Guardando il cielo. Intervista a John Berger

berger

Ricordiamo John Berger, morto ieri sera all’età di novant’anni, con questa intervista uscita sul Manifesto, ringraziando la testata (fonte immagine).

Nel 1972 comparve sugli schermi televisivi del Regno Unito un uomo con una T-shirt in stile pop art che, con voce calda e rassicurante, sollecitava gli spettatori a interrogarsi sul rapporto tra arte e società. Lontano da ogni pedagogismo paternalistico, alieno dagli eruditi esibizionismi dei cultori della materia, capace di dubitare persino delle proprie posizioni, quell’uomo, John Berger, rivoluzionò il modo di pensare l’arte, lasciando sconcertati esperti e comuni cittadini. Impantanati nei tortuosi meccanismi ermeneutici derivati da Barthes e dallo strutturalismo francese allora di gran moda, i primi stentarono a riconoscere l’efficacia di un approccio così chiaro e diretto; i secondi si sorpresero nello scoprire come le opere d’arte non fossero oggetti muti e impenetrabili, che acquistano eloquenza solo dopo un lungo apprendistato alla critica d’arte, ma veri e propri interlocutori con cui dialogare, intrisi di contenuti politico-ideologici, così come di storie personali, memorie e speranze.

E di storie, memorie e speranze John Berger ha intessuto il suo straordinario universo artistico, composto nel corso di un’intensa attività di critico, cantastorie e disegnatore attraverso un’incessante interrogazione del mondo. Alla ricerca della manifestazione di una verità mai assoluta, ma inquieta e ambulante come le sue peregrinazioni sulla soglia che unisce realtà e immaginazione. Abbiamo discusso con lui del suo lavoro.

Lei è poeta, saggista, sceneggiatore cinematografico, critico d’arte, autore teatrale, romanziere, storyteller, disegnatore e molto altro ancora. La frequentazione di ambiti artistici così diversi dipende forse dalla volontà di mantenere una sorta di indipendenza dell’immaginazione, anche al di là dei limiti imposti dalle specificità di ogni forma espressiva? 

Se mi guardo indietro, riconosco di aver usato forme differenti anche per preservare una certa indipendenza, sebbene non lo abbia fatto in modo consapevole. Mi sembra comunque che una parziale risposta alla sua domanda si possa trovare in alcuni aspetti della mia formazione: a sedici anni ho lasciato la terribile scuola che frequentavo, e in seguito ho avuto modo di iscrivermi a una scuola d’arte, dove ho cominciato a dipingere e disegnare. Nel 1946, sono andato sotto le armi, e ci sono rimasto per due anni. Uscito dall’esercito, in quanto militare avrei potuto frequentare gratuitamente l’università, ma decisi di non farlo, perché non volevo ritrovarmi in quello che mi sembrava un mondo troppo «protetto». Desideravo stare per strada, dove le storie ci parlano, e ritenevo che la vita al di fuori dell’università fosse molto più interessante e misteriosa. La mia educazione formale, dunque, si è fermata quando avevo sedici anni e, sebbene allora non ragionassi in questi termini, adesso posso dire che il fatto di non essere andato all’università mi ha assicurato una certa libertà, perché non ho avuto a che fare con le categorie proprie del sistema accademico che distinguono tra fiction, saggistica, scrittura per il teatro e via dicendo.

