Le tre giornate di Palermo

Questo articolo di Giorgio Vasta è uscito in forma ridotta su «Repubblica» e tenta un ragionamento su quanto è avvenuto nei giorni scorsi ai Cantieri Culturali della Zisa a Palermo, uno spazio straordinario deputato (già nel nome) alla cultura, e su cui tuttavia le istituzioni hanno dimostrato di proiettare ben altre finalità, innescando un vero e proprio presidio da parte di artisti, associazioni culturali e del movimento I Cantieri che vogliamo.

di Giorgio Vasta

Si comincia con un video: una goccia dopo l’altra si forma una pozza d’acqua che impercettibilmente, senza sosta, allaga un pavimento rossastro.
È la mattina del 6 gennaio e circa duecento persone (destinate a diventare sempre di più nel corso dei giorni) affollano l’interno delle Tre Navate, uno degli enormi capannoni in cui si articolano i Cantieri Culturali della Zisa, uno straordinario esempio di archeologia industriale, sessantamila metri quadri che a metà anni ’90 erano diventati a Palermo un punto di riferimento ma soprattutto un tentativo concreto di riemergere dal collasso del 1992 individuando nella cultura uno strumento politico strategico (ai Cantieri lavorarono tra gli altri Bob Wilson, Carlo Cecchi, Thierry Salmon e Philip Glass).
L’immagine dell’acqua che si espande sul pavimento delle Tre Navate non descrive soltanto in quali condizioni si trova oggi la maggior parte dei Cantieri (soltanto il 20% dello spazio è stato recuperato e destinato a un uso pubblico; tutto il resto è chiuso da anni e assimilato al paesaggio di macerie normalizzate che è il denominatore comune di Palermo): quell’acqua che si dilata silenziosa racconta in che modo una città può sparire a se stessa.
Per rendere palese il portato di questa sparizione, un comitato di cittadini attivo da un anno a Palermo, I Cantieri che Vogliamo, ha promosso Cultura Bene Comune, una tre giorni (dal 6 all’8 gennaio) di forum, laboratori, performance e spettacoli realizzata con il lavoro volontario di settanta diverse associazioni e un centinaio di artisti.
La percezione di questo pieno (di proposte, conflittualità, ipotesi: soprattutto di studio) ha rivelato le proporzioni del vuoto al quale Palermo ha fatto l’abitudine; non soltanto un vuoto di vita culturale ma soprattutto di vita politica reale, di partecipazione, di diritto all’autoconvocazione e alla riappropriazione. Qualcosa che si è generato lentamente trasformando lo spazio sociale in un deserto.
Nel momento in cui diciamo che Palermo è sparita non stiamo ricorrendo a una facile iperbole: stiamo prendendo atto di un’esperienza malinconicamente verificabile. Nella percezione pubblica, in quella mediatica, Palermo è diventata una città fatta d’aria, irreperibile sulle mappe.
Per fortuna, se ripensiamo alle ragioni della sovraesposizione del capoluogo siciliano durante gli anni ’80 e fino alla stagione delle stragi (nessuno rimpiange una visibilità determinata da quelle centinaia di morti all’anno); da allora però, mentre la pratica criminale si è professionalizzata parcellizzandosi e scegliendo l’understatement (eppure, se soltanto si prestano occhio e orecchio, le logiche di sopraffazione psicologica ed economica sono ancora tutte lì, vive e attive, tenaci come certe ruggini che si sbriciolano non per scomparire ma per aderire meglio), Palermo ha mancato ogni occasione per guadagnarsi una visibilità “buona”, generata da una sua interpretazione adulta delle pratiche di cittadinanza e dalla capacità di venire a capo dei mille vincoli di cui nel tempo è stata vittima e complice.
Tutt’altro che recuperare terreno, irrobustirsi sul versante civile e fare sua una cultura del diritto profonda e diffusa, Palermo ha affrontato gli ultimi quindici anni impegnata in un esercizio di scomparsa. L’ultima decade, quella della gestione Cammarata – sindaco e giunta ostinatamente concentrati nella propria evaporazione e, altro paradosso che a Palermo guadagna una sua normalità, nel rendere molecolare un centro-sinistra disperso in infiniti estenuanti minuetti – ha condotto a livelli di acquiescenza traumatici.
La goccia – è il caso di dire – che ha fatto traboccare il vaso è stata, lo scorso 8 novembre, un “invito a manifestare interesse” nei confronti dei Cantieri che l’ineffabile amministrazione cittadina ha mandato agli imprenditori. In sostanza, dopo avere ignorato la lettera aperta che nei mesi scorsi I Cantieri che Vogliamo le aveva indirizzato sollecitando attenzione sul destino di questo patrimonio, l’amministrazione locale dà platealmente le spalle all’aggettivo, non ornamentale bensì sostanziale, con cui è nominato lo spazio in questione – Cantieri Culturali della Zisa – tagliando fuori dalla discussione le associazioni culturali (a questo invito del comune è seguita, da parte di I Cantieri che Vogliamo, una richiesta di revoca).
Per questi motivi le tre giornate di Cultura Bene Comune – subito evolute in forma di presidio, a partire dall’idea che il futuro dei Cantieri non è procrastinabile – hanno avuto e potranno avere una funzione fondamentale. Prima di tutto perché dopo anni in cui Palermo si limitava, nella migliore delle ipotesi, a notare l’assenza di una vita culturale (e dunque, lo ripetiamo, di una vita politica tout court), ha cominciato, tramite terapia d’urto, a sentirne la mancanza. In secondo luogo perché queste tre giornate hanno dichiarato la rottura di una subalternità. Non a qualcun altro ma a se stessi, ai propri alibi, alla propria coazione a smarcarsi: a tutto ciò che, almeno fin qui, si è stati.
Al netto di tutte le autoillusioni, continuando a coniugare in modo adulto fiducia e capacità critica, forse questa volta sarà possibile, una goccia dopo l’altra, drenare l’acqua e liberare lo spazio.

Commenti
5 Commenti a “Le tre giornate di Palermo”
  1. marcobusetta ha detto:

    “Palermo ha affrontato gli ultimi quindici anni impegnata in un esercizio di scomparsa.” esercizio egregiamente riuscito. un capolavoro. godendosi le macerie e l’acufene dell’indifferenza, di quella smorfia perenne che imbratta le facce. (un palermitano emigrato)

  2. Irina ha detto:

    Lo dico da mo’: in Italia le leggi esistono su (quasi) tutto, ma non vegnnoo quasi mai applicate (non ci sono controlli) e peggio ancora non c’e8 ne9 volonta politica ne9 civile per cambiare.Si tratta di un problema culturale, poi civile, poi politico..Di per se9 non sarebbe grave, si puf3 vivere anche bene con questi ampi margini di liberte0, se non fossimo circondati da paesi dove inveci si controlla per davvero, il che9 gli porta anche un sacco di vantaggi (non ultima quella della sicurezza della pena per i trasgressori) e nel complesso una societe1 pif9 stabile. Il declino parte (anche) da qui..

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