Laggiù (nel cyberspazio) qualcuno ti sta fottendo. I 30 anni di “Neuromante”

Questo pezzo è uscito su Repubblica. Dove potete trovare anche l’intervista di Giuliano Aluffi a William Gibson.

di Nicola Lagioia

Sono passati trent’anni da quando un cielo dal “colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto” apparve sulla prima pagina di un romanzo destinato a segnare un’epoca e a far esplodere il cyberpunk, una corrente non solo letteraria. Il libro si intitolava Neuromante, mentre il suo autore, William Gibson – figlio di un imprenditore statunitense che aveva lavorato nel presidio militare dove nacque il progetto Manhattan – si era trasferito in Canada per sfuggire alla guerra del Vietnam, e da Vancouver provava a farsi largo come autore di racconti. Se la “bomba” era stata la preoccupazione degli scrittori che Gibson aveva letto da ragazzo, ora è il passaggio al digitale la superficie su cui proiettare incubi e speranze di chi la notte si addormenta immaginando quali strani mondi possa dischiudere un apparecchio che è possibile da poco collegare anche ai computer domestici: il modem.

Così, proprio nel 1984 che George Orwell aveva usato per trasfigurare i totalitarismi della prima metà del secolo nella più nota distopia della letteratura mondiale, Gibson codifica in forma narrativa una mutazione tecnologica i cui aspetti più profondi il mondo letterario tradizionalmente vicino all’accademia ignora. Ecco allora la storia di Case, pirata informatico a cui, dopo che ha truffato la società per cui lavora, viene somministrata una microtossina che danneggia il sistema nervoso, impedendo l’accesso al cyberspazio e costringendolo nella prigione di carne (il caro vecchio corpo) dalla quale proverà di nuovo a emanciparsi. Case si muove in giganteschi agglomerati urbani dominati dalle multinazionali della finanza e dell’elettronica, dove i corpi degli umani sono ibridati con le macchine, la lotta per la vita è regredita a una ferocia pre-novecentesca, e il concetto di oligarchia schiaccia le masse che il secolo breve si era illuso di elevare a motori primi della Storia.

Per il mondo della fantascienza (e i giovani lettori che intuiscono quali universi possano agitasi dentro un’ostia di silicio) è una rivoluzione. Neuromante apre la strada a libri e autori che già da qualche tempo lavorano su questi temi. Negli anni successivi esce l’Eclipse Trilogy di John Shirley, Snow Crash di Neal Stephenson, e soprattutto Mirrorshades, l’antologia curata dall’altro guru del movimento, Bruce Sterling. Per non parlare di successivi debiti cinematografici come Matrix (la parola “Matrice” è già presente in Neuromante, sebbene non sia da sottovalutare la risposta di Jean Baudrillard ai fratelli Wachowski quando gli chiesero una consulenza: “Non voglio collaborare a un film sulla Matrice che avrebbe potuto fabbricare la Matrice”).

Se da una parte Gibson ha immaginato il cyberspazio molto prima che nascesse il World Wide Web (“un’allucinazione vissuta consensualmente”, lo definisce in Neuromante, “una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente. Come le luci di una città, che si allontanano”), dall’altra le visioni di alcuni scrittori delle generazioni precedenti risultano fondamentali. A parte Orwell, il cyberpunk deve molto a James Ballard, William Burroughs, Philip Dick. Ma soprattutto a Thomas Pynchon, specie quando, in quel capolavoro che è L’arcobaleno della gravità, il maestro della paranoia postmoderna lascia dire a un personaggio: “Fa’ pure, fratello, metti la T maiuscola alla tecnologia, deificala, se questo ti fa sentire meno colpevole – però, così facendo, ti metti di fatto nel mucchio dei castrati, degli eunuchi preposti all’harem della nostra Terra rubata, preposti alle erezioni malinconiche e intorpidite dei sultani, un’élite umana che non ha nessun diritto di essere dov’è”.

Qual è dunque l’intuizione di Pynchon (al centro de L’arcobaleno della gravità ci sono i missili V2 nazisti, così come un altro progetto militare, Arpanet, genererà la Rete) che gli scrittori cyberpunk trascinano sullo scacchiere digitale che nel frattempo è diventato il nostro mondo? La constatazione che la tecnologia non possiede un’intrinseca natura se non quella che le viene dai più profondi istinti umani. E poiché nell’intimo siamo ancora più propensi alla sopraffazione che all’altruismo, ecco che la tecnologia (apparentemente pacifica) del XXI secolo può metterci in catene.

