Fingere che non ci sia il male non ha senso – intervista a Marco Magnone

Marco Magnone

di Merende Selvagge (Domitilla Pirro e Francesco Gallo)

Intervistare uno scrittore dovrebbe essere una cosa semplice. È uno che ha a che fare con le parole per la maggior parte del suo tempo: vorrà restare a secco proprio adesso? Il punto, però, è un altro. Il punto è individuare quand’è che letteralmente comincia un’intervista. Per capirlo, abbiamo pensato bastasse gettare un’occhiata alla spia luminosa del microfono. (Roba da professionisti. Più o meno.) Accesa: lo scrittore sta parlando. Spenta: lo scrittore ha deciso di fare una pausa… E invece no. Capire quando inizia davvero un’intervista è una cosa davvero complicata. Non ci credete? Sentite qua.

Nell’estate del 2001 la Paris Review decide di fare due chiacchiere con Stephen King. Gli scrittori incaricati, Christopher Lehmann-Haupt e Nathaniel Rich, lo vanno a trovare un paio di volte: prima a Boston, in Massachusetts, dove il Re del Terrore si trasferisce per dei brevi periodi per meglio seguire le partite di baseball dei Red Sox; poi a Fort Myers, in Florida, in una villa con piscina che affaccia sul Golfo del Messico. Nonostante stia ancora riprendendosi dal grave incidente che nel giugno del 1999 gli è quasi costato la vita, King affronta le domande con piglio diretto, appassionato e generoso. Fa addirittura servire loro il pranzo: insalate di patate, di pasta, di cavolo con maionese e torta di lime. Poi, a un certo punto, confessa che quando l’avevano intravisto sulla spiaggia, quella mattina, con addosso un paio di jeans, scarpe da tennis bianche e una t-shirt della salsa Tabasco, non stava semplicemente passeggiando: stava pensando a una nuova storia da scrivere.

Cinque anni fa, racconta, da quelle parti esistevano due abitazioni.King_Stagioni DiverseUna era stata distrutta da un temporale estivo. “E pezzi di intonaco, di mobili, e vari effetti personali vengono ancora a riva quando si alza la marea”, dice King ai suoi ascoltatori. Poi aggiunge: “L’altra sta ancora al suo posto. Quasi sicuramente, però, è abitata dai fantasmi. Il mio nuovo libro parla di questa casa.”

Con Marco Magnone, ci piace pensare, a noi è accaduta un po’ la stessa cosa. Con lui parleremo anche di King. E di fantasmi. In particolare di quelli che, bene o male, abbiamo dovuto affrontare tutti durante l’adolescenza. La mia estate indaco (Mondadori), il suo nuovo romanzo — il primo in solitaria —, parla soprattutto di questo. Appena lo incontriamo, però, siamo incuriositi da un dettaglio. All’apparenza, poca cosa; potremmo lasciar correre. In realtà si tratta di un particolare che ha così tanto a che fare con Marco, con i suoi interessi e con la sua scrittura, che non approfondirlo sarebbe un vero peccato. «La scritta sulla maglietta,» gli chiediamo. «Che significa?» «Non guardate Propaganda Live,» ci domanda Marco. «È per la Sea Watch!» No, purtroppo non guardiamo Propaganda Live: non con la costanza che meriterebbe, cioè.

Marco Magnone — un ragazzone nato nel 1981 ad Asti, in provincia di Torino — assieme alle Birkenstock e ai pantaloncini color kaki indossa una maglietta nera con sopra una scritta: OLLOLANDA. Mentre prendiamo posto intorno a un tavolo tutto arancione, Marco spiega: «Quando a gennaio c’è stato il caso della Sea Watch, la Meloni se l’era presa con l’Olanda, vi ricordate, perché la nave batteva bandiera olandese. Non ricordo dove, se da Vespa o da Floris, s’era messa a urlare. Sapete come fa, lei. Diceva: “O l’Olanda s’è messa a fare traffico illegale di immigrati, oppure…” “O l’Olanda…”, “O l’Olanda…” Non la finiva più. Tanto che quei mattacchioni di Propaganda l’hanno trasformata in un tormentone: OLLOLANDA, appunto, scritto tutto attaccato.» La maglietta, in più, è un capo d’abbigliamento Worth Wearing: una piattaforma di realizzazione e distribuzione di magliette on demand che in questo modo finanzia campagne e organizzazioni no profit quali: Amnesty International, la Croce Rossa Italiana, l’Associazione Stefano Cucchi Onlus. Le migliaia di migranti e rifugiati politici che continuano a morire nel tentativo di attraversare il Mediterraneo fanno parte di un libro nuovo: quello che Marco sta portando a conclusione in questi giorni e che avrà come argomento principale l’Unione Europea, addirittura. Capito cosa intendevamo? Il microfono è ancora spento — anzi, lo accendiamo in questo momento — e già abbiamo l’impressione che i fatti c’abbiano superato. Non perdiamo altro tempo: la prima questione da sciogliere è…

MERENDE SELVAGGE: Quand’è che hai scoperto il potere delle storie? Qual è stata la prima volta che ti sei letteralmente smarrito all’interno di una narrazione? Che sia stato un romanzo, un fumetto, un film, un videogame o un gioco da tavolo non ha alcuna importanza per noi. Per te, invece, deve averla avuta. Ti va di raccontarci com’è andata?

