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Buone feste da minima&moralia con un racconto di Joy Williams

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Care lettrici e cari lettori,
ci prendiamo una pausa natalizia, ma prima vi lasciamo un regalo: un racconto di Joy Williams tratto da L’ospite d’onore, edito da Black Coffee e tradotto da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.

La programmazione regolare del blog riprenderà lunedì 8 gennaio. Lyndon, la nostra newsletter, tornerà sabato 13 gennaio.

Buone feste,
Alessandro, Christian, Liborio, Nicola e Valentina

(Immagine: Adrien Coquet via Unsplash)

***

Carità

di Joy Williams

Gliene aveva parlato un poliziotto che mangiava un tamale in un bar vicino al confine tra Arizona e New Mexico.

«Me ne sono andato là fuori, con tutta quella sabbia bianca, sono salito in cima a una duna e ho guardato e riguardato, ho osservato bene e vi assicuro, non ho mai visto niente del genere, non ho mai provato niente del genere. Credo che avrei potuto starmene là fuori, in tutta quella sabbia bianca, per un bel po’, e non so neanche esattamente perché».
«Non mi pare una cosa così straordinaria» disse Richard. Il poliziotto si accigliò. Poi si mise a ignorarli.

Una volta risaliti in macchina Janice volle andarci immediatamente. Erano diretti a Santa Fe e stavano dando un’occhiata al Sud-Ovest. Indossavano entrambi completi color kaki e Richard aveva intorno al collo una cravatta dipinta a mano per cui aveva sborsato una bella somma di denaro.

Guidarono fino al White Sands National Monument, pagarono l’ingresso ed entrarono. Il ranger del parco disse: «Vi consiglio di scendere dall’auto e di esplorare un po’ a piedi, di salire su una duna per vedere meglio l’infinito mare di sabbia che vi circonda».

Guidarono lentamente su una strada circolare. Era tutto bianco e ordinato. Era come se le dune condividessero una missione.

«Vuoi scendere?» disse Richard. «Ti aspetto in macchina».

Janice credeva di essere ancora capace di meraviglia e trasfigurazione, e si sentì a disagio quando, insieme a Richard, non provò praticamente niente. Era distratta dalla consapevolezza di essere su una strada circolare. Studiava le dune senza grandi speranze. Mentre se ne andavano vide qualcosa di piccolo e traslucido, come una lucertola, che procedeva con difficoltà tra le ruote dell’auto. Lo notarono entrambi.

«Chissà di che parlava quel poliziotto» disse Richard.
«Cercava di fare lo spirituale».
«A te non è venuto a noia? È tutto sacro, misterioso, riservato solo agli iniziati. Perfino gli sbirri cercano l’illuminazione. Io sono un po’ stufo, a essere sincero».

Avrebbe voluto essere scesa dall’auto. Non ci aveva neanche provato. Portava i tacchi alti.

«Torniamo indietro» disse. «Riproviamoci».
«Janice» disse Richard. Dopo qualche miglio disse: «Mi sono scordato di pisciare».
«Ma dai!» esclamò lei.
«Entriamo in quella piazzola di sosta».
«Per pisciare! Che bello!» disse lei. Gli rivolse un’espressione rapita.

Fuori il caldo era soffocante e il deserto riluceva di una lieve tonalità lavanda. Alcune persone erano in piedi sotto una ramada, parlavano ad alta voce di famigliari che fumavano come ciminiere a novant’anni suonati. Un po’ più in là qualcuno chiamava un cagnolino. «Peaches» diceva la donna. «Vieni subito qui». Il cane sembrava sincero nella sua scarsa familiarità col nome Peaches. Era chiaramente un nome che il cane riteneva non indicasse la sua vera natura, e non aveva intenzione di rispondervi.