È soprattutto questa l’eredità del cyberpunk. Se economia, finanza, politica e reti telematiche si sono sviluppate in modo da trasformare degli scrittori di fantascienza in semplici naturalisti, indebolitasi la novità letteraria è l’aspetto antagonista a essere più attuale che mai. Non solo perché le vicende dei vari Assange e Snowden sembrano uscite dalle pagine di Neuromante, o perché le cyber-spie dell’NSA statunitense rendono la nostra privacy un’ipotesi non verificata. È proprio nei chiaroscuri dell’1% contestato da Occupy Wall Street e dei colossi della silicon valley (partoriti sulla carta dal pensiero alternativo californiano anni Sessanta), di fatto sempre più potenti e accentratori, che si intravede qualcosa delle zaibatsu, le spaventose entità tecno-finanziarie che dominano i mondi di Gibson. Basti pensare alle recenti polemiche che hanno travolto Facebook per gli “esperimenti emozionali” compiuti su 700mila utenti inconsapevoli. Alla politica di Amazon. O (per tornare ai social network) alle perplessità suscitate da aziende che accumulano ricchezze sui contenuti gratuiti degli iscritti, e che – a parità di fatturato – offrono in proporzione lavoro a molte meno persone di quelle che occupavano la Ford o la General Motors.

La letteratura conserva il suo potere ammonitore anche ai tempi di Internet, e avremmo dovuto capire prima quanto le storie di Gibson ci fossero vicine. Non dimenticherò mai un corso di comunicazione che frequentai quindici anni fa. Il funzionario di una grossa casa editrice tenne una lezione sulle nuove tecnologie. Disse che grazie alla posta elettronica e all’impaginazione su computer (allora due novità) per fare i libri si sarebbe risparmiato il 30% del tempo. Tutti rimanemmo ammirati. Soltanto una ragazza – capelli viola e Neuromante sulle ginocchia – alzò la mano e chiese: “mi scusi, ma vi pagano il 30% di più?”. “No”. “Lavorate il 30% di meno?” “Al contrario”, rispose il funzionario. “E allora”, concluse la ragazza con un sorriso di disprezzo, “qualcuno, da qualche parte” (laggiù, nel cyberspazio) “vi sta fregando senza che ve ne accorgiate”.

Commenti
6 Commenti a “Laggiù (nel cyberspazio) qualcuno ti sta fottendo. I 30 anni di “Neuromante””
  1. fabio mercanti ha detto:

    Il “funzionario” non ha risposto che quel 30% di tempo risparmiato sarebbe stato impiegato per un altro progetto? e così, niente fregatura, solo più progetti e prodotti.

  2. Daria ha detto:

    oggesù – ma se di quell’altro progetto (cioè un aumento di produttività dell’azienda, che fattura mettiamo un 20/30% in più) non si avvantaggiano né il funzionario, né i redattori, né gli altri che stanno lavorando a quel progetto supplementare, vuol dire, semplicemente, che l’innovazione tecnologica ti fa produrre di più senza farti guadagnare di più.

    Chi si avvantaggia è il proprietario dell’azienda per sempio, o gli intermediatori teconologici e così via. Infatti (al di là dell’Italia) negli ultimi 30 anni nei paesi a tecnologia avanzata (il nord del mondo) la forbice tra i molto ricchi e il ceto medio poi diventato medio basso (composto non di rado da professionisti come quel funzionario) si è allargata sempre di più. E’ semplice da comprendere se si va all’osso.

    E’ quello che è accaduto, numeri alla mano. Numeri che appunto sono tali e non un’opinione.

  3. fabio mercanti ha detto:

    Certo se nessuno ci guadagna dove sta il guadagno? Al di là delle amministrazioni editoriali, la tecnologia d’uso comune ha velocizzato e reso più efficienti le attività umane (anche semplificandole) con tutti i drammi del caso (pensiamo alle automobili). Da sempre. E forse non siamo mai stati tanto critici come lo siamo ora con le nostre tecnologie informatiche.

  4. Valeria Barbera ha detto:

    Perspicace fu, la ragazza 😉

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