MARCO MAGNONE: La porta delle storie per me si è aperta in due momenti. Entrambi sono legati al mondo di provincia in cui sono nato e cresciuto: la grande protagonista del mio romanzo, in fondo, è Asti. Il primo momento ha a che fare con il rapporto tra me e la lettura. Un’estate non avevo nulla da fare. Avevo finito tutti i videogiochi sul Super Nintendo, e poi all’improvviso incappo nello scaffale della libreria dei miei. Ero un medio lettore, non avevo mai incontrato storie particolarmente affascinanti a parte i Tex di mio padre. Incappo in un libro con una copertina indimenticabile: la silhouette scura di quattro ragazzi che camminano verso le colline e un tramonto rosso cupo. Mi incuriosisce moltissimo. Vado da mia mamma, le chiedo che libro è. Lei mette in moto il più potente meccanismo in grado di accendere una spinta verso la lettura: “Non leggerlo”, dice. “Non è ora: questa storia non fa per te”. Queste poche parole di divieto hanno subito innescato la spinta opposta. La storia era Il corpo di Stephen King, la novella raccolta in Stagioni diverse. E quella diventa la mia storia. Il mio tatuaggio generazionale. Non c’è niente di più forte, per far leggere un adolescente, che creare un tabù.

Il secondo momento, invece, ha a che fare con me scrittore, anziché con me lettore. Pochi mesi dopo quella scena, sono a tavola coi miei e dichiaro che ho deciso cosa farò da grande. Non l’astronauta o il calciatore, no. Il Cavaliere dello Zodiaco. All’epoca impazzivo per la serie. I miei mi guardano con estrema preoccupazione, visto che il loro unico figlio vuol diventare un cartone animato. È stato lì che, rimuginando su come diventarne uno, mi è venuta un’idea assolutamente folle: potevo scrivere una storia in cui accadeva proprio questo. Ci ho provato e così ho scritto il primo racconto della mia vita: il protagonista ero io, ovvio. Trovavo l’armatura, incontravo gli altri Cavalieri… Il racconto più brutto della storia. Per i contenuti e per l’aspetto estetico. Avevo una grafia orribile. Ma lì ho capito che la scrittura di storie aveva un potere che nient’altro aveva: rendeva possibili e reali cose che non lo erano. Un simulatore, un moltiplicatore di vite che non sono la nostra, come scrive Jonathan Gottschall in L’istinto di narrare. Ho poi continuato con nuovi racconti, altrettanto brutti, in cui mi immaginavo vivere avventure sempre più incredibili. Non ho più smesso. Mi concentravo solo sulla goduria di dimenticarmi del qui e ora e cercare qualcos’altro.

Cavalieri Dello Zodiaco

MERENDE SELVAGGE: Già. Ché le storie sono anche una materia pericolosa — o che qualcuno può giudicare come tale. In certi casi, di fronte alle scene più crude di alcuni romanzi, viene applicata una censura preventiva. A La mia estate indaco e la scena sui binari (no spoiler!), per esempio, qualcuno ti ha mosso critiche di sorta?