Persino nelle opere dove la dimensione autobiografica emerge con più evidenza, lei ha sempre evitato di prendere se stesso in modo esplicito come oggetto-soggetto del suo lavoro. Questa avversione per l’autobiografia sembrerebbe dipendere anche dal modo in cui guarda agli avvenimenti, al mondo: non si tratta mai di uno sguardo nostalgico o ripiegato su se stesso, quanto piuttosto di una visione animata da quello che, citando Fotocopie, potremmo chiamare «un senso di urgenza che appartiene solamente alla vita»…                                                 

In effetti posso dire che mi riconosco in questa descrizione. Di solito mi definisco uno storyteller, e lo storytelling esiste da molto più tempo della fiction, perché con questo termine in genere intendiamo i romanzi e, così come noi oggi li concepiamo, i romanzi sono più o meno una invenzione del XIX secolo. Ora, tra i romanzi molti sono semi-autobiografici, e in qualche caso apertamente autobiografici, basti pensare a Proust, uno scrittore che ammiro enormemente e che mi ha influenzato in modo profondo. Lo storytelling però è qualcosa di diverso, perché gli storytellers per definizione non raccontano le proprie storie, ma sono permeabili all’ascolto e all’interpretazione delle storie altrui, e agiscono in modo per così dire anonimo. Questo è ciò che cerco di fare anch’io. Non sostengo che si tratti propriamente di una qualità, e per quanto mi riguarda credo di essere «costituito» in questo modo, perché sin da quando avevo sei anni mi identificavo molto facilmente con le persone che erano attorno a me. Nonostante sia piuttosto sospettoso verso le facili spiegazioni di natura psicologica, può darsi che questa mia disposizione sia legata al fatto che sin dall’infanzia mi sono trovato solo, anche se questo non significa che vivessi in solitudine. In un certo senso ero come un orfano: avevo un rapporto molto stretto e affettuoso con mia madre, ma con lei ho trascorso poco tempo, e mi identificavo con mio padre, che però non sentivo propriamente come tale. Questa condizione mi ha concesso una particolare libertà, e forse proprio perché non ero vincolato in modo forte alla mia famiglia mi sentivo naturalmente più aperto nei confronti degli altri.

Lei ha sostenuto di essere animato dal «bisogno di scoprire ciò che è già lì, ma che non è stato ancora visto». Queste parole evocano non solo Proust, da lei appena citato, ma anche il Paul Klee della Confessione creatrice, quando afferma che «l’arte non deve riprodurre il visibile, ma rendere visibile», portare a manifestazione. Riconosce affinità con questi due artisti?

Per quanto riguarda Proust, l’ho letto per la prima volta quando avevo circa quattordici anni, e ovviamente non capii molto. In seguito, lessi di nuovo le sue opere, che finirono con l’assumere grande importanza ai miei occhi precisamente per quell’elemento di cui parla lei: non erano le parole che usava in quanto tali che mi interessavano, ma il modo in cui evocava le cose, quello strano paradosso per il quale a partire da una determinata parola era possibile scoprire, aprire e portare alla luce un intero universo.

Per rimanere agli anni della mia adolescenza, più che a Klee penserei a James Joyce, il quale è stato molto importante, ma per ragioni differenti. Di lui mi ha impressionato il fatto che fosse riuscito a introdurre in letteratura molte esperienze che prima non ne facevano parte: Joyce ha spalancato le finestre del mondo letterario, e da quelle finestre sono entrate migliaia di parole, e insieme a esse nuove esperienze relative al corpo e alla biologia, esperienze che prima di lui erano escluse dall’ambito letterario.

Nel corso degli anni lei non ha mai smesso di occuparsi del rapporto tra arte e politica, o meglio tra arte e potere. Se assumiamo come fa lei che l’arte abbia un potere catartico, perché salva i fenomeni dall’oblio, non si rischia di assegnare all’arte una funzione meramente consolatrice, eliminandone il potenziale di trasformazione dell’esistente?

