“Fuga dalla rete”: un estratto

Pubblichiamo, ringraziando autore ed editore, un estratto da “Fuga dalla rete. Letteratura americana e tecnodipendenza” di Luca Pantarotto, in uscita oggi per Milieu.

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La bandella dell’edizione americana ci informa che DeLillo ha scritto Il silenzio settimane prima dell’arrivo del Covid-19 e, malgrado all’annuncio della sua uscita si sia tentato qua e là di suggerirne una lettura in chiave profetica, la società descritta nelle sue pagine non ha il volto di quella che in quegli stessi mesi stava facendo i conti con la più grave crisi globale della storia contemporanea. Eppure l’umanità che popola quella dimensione parallela si ritrova al cospetto di una catastrofe di cui proprio l’esperienza della pandemia ci consente di afferrare la piena gravità: l’improvviso collasso di ogni forma di tecnologia sul pianeta, dalla luce elettrica a Internet.

New York, 2022. Un anno qualunque, privo di particolari connotazioni politiche, scelto probabilmente per dare orizzonte prospettico definito all’espressione “un futuro non troppo lontano dal nostro presente” che di solito accompagna le sinossi di libri come questo. Più importante dell’anno, il giorno in cui si svolge l’azione: il LVI Super Bowl, Seattle Seahawks contro Tennessee Titans.

La domenica del Super Bowl è una giornata centrale nell’immaginario nazionale americano e in generale nella cultura dell’intrattenimento, ma soprattutto è una delle stelle fisse del DeLillo-verso, punto d’aggancio di due delle sue ossessioni più frequenti: la morte e la fine del mondo, in qualunque forma decidano di volta in volta di verificarsi. Già in Rumore bianco si dice che, se l’America ha qualcosa di simile al messicano Día de los muertos, è proprio il Super Bowl. Un’idea che DeLillo deve aver continuato a elaborare per anni: la ritroviamo anche in un’intervista concessa a Grantland, il blog sportivo della ESPN, nel 2011, in cui sostiene che per ritrarre l’America degli ultimi vent’anni il modo migliore sarebbe partire dal football e in particolare proprio dal Super Bowl, il più magnifico “desiderio nazionale di morte”. Una definizione che ritorna identica proprio nel Silenzio, nei deliri verbali con cui Max, uno dei cinque protagonisti del romanzo, si sostituisce all’assenza di trasmissioni recitando fantasiosi brandelli di telecronaca mentre fissa il televisore spento. E come lui, è lecito immaginare, altri milioni di americani, mesmerizzati di fronte a uno schermo vuoto, colti dall’apocalisse nell’atto di celebrare, in comunione di spirito, l’unico, vero Giorno dei Morti nazionale.

Nell’appartamento che Max condivide con la moglie Diane, insegnante di fisica in pensione anticipata, quel giorno c’è anche Martin Dekker, giovane ex studente di Diane votato a un culto quasi religioso per Albert Einstein e il suo Manoscritto del 1912 sulla teoria della relatività ristretta. A vedere la partita insieme a loro dovrebbero esserci anche Jim e Tessa, una coppia di amici di ritorno da una vacanza a Parigi. I due però non sono ancora arrivati: il loro volo, con cui si apre il romanzo, è precipitato nelle vicinanze di Newark dopo che tutte le strumentazioni di bordo hanno smesso di funzionare. Contemporaneamente, a casa di Max la televisione si spegne all’improvviso, così come i telefoni fissi e i cellulari, i computer, il frigorifero, l’ascensore e ogni altro tipo di apparecchiatura elettrica ed elettronica. Ovunque schermi neri. Ovunque silenzio.

Com’era già successo con l’evento tossico aereo di Rumore bianco, le spiegazioni con cui i tre cercano di venire a capo dell’accaduto sono una sintesi delle reazioni più comuni di fronte a un fenomeno inspiegabile.

Il primo a parlare è Martin, che inaspettatamente la butta sul ridere: saranno stati i cinesi, un attacco hacker per boicottare il Super Bowl americano e poter così essere gli unici a vedere la loro squadra, i Beijing Barbarians. Un’apocalisse digitale, sì, ma selettiva, uno scherzo tra grandi potenze. In quel mentre, la tv sputa qualche brandello di parole impossibili da decifrare: inglese, russo, mandarino, cantonese? Non si capisce e comunque subito tutto tace di nuovo. Non sembravano lingue terrestri, saranno gli alieni?, dice Diane, per scherzo ma fino a un certo punto. Oppure un atto di guerra. Ma no, le risponde Max, la guerra è diversa, la fanno altrove (anche secondo Jack Gladney le nubi tossiche “sono cose che in posti come Blacksmith non succedono”). Più probabile che ci stiano nascondendo qualcosa, continua il marito: e ancora più probabile che sia tutto un problema tecnico, un guasto che ha danneggiato i sistemi del palazzo e forse del quartiere, ma nient’altro, da nessun’altra parte.

Rifiuto, negazione, sottovalutazione. Paranoia, complottismo, persino derisione. Reazioni tese non tanto a comprendere, quanto a rimuovere, normalizzare, riportare l’ignoto nell’ambito di schemi interpretativi noti. Eppure il modo in cui l’evento si è manifestato non ha l’aspetto di un semplice calo di tensione. Sembrava qualcosa di diverso, di più inquietante.

Le immagini sullo schermo cominciarono a tremolare. Non era una normale distorsione del segnale: c’era un senso di profondità, forme astratte che si componevano per poi dissolversi secondo una cadenza ritmica, una serie di unità elementari che davano l’impressione di proiettarsi in avanti per poi retrocedere. Rettangoli, triangoli, quadrati.

Più che un guasto del sistema elettrico, le parole che DeLillo usa per descrivere lo shutdown sembrano alludere a una deformazione del reale: una sua scomposizione in strutture sempre più essenziali, fino ad assumere la forma delle figure geometriche elementari e poi svanire del tutto. La stessa confusione di voci emessa per qualche istante dalla tv va forse in questa direzione: una pasilalia in cui il linguaggio, strumento primario di conoscenza, perde consistenza e specificità, sfuma in un magma indefinito, babelico, e poi tace, privo di funzione. L’apocalisse tecnologica in atto non si limita a spegnere tv, computer e telefoni. Ciò che fa è sfilacciare le fondamenta stesse della realtà. La spiegazione deve stare altrove.
E se non fosse Dio a giocare a dadi con l’universo, ma Einstein?

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