MARCO MAGNONE: Parto da quel che ha detto Maria Teresa Andruetto in occasione del Premio Andersen 2012 e che poi ha ripreso in Per una letteratura senza aggettivi. Quando usiamo il termine letteratura per ragazzi, l’espressione “per ragazzi” diventa preponderante rispetto a “letteratura”. Più o meno consciamente c’è un problema, che ha a che fare col dar per scontato il fatto che le storie per ragazzi sono rivolte a, come dire: adulti un po’ scemi, incapaci di distinguere le modalità di fruizione delle storie. Questo fa sì che per tantissimo tempo la letteratura per ragazzi sia stata invasa da storie a tesi, da storie moraleggianti. Ma quelle non erano storie. Erano modi in cui gli autori cercavano di argomentare le loro convinzioni etico-morali. Tipo: scrivo una storia per dimostrarti che questo non si fa. Credo che le storie non debbano dare una risposta. Almeno non una risposta uguale per tutti. Se mi serve, una risposta la cerco in un Bacio Perugina. O nel manuale di istruzioni della lavatrice. Per la loro funzione di simulatore di vita, le storie sono più efficaci quando creano delle domande, anziché dare delle risposte. “E io al suo posto che farei? Davanti a quest’ostacolo come mi comporterei?” Tutti noi, anche davanti a cose piccolissime, scegliamo la strada sbagliata. Per pigrizia. Non è che se noi eliminiamo dalle nostre storie il fatto che la gente non si lava i denti la sera, eliminiamo la tendenza dell’uomo a scegliere la strada più facile o conveniente o pigra. Se ripenso alla copertina del libro di King, potevo benissimo scegliere di non leggerlo. Ma non è che non leggendolo sarebbe venuto meno il mio desiderio di conoscerne la storia. Spesso temiamo ciò che non conosciamo, leggendo ci caliamo nel punto di vista di chi fa la scelta sbagliata. Amiamo certi cattivi perché siamo curiosi di ciò che accade nel fare la scelta sbagliata. Non è che se non la leggiamo, viene meno quella punta di cattiveria che è dentro ciascuno di noi. Ecco, questo spesso è dovuto al fatto che tanti adulti vogliono evitare la scelta di parlarne, oppure di affrontare certi temi. Ma fingere che non ci sia il male nel mondo non ha senso. Che lo racconti o meno, c’è. Chi scrive storie rende un servizio assai peggiore ai ragazzi se racconta che il male non c’è e che alla fine andrà tutto bene. Quando i ragazzi si scontreranno con la realtà, se non saranno preparati, sarà molto peggio. Compito delle storie è accompagnarli alla scoperta di quegli aspetti del mondo più luminosi, ma anche di quelli più cupi. Sperimentare col meccanismo dell’empatia queste cose in una storia fa sì che ti senti meno solo. Non è che poi sia più facile, ma puoi sentirti meno solo nell’affrontarlo. “Si può dire tutto in qualunque modo”. L’attenzione dell’autore sta nell’affrontare tutto questo in una maniera meno pruriginosa, voyeuristica possibile. Il problema non è After. Il problema è che non c’è un’alternativa al modo in cui i sentimenti e il sesso sono raccontati da Anna Todd. Se non diamo fiducia alle nuove generazioni, come pensiamo possano mai dimostrare di meritarsela? Conosco pochi bambini che, dopo Cappuccetto Rosso, vogliano tagliare la pancia a qualcuno per salvare la nonna. Non è che leggere qualcosa di sbagliato o pericoloso di per sé porti a mettere in atto dei comportamenti sbagliati. Sui social gli adolescenti affrontano delle sfide di gran lunga peggiori. Il punto è prendere l’episodio, depotenziare il tabù, e parlarne.

MERENDE SELVAGGE: Perché la letteratura e le storie ti aiutano a nominarle, queste emozioni.

MARCO MAGNONE: Non solo. Le parole creano anche il mondo che vogliamo abitare. Un altro errore che spesso insegnanti e adulti in generale commettono, è quello di isolare la singola scena. Leggiamola tutta la scena, dico io! Potremmo scoprire che è inserita in una storia molto più ampia. Spesso è un problema dell’adulto rispetto al ragazzo, però. Altro problema, invece, è l’estetizzazione del male. Di recente Netflix ha deciso di cancellare alcune scene di Tredici. Quelle più crude. Io non ho una posizione rispetto a questa scelta. Credo che però sia qualcosa che ha più a che fare con il fascino con cui viene presentato qualcosa. Non è cosa racconti, ma come lo racconti. Consideriamo le scene come parti di una storia. Poche volte giudichiamo una persona rispetto al suo polpaccio. Le storie sono una cosa simile. Ci piacciono tutte intere.

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Mentre Marco risponde alle nostre domande, non possiamo fare a meno di registrare che alle sue spalle, familiare, si intravede una lavagna a fogli. Sulla superficie bianca della carta c’è un lungo elenco di nomi scritti a pennarelli colorati in una grafia ancora incerta: Othmane, Ayman, Kawtar, Ameer, Mohamed, Samuele. Sono alcuni degli studenti che partecipano al doposcuola gratuito di Fronte del Borgo, l’ufficio della Scuola Holden al quale ogni anno forniamo contenuti didattici e direzione creativa. È assai probabile che le faccette di alcuni di questi bimbi se le ricordi ancora molto bene, Marco: qualche tempo fa, come impagabile docente volontario, è stato proprio lui a occuparsi di uno dei laboratori tematici offerti loro. Si è trasformato in un vero condottiero (un po’ pirata, visto il tema marinaresco che lega insieme progetto e spazio fisico) e li ha guidati a realizzare una mappa inedita dei loro luoghi del cuore in città, fino a realizzare bandiere e inno di uno Stato che… ancora non esiste. La cosa non può non farci non sorridere.

È proprio per questo che abbiamo deciso di intervistarlo qui: il bancone d’accoglienza è a forma di galeone, c’è una gomena che penzola dagli anelli e una coppia di cannoni. C’è una parete che pare una scansia di Needful Things, o una bottega uscita da The Secret of Monkey Island («Sono Guybrush Threepwood, temibile pirata!»). Dietro la parete ci sono le mappe di luoghi immaginari come Narnia, l’Isola che non c’è, Hogwarts, la Terra di Mezzo, Oz. Ci sono tanti tavoli arancioni sui quali inventare storie. E sopra le teste di tutti e tre, intervistanti e intervistato, galleggia un’enorme balena volante; forse è di cartapesta, forse no. Un ufficio speciale. (Sì, siamo di parte.) Perché ha una missione speciale: regalare corsi di avvicinamento alla narrazione a tutte le classi elementari, medie e superiori che entrano fisicamente qui da ottobre a maggio. Ogni anno quasi millequattrocento studenti prendono posto tra i tavoli e scoprono che le cose che imparano a scuola servono a diventare lettori, spettatori, videogiocatori, ovvero: consumatori di storie più maturi.

