L’arte rotta. Parte seconda

Questo testo è stato pubblicato a puntate, in forma leggermente diversa, all’interno della rubrica “inpratica” su Artribune, dal 6 al 27 aprile. Immagine di copertina: Marta Roberti, “Piangere dal terzo occhio”.

IV.

Gradualmente, si capiscono nuovi aspetti di come la situazione che stiamo vivendo stia influendo su di noi. L’esperienza del tempo, come abbiamo visto, è ambigua e contraddittoria: dilatato e dissipato, sembra tantissimo e sembra non bastare mai; e così la concentrazione sembra avere davanti e attorno a sé condizioni ideali, e invece appare incredibilmente labile, transitoria…

Tutto invecchia in fretta, diventa istantaneamente obsoleto: dalle notizie alle loro interpretazioni. Che lo vogliamo o no, che lo crediamo o no, esiste una cesura già percepibile rispetto a come le cose apparivano prima, fino a pochissimo tempo fa: quello con cui stiamo avendo a che fare è uno stato diverso e nuovo, di relazione con il mondo e con noi stessi. Quindi, gli innumerevoli suggerimenti di letture e visioni in streaming e contatti sociali online, il consiglio di “occupare” il più possibile il proprio tempo potrebbero essere, in definitiva, uno spreco: rappresentano infatti la reintroduzione e la perpetuazione degli schemi precedenti all’interno della condizione attuale, il tentativo estremo di consumare contenuti con la massima efficienza trasferendo questa stessa efficienza dal piano fisico a quello virtuale. Forse è il caso di rinunciare all’efficienza – o quantomeno di considerarla per ciò che effettivamente essa è: un’evasione. Per quanto sia consolatoria, questa pratica ci impedisce infatti di comprendere i contorni e il funzionamento dell’evento gigantesco in cui siamo improvvisamente precipitati.

Il virus – il complesso e il contesto molto stratificato di esperienze che la situazione generata dal virus sta producendo, gli aspetti e le dimensioni su cui interviene contemporaneamente – sta amplificando ciò che già era fuori, e soprattutto dentro, di noi: sta accelerando indefinitamente processi che erano già in atto, e li sta progressivamente definendo.

In questo senso, anche il concentrarsi sul ‘dopo’ – il “come sarà quando tutto finirà” – può essere considerato come un’illusione: un strategia che adottiamo, anche inconsapevolmente, per non vivere appieno quello che ci capita; per metterlo tra parentesi, per sfuggire alla realtà. Il dopo è una costruzione, un luogo in cui ci rifugiamo allo scopo di ignorare ciò che stiamo attraversando.

Qualche giorno fa, sul suo blog, alla richiesta di come avrebbe affrontato la quarantena da parte dei suoi fan – se con una performance solista al piano o con un concerto in streaming insieme alla band, con un intero album o con uno diario dall’isolamento – Nick Cave ha risposto in modo interessante, scrivendo che questo è il momento di fermarsi e di prestare attenzione: “Insieme siamo entrati nella storia e stiamo vivendo un eventi senza precedenti nella nostra esistenza. Ogni giorno le notizie ci forniscono informazioni frastornanti che fino a poche settimane fa sarebbero state inimmaginabili. Ciò che ci turbava e che ci divideva un mese fa sembra, nella migliore delle ipotesi,  il disagio proprio di un’epoca indolente e privilegiata. Siamo diventati testimoni di una catastrofe che vediamo dispiegarsi dal suo interno. (…) Come artista, sento che sia inadeguato perdere questo momento straordinario. Improvvisamente, l’atto di scrivere un romanzo, una sceneggiatura o una serie di canzoni sembra quasi  un’indulgenza a un’era scomparsa. Per me, questo non è il tempo di seppellirsi nell’impegno del lavoro creativo. È il momento di farsi da parte e di usare questa opportunità per riflettere su quale sia esattamente la nostra funzione – che cosa, come artisti, siamo qui a fare” (“Together we have stepped into history and are now living inside an event unprecedented in our lifetime. Every day the news provides us with dizzying information that a few weeks before would have been unthinkable. What deranged and divided us a month ago seems, at best, an embarrassment from an idle and privileged time. We have become eyewitnesses to a catastrophe that we are seeing unfold from the inside out. (…) As an artist, it feels inapt to miss this extraordinary moment. Suddenly, the acts of writing a novel, or a screenplay or a series of songs seem like indulgences from a bygone era. For me, this is not a time to be buried in the business of creating. It is a time to take a backseat and use this opportunity to reflect on exactly what our function is — what we, as artists, are for”).