Si tratta di una questione estremamente attuale, perché viviamo in un clima dominato dal capitale finanziario globale, che ha imposto un nuovo ordine economico dai tratti sempre più inquietanti. Secondo gli ideologi di questo ordine economico, esiste un netto contrasto tra il passato, che rappresenta ciò che dovremmo lasciarci alle spalle in nome del cosiddetto progresso, e il futuro, che si ritiene carico di promesse. La storia delle persone, e la consapevolezza che le persone hanno della relazione tra la loro vita e la storia, si oppongono a questo contrasto: nessun vero futuro – che non sia quello relativo alle prossime ventiquattr’ore o alle prossime elezioni – può essere infatti realizzato senza un senso del passato. Il senso del passato, che non ha niente a che vedere con un atteggiamento conservatore, serve a comprendere il senso di quel movimento che può organicamente portare al futuro. In questi termini salvare dall’oblio, rifiutarsi di cancellare il passato, è un’operazione indispensabile per comprendere meglio come si possano cambiare le

Stendhal diceva che la bellezza è una promessa di felicità, mentre Adorno nella sua monumentale Estetica aggiunge che l’arte è una promessa di felicità non mantenuta. In Modi di vedere lei scrive invece che è la pubblicità a essere una promessa di felicità. Vuol forse dire che ormai le promesse di felicità possono venire solo dal marketing pubblicitario?

Per prima cosa, la pubblicità ha la pretesa di promettere felicità, ma quel che veramente promette non è nient’altro che il prossimo oggetto da consumare. Finge di essere in grado di aprire una porta sul regno della felicità, dimenticando che la felicità non risiede in nessun regno, perché è qualcosa che accade improvvisamente e inaspettatamente. La felicità si manifesta in momenti di breve durata, nei quali si avverte qualcosa che è eterno, qualcosa che ci porta fuori del tempo. In un certo senso l’arte fa la stessa cosa: anche nelle diverse forme d’arte infatti possiamo trovare quello che chiamerei l’eterno, l’eterno di cui parlava Spinoza o, in termini meno astratti, l’eterno che emerge per esempio nel modo in cui Pasolini nel suo film La rabbia mostra l’intera storia dell’uomo, evitando ogni pretesa di generalizzazione storica e facendo coesistere in essa il passato, il presente e il futuro.

Un’ultima domanda: lei ha scritto che i cieli cambiano non solo in funzione del tempo atmosferico, ma anche sulla base dei cambiamenti storici, perché sono una finestra sull’universo e nello stesso tempo uno specchio sugli eventi terrestri. Se oggi guarda fuori dalla finestra, il cielo che vede quale mondo riflette?                                                                                            

Innanzitutto ci sono gli operatori di quel nuovo ordine economico mondiale di cui parlavo prima, i quali prendono ogni minuto qualche decisione, che riguarda direttamente milioni di vite in tutto il mondo, senza rispondere politicamente a nessuno, né ai governi degli Stati nazionali né tanto meno ai singoli politici, i quali hanno perso gran parte del loro potere ma non vogliono ammetterlo. Poi ci sono milioni e milioni di persone, che in un certo senso non hanno potere e non operano politicamente, perlomeno non nel senso tradizionale del termine. Queste persone lavorano per proporre piccole soluzioni che consentano loro di sopravvivere in modo più semplice nelle difficili condizioni in cui si trovano, e rappresentano un vasto movimento, in un certo senso amorfo ma che condivide molte priorità, priorità legate alle azioni da intraprendere e alle forme di resistenza e di solidarietà da attuare. Questo movimento, che non dispone di un programma formale né di un unico portavoce, rappresenta una forza per cambiare. Le persone che formano questo movimento non stanno pianificando il cambiamento, semplicemente lo costruiscono con le loro stesse vite.

Penso che sia la prima volta nella storia che accade una cosa del genere e, se guardo il cielo, vedo qualcosa che assomiglia a questo movimento che prepara l’alternativa all’attuale potere che governa il mondo. Vedo qualcosa che attende, un movimento che, aspettando, prepara l’alternativa per la sopravvivenza. Vedo una sorta di immanenza. Se guardo nello specchio che mi offre il cielo, vedo uno spazio che contiene dentro di sé tutte le persone che tentano di restituire un senso alle loro vite.

Commenti
Un commento a “Guardando il cielo. Intervista a John Berger”
Trackback
Leggi commenti...


Aggiungi un commento