Il Re Leone è come l’Amleto, diciamo sempre: più felini, meno fantasmi. Da quando Fronte del Borgo è entrato a far parte del circuito internazionale dei centri no profit ispirati a 826 Valencia, il tutoring center creato da Dave Eggers a San Francisco, crediamo sempre di più che il futuro di ciascuno debba per forza di cose passare attraverso un uso più consapevole delle parole. Un futuro che, grazie a volontari super qualificati come Marco, pare avvicinarsi.

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MERENDE SELVAGGE: Gli scrittori a noi piace seguirli nel tempo. Nel senso che crediamo che la scrittura sia innanzitutto un progetto. Pertanto, per parlare del tuo romanzo, La mia estate indaco, non possiamo ricostruire quello che c’è stato prima. E prima c’è stato Berlin, la saga scritta assieme a Fabio Geda. Com’è nata l’idea?

MARCO MAGNONE: Berlin è stato un tentativo di riappropriazione di un immaginario. Come dicevano Fruttero e Lucentini, un disco volante può atterrare sempre altrove, ma mai a Lucca. Con Berlin abbiamo iniziato a lavorare nel 2012: quando il caso editoriale del momento era Hunger Games, era Divergent, era Maze Runner.Geda e Magnone_BerlinSempre futuri post-apocalittici ambientati negli Stati Uniti. Perché noi autori europei abbiamo lasciato solo ad autori e autrici americane il monopolio di questo genere? Sono cresciuto con un immaginario di letteratura per ragazzi non italiano. Almeno: europeo. Queste storie non le sappiamo raccontare “all’americana”, con il conflitto interpersonale portato all’estremo. Possiamo provare a farlo all’europea, però. Questo sì. Provando a unire due mondi: quello dell’avventura per ragazzi e il concetto di distopia. Rispetto ai nostri lettori, però, abbiamo pensato soltanto che una buona storia per andare bene dev’essere una buona storia. Punto. Per questo Harry Potter funziona: perché è una buona storia. Prima di essere un fantasy, o uno young adult con dentro elementi di magia. Per Il Signore degli Anelli vale lo stesso discorso. Sono storie, però, che raccontano di personaggi che non sono perfetti. Tutt’altro. Frodo è pigro. Ha paura. Ha delle caratteristiche che lo portano lontanissimo dalla figura classica dell’eroe che salva il mondo. Ognuno di noi è imperfetto. Ecco, io e Fabio siamo partiti da qui.

MERENDE SELVAGGE: Rispetto alla saga di Berlin, per la quale, assieme a Fabio Geda, hai portato a termine un notevole lavoro di documentazione, che cosa sei andato a ricercare stavolta? Il fatto di lavorare a una storia italiana, collocata geograficamente e temporalmente più vicina a te, ti ha semplificato le cose, o magari hai corso il rischio di prendere sottogamba certi aspetti del romanzo?

MARCO MAGNONE: Il passaggio tra Berlin e La mia estate indaco è in continuità con la riappropriazione di immaginari narrativi. Di quello che può essere raccontato ai nuovi lettori. Al cinema davanti agli Avengers scatta la sospensione dell’incredulità; diamo per scontato che certe storie siano verosimili o credibili se molto lontane da noi. Siamo imbevuti di un immaginario che arriva da oltreoceano. Siamo vittime dell’esotico. Detto ciò, ho provato a confrontarmi con un immaginario nostro, più vicino e quotidiano. Certo, è stato pericoloso. Perché siamo portati a raccontare storie in cui alla fine arriva al ballo di fine anno. E poi ci sono gli armadietti dove posare i libri. Queste cose non ci sono in Italia. La mia voglia era quella di provare ad affrontare il nostro immaginario e vedere cosa succedeva. Sei anni dopo, confrontandomi con l’universo distopico creato per Berlin, che partiva da un ampio studio di progettazione e ricostruzione, ho provato a cogliere una sfida differente: testare le mie possibilità come scrittore. Scrivere una storia in cui non accadono fatti clamorosi, non c’è un Big Bang iniziale, il cuore della storia è tutto giocato attraverso piccole sfumature, smottamenti, rivelazioni di traumi, che possono accadere ad ognuno di noi. Come passare dalla maratona ai cento metri.

Per me è stato molto importante. Ho provato a esplorare i confini… miei. Ed è stato molto più difficile. Le storie prima di tutto devono maneggiare emozioni. Devono sorprenderti, emozionarti, farti empatizzare. La vicenda deve essere paradigmatica di qualcosa. Battlestar Galactica non è una serie di fantascienza: racconta sogni, passioni… Da questo punto di vista maneggiare una materia che aveva a che fare anche con la mia vita mi ha impedito di avere quella distanza che invece avevo prima. Se esiste un talento nella scrittura è lo shit detector di Hemingway: più distanza c’è tra te e quello che scrivi più è facile. Spero di aver fatto un buon lavoro. Ma devono essere i lettori a dirlo.