Fermarsi, prestare attenzione. Farsi da parte. Riflettere. Quello che Nick Cave, e altri come lui, ci stanno dicendo è di non scegliere la strada più comoda, più immediata. Di non occupare e consumare questo tempo attraverso la “pratica dell’efficienza” in attesa della fuoriuscita, del magico arrivo di un dopo – ma di vivere appieno tutta l’incertezza e l’instabilità di questo ora, con il suo diluvio confuso di elementi inediti e ansiogeni.

L’opera, ancora una volta, è uno modello per aiutarci a compiere questa operazione: non un’opera che sfrutti l’emergenza del virus come un “tema” – l’ennesimo tema da indagare e consumare – ma un’opera d’arte che si faccia invece attraversare dall’emergenza e dal suo tempo, dal tempo così indefinibile e inimmaginabile che stiamo sperimentando, e che sia in grado di rendere questo attraversamento un modello di vita. Una forma, una struttura capace di organizzare i frammenti del mondo, del nuovo mondo che si affaccia alla nostra esistenza e al nostro immaginario. L’opera che sa vivere questa trasformazione è lo strumento ideale per ascoltare la ‘piccola sensazione’, così indefinibile e misteriosa, che ci sollecita e che ci interroga – oltre le liste e gli impegni più o meno finti con cui tentiamo di puntellare un tempo che si sta sgretolando, per divenire qualcos’altro.

V.

“Il virus è la verità”, scriveva Ivan Carozzi in un pezzo molto interessante pubblicato all’inizio di questa emergenza. “Il virus dice la verità. Il virus strucca e palesa il mondo”. Il virus funziona cioè da “amplificatore”, per processi che ci riguardano e che erano già in atto prima della pandemia, ma che scorrevano sotterraneamente, nascosti dalla routine e dalla frenesia, dagli impegni reali o presunti, dalle scadenze, dai riferimenti…

Allora, in questi giorni che si assomigliano l’uno all’altro, possiamo confrontarci liberamente con questa nuova esperienza del tempo che il virus ci costringe a fare. Perché se è vero che ogni giorno sembra uguale al precedente e al successivo – è altrettanto vero che ogni giorno è diverso.

Una strana, e piuttosto ansiogena, forma di libertà nell’immobilità: per quanto desideri e ti sforzi di mantenere il tipo di esperienza precedente, infatti, il virus non ti invita ma ti costringe a scavare nell’ora, a concentrarti sul presente, a scoprire il senso di questo svelamento che avviene nei momenti più inaspettati.

La faccenda del dopo rimane pressoché intatta, e offre una buona angolazione da cui osservare la contraddizione tra due differenti – e opposti – modi di interpretare e gestire la realtà di ciò che ci sta accadendo: “come sarà la nostra vita dopo la pandemia”, “il mondo dopo il coronavirus”, “quando tutto sarà finito”. Il dopo è in quest’ottica un’autodifesa, l’estremo baluardo: il tentativo come abbiamo già detto di rinchiudere, di mettere in sicurezza questa esperienza dell’ora rifugiandosi in un ipotetico futuro, dal quale guardare indietro con cognizione di causa. Ma è un’illusione – forse necessaria per mitigare la sensazione di inadeguatezza e di impreparazione rispetto all’evento che ci troviamo di fronte, e alla condizione individuale e collettiva che esso genera, in ogni momento.

***

Invecchia tutto, e invecchia in fretta: i film, i libri, i pensieri.

Non solo, come scriveva Nick Cave nelle sue considerazioni, “l’atto di scrivere un romanzo, una sceneggiatura o una serie di canzoni sembra quasi un’indulgenza nei confronti di un’era scomparsa” (“Suddenly, the acts of writing a novel, or a screenplay or a series of songs seem like indulgences from a bygone era”) ma spesso anche l’atto di ‘fruire’ questi ‘contenuti culturali’ è sottoposto a questo tipo di obsolescenza rapidissima, precoce.

È una sensazione ancora molto imprecisa, confusa, difficile, nebbiosa, indefinibile e minuscola: ma ha a che fare quasi certamente con la distanza tra verità e finzione, tra sincerità e rappresentazione. È proprio che la fiction sembra fare difetto, in un’occasione come questa. Ed è anche che comincia a insinuarsi il sospetto che si sia creata una frattura che non è temporanea, ma che è destinata forse ad allargarsi e ad approfondirsi; una frattura legata al rapporto delle opere d’arte con il contesto da cui vengono fuori e con quello in cui vengono inserite. Gli oggetti culturali funzionavano cioè in un certo modo, e adesso questo modo sembra difettoso, inceppato.

Il mettere in mostra, il mettersi in mostra: questo tipo di ostentazione così vitale al mondo di prima, se non è saltato, risulta sempre più stonato e inadeguato adesso. Che tipo di identità finzionale vuoi proiettare verso l’esterno, infatti, se le identità di tutti sono improvvisamente e violentemente scivolate su un piano diverso?

