’inferno? Dove l’opera di un regista nemmeno quarantenne può essere ridotta ancora una volta a due tematiche in odore di peccato, “droga e omosessualità”?

Ho paragonato lo sguardo di Weekend a quello di uno dei suoi due protagonisti, quando segue con dolcezza il cammino dell’altro, rispettandone il mistero; un aspetto di regolarità compositiva e di presa di distanza che ritroviamo nella scena della piscina e in alcuni esterni, e che verrà esaltato nei paesaggi rurali di 45 anni (dove anche la recitazione passerà da un’urgenza spontanea a una precisione ben più raffinata). Ma come l’anima dei suoi due protagonisti, anche la fotografia di Weekend sembra vivere di un elemento duplice: spesso infatti l’immagine è nervosa, la macchina da presa portata a mano e i bordi dell’inquadratura fuori fuoco (sull’autobus, in casa, alla stazione), come se non fossimo ancora pronti per una visione chiara della scena. Resta un film sulla forza di quei legami che sembrano sbarrarci la strada, anche se abbiamo faticato tanto per costruirli.

Si avverte una sincerità di fondo che ha poco in comune con successi annunciati come I segreti di Brokeback Mountain (2005) o La Vita di Adele (2013), film di cui si è giustamente esaltato alcuni meriti ma ancora un po’ troppo prigionieri di una certa ricerca estetica (molto diversa tra loro). Weekend si avvicina piuttosto a un altro film da recuperare, altrettanto imperfetto e potente: Blue Valentine (2010), seconda opera questa volta del regista americano Derek Cianfrance, di appena un anno più giovane di Haigh. Al centro di entrambi c’è un atto indispensabile come innamorarsi: un momento e insieme un percorso, un abbaglio e una conferma continua (gay o etero che sia) in grado di mettere in forse tutto ciò che crediamo di essere.

Commenti
Un commento a “Scrivere di cinema: Weekend di Andrew Haigh”
  1. Giuseppe ha detto:

    Secondo me le persone gay sono esseri perfetti perché non hanno bisogno dell’altro sesso. Ps l’articolo mi è piaciuto molto complimenti.

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