MERENDE SELVAGGE: Ci viene in mente un passaggio de Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides: Cecilia, la più piccola delle sorelle Lisbon, ha tentato di uccidersi tagliandosi le vene. Quando riprende conoscenza in ospedale, il dottore le dice che non deve essere triste, ché la vita è bella, e che ogni giorno che Dio manda sulla Terra è una fortuna. Al che Cecilia risponde: «È evidente, dottore, che lei non è mai stata una ragazzina di tredici anni.» A questo punto la nostra domanda è: come hai fatto a diventare una ragazzina adolescente? Come sei diventato Viola, la protagonista de La mia estate indaco?

MARCO MAGNONE: E’ vero: non sono mai stato una ragazzina adolescente. Non ho neanche mai perso i miei amici a 14 anni per un virus, come in Berlin. Differenziare eccessivamente il genere sta più nella testa degli adulti che nei ragazzi, comunque. I confini sono molto più labili. Cos’è l’amicizia o la fratellanza, a tredici anni? È un’intimità che travalica alcuni confini. Viola non ha nessun tipo di problema, paura o sogno che non potrebbe avere un maschio della stessa età. Adora il cibo e cucinare, ha un bellissimo rapporto col nonno, ha genitori non cattivi, ha subito un piccolo grande trauma di quelli che a quell’età sembrano giganteschi. E tutto questo esattamente come un maschio della sua età. Parlo di solitudine, di come superare le sue paure, del primo innamoramento. Tutte cose che possono accadere anche ai maschietti.

Scoop: anche i ragazzi si innamorano per la prima volta. E poi ho provato a farlo al contrario. Dopo aver costruito tutto il plot de La mia estate indico, ho cercato di ripercorrere la scaletta scambiando il genere dei personaggi, per evitare di cadere vittima di qualche stereotipo. E comunque dei due, quello che poi fa davvero qualcosa senza chiedere il permesso è lei, è Viola. Lui, Indaco, resta limitato all’apparenza. È lei quella che decide cosa fare della sua vita.

MERENDE SELVAGGE: Quando uno scrittore scrive, di solito, ha in mente… cosa? Un personaggio? Un luogo? Una storia? L’impressione che abbiamo avuto con Berlin, per esempio, è che tu, assieme a Fabio Geda, avessi in mente anche un tipo preciso di lettore. Con La mia estate indaco è andata nello stesso modo? Hai saputo subito che tipo di storia volevi raccontare e a che tipo di lettore?

MARCO MAGNONE: Tutto è nato in un centro commerciale. Ad Asti faccio la spesa per i miei. Ho immaginato due ragazzi, lui davanti lei dietro, lei non sa perché è lì, lui gli fa scivolare in tasca un profumo e scappa. Lei non capendo cosa succede, quando avrebbe voluto posarlo, si sente in preda all’euforia e all’eccitazione. Scappa anche lei. Perché sono lì? Ecco. Domanda su domanda, mi sono trovato per le mani la loro storia. E mi incuriosiva da morire vestire i panni di Viola. Come quando vestivo l’armatura di un Cavaliere delloMagnone_La Mia Estate IndacoZodiaco: senza la storia di Viola e Indaco, non sarei mai potuto essere una ragazza.

MERENDE SELVAGGE: Abbiamo particolarmente apprezzato il fatto che nell’aletta posteriore de La mia estate indaco, assieme alla tua bio, ci sia anche quella di Ottavia Bruno, l’illustratrice. La copertina, in effetti, è molto bella. Complessa — perché presenta elementi differenti — ma allo stesso tempo immediata, perché le sue parti formano un’immagine unica. È stata la tua prima scelta?

MARCO MAGNONE: È stata una delle cose che mi ha stupito di più, nel rapporto con Mondadori. Disponibilità a condividere tutti i processi: mi sono sentito molto coinvolto. Ma non nelle soluzioni da trovare: nelle domande da porre. Insieme a Marta Mazza, l’editor che ha curato il libro, abbiamo iniziato a ragionare su quale potesse essere una copertina adatta. Dove stava la direzione giusta. Non soluzioni, ma atmosfere. D’accordo sin dall’inizio che dovesse essere illustrata. Le copertine devono essere oneste. E devono portare continuità tra quello che sta fuori e quello che c’è dentro. Se fai una copertina molto urlata… Non è questione di gerarchie, eh. Ma una copertina fotografica, urlata, fa delle promesse che giustamente poi potrebbero deludere il lettore. Ognuno ha voglia di storie diverse in momenti diversi. Certo, se dietro la locandina degli Avengers trovo un film d’essai resto deluso. Il problema è ridurre la distanza tra le promesse e il contenuto. In questo caso abbiamo lavorato su una serie di elementi: le sfumature di colore. I colori freddi e nostalgici del blu, mescolati ai caldi del rosso, sono proprio le contraddizioni che animano i due protagonisti. Sono sfumature, perché il libro è fatto di sfumature. Immaginario quotidiano, quartieri di case popolari, erba… e una balena in cielo. Qualcosa a cui i personaggi guardano. Pian piano così sono nate le idee di dividerla in quattro bande verticali… un processo molto bello.