La fiction è relativa alle varie dimensioni del rapporto che l’opera coltiva con il proprio ecosistema: il sovraccarico, la rigidità, la gerarchizzazione, l’esclusione appartengono al prima. E così il desiderio di riempire, di ottenere un tutto-pieno, l’orrore del vuoto, l’orrore di non avere a che fare con degli spettatori e con un pubblico. L’opera nuova invece abbraccia il vuoto e il momento, ricerca una forma differente di verità, di sincerità, di spontaneità. Di intimità.

Il vuoto; l’ora. I giorni tutti uguali, e i giorni tutti diversi. La libertà, e l’accelerazione, nell’immobilità. La frattura e la sua ricomposizione risiedono qui, in queste figure dell’assenza, così come la distrazione e la concentrazione. Lo sprofondamento. L’atto di ricostruire sta forse nell’indagare a fondo questa ambiguità che è apparsa a un certo punto nelle nostre esperienze, e che non sparisce, ma che sembra voler rimanere.

VI.

Le trasformazioni che stiamo vivendo si concentrano nello spazio interno, domestico, nello spazio chiuso della casa: è qui che sperimentiamo il nostro isolamento, ed è qui che facciamo esperienza del nuovo tempo – facendoci attraversare da esso – e dei suoi mutamenti.

Come ha scritto di recente Jerry Saltz, “l’ambiente stesso in cui l’arte viene realizzata sta già cambiando. Per ora, non ci sono grandi studi, dozzine di assistente che lavorano a un’unica opera, interi staff coinvolti. Ora l’arte viene realizzata in spazi più piccoli, al tavolo della cucina, con le cose a portata di mano, i bambini attorno, mentre altri stanno cucinando e la nonna sta lavando i vestiti, mentre la vita si svolge tutto attorno” (“the environment in which art is made is already changing. For now, there aren’t big studios, dozens of artist assistants working on one artist’s work, whole staffs keeping track of it all. Now art is being made in smaller spaces, on kitchen tables, out of things at hand, with kids nearby, cooking happening in the background, Nana washing clothes, life going on all around”). Certamente, se questa condizione può essere una novità per il luccicante sistema dell’arte newyorkese, non lo è qui da noi: la stragrande maggioranza degli artisti italiani non aveva bisogno di attendere la quarantena per fare arte con ciò che è “a portata di mano”.

Ma, se dal momento della produzione spostiamo la nostra attenzione alla fruizione, ritroviamo la nuova “intimità” dell’opera d’arte di cui si è parlato nel corso di questa serie: lo spazio domestico è lo spazio di una relazione che mette in discussione proprio il nostro essere spettatori, pubblico. Se infatti cambia l’ambiente in cui l’opera viene pensata e prodotta, si modifica anche il contesto in cui essa è recepita, a cui essa è destinata. Le opere possono dunque anche vivere nello spazio quotidiano, entrare a far parte a pieno titolo di quella “vita che si svolge tutto attorno”. Opere non solo ‘fatte-in-casa’ ma per la casa, che si dispiegano e si esprimono appieno in quello spazio.

Questo virus, come abbiamo visto, è la verità e dice la verità; il virus smaschera la realtà e smaschera anche noi stessi – che lo vogliamo o no. Il virus inoltre amplifica e accelera enormemente processi che erano già in atto nella società, nella nostra esistenza e (perché no?) anche nel mondo dell’arte.

La principale richiesta categorica che questo straordinario amplificatore/acceleratore ci avanza è quella eliminare e cancellare i filtri, di abolire il superfluo. E credo che superfluo voglia dire sostanzialmente tutto ciò che ha a che fare con (e che ruota attorno a) la finzione, la fiction: non si tratta dunque più di rappresentare e di (auto)rappresentarsi, di “recitare la parte di”, ma di ricercare il più possibile “la cosa in sé”.

Le trasformazioni attuali – che abbiamo appena iniziato a riconoscere e a considerare nei loro riflessi e nelle loro conseguenze – avrebbero molto probabilmente impiegato anni, decenni per manifestarsi: questo è forse uno dei pochi effetti positivi di tutta questa situazione. Abbiamo in questo momento l’opportunità concreta di essere migliori e soprattutto più liberi, proprio perché è il tempo stesso a richiederlo e a permetterlo.

Intimità non significa certo rinchiudersi in se stessi, escludendo l’esterno e l’altro – piuttosto stabilire con esso una relazione profonda che finalmente oltrepassi la dimensione dello spettacolo (e quindi del consumo). Le opere e gli artisti occupano una speciale posizione in questo senso: sono in grado di far cadere concretamente queste barriere, costruendo di fatto dei modelli validi per superare il desiderio apparentemente insopprimibile di “esserci”, e di essere visibili.

Aggiungi un commento