MERENDE SELVAGGE: Non pensi sarebbero degli splendidi segnalibri?

MARCO MAGNONE: Spero che nessuno tagli la copertina!

MERENDE SELVAGGE: La città è il tempo della scuola. Dei compiti, degli impegni, delle responsabilità affidate. Per i grandi invece è il tempo del lavoro. Come cambia il rapporto tra città e natura, tra costrizione e libertà, durante un’estate, per un’adolescente?

MARCO MAGNONE: Cambia nella misura in cui si viene a rompere uno stereotipo: l’estate è per i ragazzi il momento tra il dover essere e il poter essere chi e cosa si vuole. Il mondo magico in cui entra Viola funziona al contrario: per lei era naturale che il luogo in cui poteva prender forma quel tempo fosse la montagna. Uno spostamento fisico corrispondente a un cambio di qualità del tempo. Il fatto di dover restare in una città grigia, piccola, lontana da lì significava per lei rinunciare. Ma nei luoghi mettiamo noi stessi. Come nelle storie. Ogni storia è un dialogo tra chi l’ha scritta e chi la legge. Il risultato è l’incontro. Lo stesso vale per i luoghi. E per Viola. Anche dove non c’è spazio per amicizie, avventure, amore… c’è. Facile immaginare che per salvare il mondo ci voglia Aragorn. Più difficile raccontare che lo faccia Frodo.

MERENDE SELVAGGE: Una storia, per essere una bella storia, deve avere un personaggio, o più personaggi, che vive/vivono un conflitto. Il conflitto, a volte, è espresso anche da un limite. Da una linea d’ombra da non oltrepassare. Qual è il confine di questo romanzo?

MARCO MAGNONE: E’ la storia di una muta. Quella che cambiano i serpenti. Viola a un certo punto della sua vita, l’estate che racconto, sente che non è più quel che è stata fino a poco prima. Una bambina. Non sa ancora cosa sta diventando. E questo ha a che fare con il tipo di persona che diventerà. Con chi le sta attorno. A cui in qualche modo lei associava il suo modo di vivere certe cose, come fosse una tavoletta per stare a galla in acqua, che poi viene a mancare. Una serie di scosse telluriche che coinvolgono tutti quelli che le stanno attorno. Coinvolgono l’idea stessa di amicizia e la scoperta di una serie di sentimenti che vanno oltre. E l’idea che ha di sé. Secondo Robert McKee ci sono tre tipi di conflitti: interiore, interpersonale e contro il mondo. Tutto accade da qualcosa di interiore, tra Viola e l’idea che ha di sé. Il che la porterà a doversi ribellare contro il mondo. Pur senza che questi conflitti portino a particolari condizioni di disagio. Il tutto converge nel fatto che tutti gli adolescenti, io per primo, sono alla continua ricerca di una risposta alla domanda: che tipo di persona sono? Che persona diventerò? I bambini sono bambini. E in questo loro essere bambini sono soddisfatti. L’adolescenza è un’età che si definisce attraverso i suoi continui cambiamenti. Non è uno stato, ma un divenire.

MERENDE SELVAGGE: Parliamo di linguaggio. In Cuori in Atlantide, Stephen King scrive: “Qualche volta leggi per il gusto della storia: non fare come quegli snob che si attaccano alla forma. Qualche volta leggi per il piacere delle parole: non fare come quei timorosi che hanno paura di non capire. Ma quando trovi un libro che ha insieme una bella storia e un bel linguaggio, tienilo a cuore.” Tu da che parte stai?

MARCO MAGNONE: Le categorie Middle Grade e YA servono soprattutto per creare nuovi scaffali nelle librerie e collocazione a libri per adulti scritti in modo sciatto. Spesso nella letteratura per ragazzi molti confondono i piani e pensano di semplificare i contenuti e sverniciare il tutto con neologismi, giovanilismi che nella loro idea dovrebbero fare l’occhiolino ai ragazzi e attrarli, con quella stessa attenzione e cura con cui noi andremmo a rappresentare un immigrato facendolo parlare solo all’infinito. Dino Buzzati diceva che scrivere per ragazzi è come scrivere per adulti, solo un po’ più difficile! Nella capacità di intercettare temi e nodi che reputano importanti nel momento di vita che stanno attraversando. Rispetto all’utilizzo di espressioni particolarmente connotate, nutro molte perplessità: un po’ perché non sta lì il fatto che i ragazzi la riconoscano come una storia “per loro”, un po’ perché l’autore non deve ammiccare, un po’ perché una storia così ha una data di scadenza molto vicina. Per esempio, oggi il fidget spinner è un oggetto già scomparso: è come autoimporsi un orizzonte molto limitato. I dialoghi non devono essere sbobinature del reale. La letteratura dovrebbe essere qualcosa di sfidante. Credo si debba trovare un equilibrio nel far sì che i ragazzi vengano portati a sfidare un minimo il vocabolario, il modo in cui una storia viene raccontata. Un compito della letteratura per ragazzi non è solo quella di accompagnarli attraverso gli aspetti brutti, sporchi e cattivi del mondo, ma anche attraverso la complessità del mondo. Questo senza mai dimenticare che una storia forte, e buona, va raccontata nel modo più semplice possibile. Provare a complicarla è rovinarla.

MERENDE SELVAGGE: Hai un lettore molesto, qualcuno a cui fai leggere le tue cose e del cui giudizio ti fidi ciecamente?

MARCO MAGNONE: La mia compagna, Elena. Ma non può mai leggerli quando escono perché si è già fatta dieci giri di bozze per ogni capitolo.

MERENDE SELVAGGE: Vorremmo che tu ci citassi un libro, un disco, un film, una serie, un videogame e un gioco da tavolo, o qualsiasi altra cosa ti salti in mente in questo momento, responsabile, secondo te, di una certa tua scelta, come narratore, durante la scrittura de La mia estate indaco.

MARCO MAGNONE: Ti darò il sole di Jandy Nelson. Ha vinto il Premio Mare di Libri due anni fa. Racconta esattamente questo: non sentirsi più una certa cosa, ma non sapere ancora cosa stai per diventare. Poi Skam [significa “vergogna”]: una serie tv norvegese replicata in Italia, Spagna, Francia, che non ha paura di raccontare i giovani così come sono, prendendosi tutto il tempo per entrare nelle loro vite, con dei dialoghi incredibili. E Mud. Un film del 2012 di Jeff Nichols che ho visto di recente e ho amato tanto. Parla di amore e dei casini che accadono.

MERENDE SELVAGGE: Essere presi sul serio, per alcuni è un gioco da ragazzi. Per i ragazzi, invece, essere presi sul serio è una faccenda dannatamente seria. E difficile. E dolorosa. Ci viene in mente Greta Thunberg, e gli attacchi che ha ricevuto su certi giornali, in particolare italiani, per aver detto delle cose che a noi sono parse sacrosante come: “Voi [cioè: voi adulti] dite di amare i vostri figli sopra qualsiasi altra cosa, eppure state rubando il loro futuro proprio davanti ai loro stessi occhi.” Il mondo, citando un libro di poesie di Elsa Morante, verrà “salvato dai ragazzini”?

MARCO MAGNONE: Nel momento in cui manca una visione politica per l’Europa, siamo nel punto forse più basso di questo sogno. Cosmopolitismo, solidarietà, pace e fratellanza: in questo momento o la politica non sa più dare una visione di futuro ai cittadini o, se la dà, è regressiva. Al posto dei ponti ci sono i muri. Nell’illusione che se oggi il nostro tempo ci mette davanti a sfide difficili, la soluzione sia tornare indietro a quando tutto era a posto. Un tempo mai esistito. Un’altra idea di Europa, più vicina ai valori fondanti, per me è proprio rappresentata dai ragazzi che sanno ancora manifestare e sostenere le proprie idee non per interessi di parte o convenienza elettorale, ma per causa giusta. Hanno una visione di futuro. I ragazzi scesi per #FridaysForFuture sono per vocazione internazionalisti, cosmopoliti: non manifestano per paura di perdere qualcosa, ma per la certezza che se non si cambia perderemo tutto. Non è mai accaduto che un movimento giovanile di massa abbia ottenuto l’appoggio incondizionato delle generazioni precedenti. Quello che trovo curioso è la sclerotizzazione del rapporto tra certi adulti e i ragazzi. Considerarli chiusi nel solipsistico rapporto coi loro smartphone, incapaci, e però anche naif nel loro sposare una causa. Delle due l’una, no? Nel fatto che convivano due accuse di senso opposto sta la foglia di fico che gli adulti usano per nascondere la polvere sotto il tappeto. Ho fatto l’esempio di #FridaysForFuture, ma ne esistono tantissimi altri che si occupano di dare una mano a chi ne ha bisogno, di solidarietà, raccolte di aiuti, volontariato.

Ora: la storia è fatta di cicli e non ho idea di quanto durerà questo o cosa succederà o cosa otterranno. Di certo in questo momento mi sembra siano gli unici in grado di proporre una visione di sistema non di parte e di futuro. Scendere in piazza per l’ambiente significa avere un’idea di mondo che coinvolge dentro di sé economia, rapporti umani, società, diritti… Manca alla politica, se politica significa confronto di idee per cambiare la società. Stessa cosa del movimento per la pace: bandiere arcobaleno non solo contro la guerra, ma per solidarietà. Discorsi d’odio, trollate da social network, risalendo la piramide dell’odio portano alle violenze da cronaca e chi le commette si può sentire giustificato perché tutto parte dalle parole. Per me è fondamentale: è facile rendersi conto della gravità di un femminicidio. Ma la cosa più grave è che è solo la punta di una piramide d’odio: la base della violenza sono le parole. Tutto inizia quando ti senti giustificato a dire “quella p** di merda, quel *** del cazzo”: quando ti senti autorizzato a usare quelle parole, ti senti autorizzato a discriminare qualcuno, e via così, di scalino in scalino, di intolleranza in intolleranza. Le parole possono essere usate anche al contrario, per immaginare come costruire il mondo che vogliamo abitare. Per forza di cose le nuove generazioni sono legate a filo doppio con il futuro in questione: lì stanno le loro domande.

MERENDE SELVAGGE: Sappiamo che tieni regolarmente dei corsi di scrittura creativa. Quali consigli ti senti di dare più spesso a chi ha voglia di mettere per iscritto una storia? E quali sono le fasi di scrittura di un romanzo, oppure di un racconto, che ti piacciono di più, e quali sono invece quelle che ti fanno un po’ storcere il naso?

MARCO MAGNONE: Gli direi: prova a scrivere la storia che vorresti leggere e che non trovi sullo scaffale. Con cui tu per primo hai voglia di passare un sacco di tempo. Tanto sarà così. È una cosa molto arrogante, se a te non va, chiedere ad altri di passarci del tempo. Come andare in vacanza con qualcuno che ti sta sul culo. Il secondo consiglio è di rubare. All’inizio. Perché è difficile trovare l’equilibrio tra la storia e la voce giusta per raccontarla. Bisogna chiedersi: l’autore che io adoro, come racconterebbe questa storia? Non è diverso dai musicisti che imparano a fare le scale, le canzoni altrui, e solo dopo si cimentano con le proprie composizioni. Stessa cosa con i calciatori. Uno scrittore non può permettersi di essere arrogante: prima di essere uno scrittore, deve essere un lettore. Come voler fare il calciatore e però il calcio mi annoia. Prima leggi, poi scrivi qualche parola tu! Non ci sono trucchi o segreti: King dice che si scrive una frase onesta e si mette un punto. Poi una seconda, una terza… Preferisco la fase delle ultime riletture e le stesure successive. Giri di bozze… sono un fan. Mi piace avere tutta la bozza davanti e lavorare di fino. Spostando pezzi, limando… Dopo le prime stesure, è come vedere la scultura prendere forma e lucidarla particolare per particolare. Mi piace di meno, invece, rileggere le cose che ho già scritto quando sono state pubblicate. Non lo faccio mai. L’ho imparato a scuola, quando leggevo la brutta. Dopo aver consegnato, mi veniva l’idea geniale! Con un libro già pubblicato, la cosa non cambia: perché convivere con l’angoscia del rimpianto? Cerco di non farlo. Molto meglio capire nella storia successiva come raccontare ancor meglio quella cosa lì. Andare avanti. Di libro in libro! E forse sono un po’ sadico: sono estremamente prolisso: le prime versioni delle mie storie sono lunghe più di un terzo. Vale per tutte le mie storie, comunque. Adoro, nelle prime stesure, esplorare, allargarmi. Per poi sforbiciare. Non uso neanche delle cesoie, ma proprio delle seghe circolari. Lo trovo un consiglio molto prezioso, ti permette di arrivare a quello che è davvero necessario.

L’intervista è finita. Ma lo è davvero? Vale quel che abbiamo detto all’inizio: la spia luminosa del microfono è spenta, d’accordo. Ci rendiamo conto solo ora che, in due ore di chiacchiera fitta, nessuno dei tre ha sentito il bisogno di un sorso d’acqua o un caffè — altro che la torta al lime di King! Però, se non ci siamo presi neppure un attimo di pausa, vuol dire che lo scambio ha divertito parecchio tutti e tre. Marco si alza. Dal tavolo recupera il cellulare (ci lampeggiano sopra gli aggiornamenti per il Fantacalcio, dice) e il portafoglio chiuso da una fascia elastica. Lo accompagnamo alla grande porta a vetri che mette in dialogo il galeone di Fronte del Borgo con Borgo Dora. Prima di salutarci gli chiediamo quali sono le prossime scadenze che ha davanti: «Beh, c’è il libro sull’Europa da consegnare il mese prossimo. E poi presento il romanzo a Mantova, il 5 settembre.» E poi, vorremmo chiedergli ancora. E poi, e poi? Ma non lo facciamo. Abbiamo detto che la scrittura, per noi, è un progetto. E che gli scrittori ci piace seguirli nel tempo. Perché sanno trovare ogni volta l’occasione di sorprenderci: come Marco Magnone, per l’appunto. Scrittore e condottiero pirata.

Commenti
2 Commenti a “Fingere che non ci sia il male non ha senso – intervista a Marco Magnone”
  1. Notetralerighee ha detto:

    Bellissimo e curatissimo sito. Una voce originale e piena di contenuti che si distingue nel mare magnum della rete. Grazie

  2. Donato ha detto:

    Articolo molto bello, ma “nato ad Asti, provincia di Torino”??

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