La strada passava accanto ai bagni e ad altre ramada, attraversava una porzione di paesaggio dove ogni esemplare di flora era spiegato con un cartello e si immetteva di nuovo sulla statale. Janice la percorse dirigendosi verso un gruppo di distributori automatici. Adorava il caffè dei distributori automatici. Riteneva che avesse un sapore insolito e che non fosse per tutti. Mentre aspettava che il bicchiere di cartone scendesse e si riempisse di quel prodigioso liquido, notò un camper viola parcheggiato lì vicino. Accanto c’erano due bellissimi bambini a braccia conserte, che si guardavano intorno come se disponessero di una certa dose di autorità. Erano piuttosto sporchi, biondi e appariscenti. Un uomo e una donna rovistavano nel camper aperto. Sia l’uomo che il bambino erano scalzi e senza maglietta. La donna, che aveva i capelli lunghi e scompigliati, disse qualcosa alla bambina, che salì sul camper proprio mentre l’uomo tirava fuori con aria trionfante un cartone di pizza vuoto.

Janice non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Finì il caffè, che ormai era freddo e aveva un sapore ancora più particolare, e tornò da Richard e dalla loro auto a noleggio, che aveva un graffietto sul tettuccio che lei aveva fatto di tutto per far notare a quelli dell’agenzia perché non la ritenessero responsabile. Sulla griglia del radiatore si erano andate a schiantare diverse farfalle. Senza parlare salì e chiuse la portiera. Le sarebbe piaciuto dire a Richard ciò che si tratteneva dal dirgli, ma in realtà si tratteneva sempre pochissimo.

Passarono accanto al camper e l’uomo alzò il pezzo di cartone su cui ora c’era scritto a pennarello, vi prego: dobbiamo fare benzina. I due punti di quell’implorazione toccarono profondamente Janice.

«Richard,» disse «dobbiamo dare qualche soldo a quella famiglia».

L’uomo si teneva il cartello stretto al petto, appena sopra la cicatrice dell’appendicectomia, mentre i bambini guardavano stolidi nel vuoto.

«Richard!» disse lei.
«Oh, per favore, Janice» disse. «Sul serio».
«Torna indietro» disse.

Avevano raggiunto la statale e Richard accelerò. «Perché vuoi sempre tornare indietro? Non torniamo indietro. Perché non fai le cose la prima volta?».

Lei trasalì all’ingiustizia di quel commento. Prese in considerazione la possibilità di buttarsi all’indietro e di percuotere il parabrezza con i tacchi alti.

«Voglio dare a quella povera famiglia un po’ di soldi per la benzina» disse.
«Glieli darà qualcun altro».
«Ma voglio darglieli io!».

Richard accelerò ancora.

«Ascolta,» disse lei, ragionevole «se tu fossi in ospedale e avessi bisogno di un fegato sano, se un giorno il medico venisse a dirti finalmente, “Ehi, ho buone notizie, l’ospedale le ha trovato un fegato”. Non saresti contento?»
«Certo» disse Richard, pensieroso.
«Qualcuno ti avrebbe concesso una seconda occasione».
«Qualcuno che è morto» disse Richard, sempre pensieroso. «Per forza».
«Vorrei esserci io al volante» disse lei.
«Be’, non ci sei». Janice gemette.
«Ti odio» disse. «Davvero».
«Andiamo a Santa Fe» disse Richard. «È un posto civile. Avrà un effetto civilizzante anche su di noi».
«Quella cravatta ti fa sembrare stupido» disse.
«Lo so» fece lui. Sciolse il nodo, abbassò il finestrino e gettò fuori la cravatta.
«Ma che fai!» gridò Janice.

La cravatta era di puro acetato di cellulosa ed era stata dipinta a mano negli anni Quaranta. Raffigurava un indiano delle pianure in piedi davanti a un pueblo. Il fatto che la scena fosse scorretta, che fosse stata concepita nella più totale ignoranza, non faceva che rendere la cravatta più preziosa e, gli avevano detto, col passare del tempo lo sarebbe diventata ancora di più. Ma ora non c’era più alcun tempo da lasciar passare. La cravatta era perduta. Janice si sistemò sul sedile e guardò senza fiato in lontananza. Pensò a quella famiglia con profonda compassione.

«Temo di dovermi fermare di nuovo. A fare benzina» disse lui.

È spietato, pensò lei. Un barbaro morale. Si fece coraggio.

Uscirono in una cittadina che si allungava per miglia in un unico isolato lungo la statale e si infilarono in una stazione di servizio che ricordava un vecchio trading post, con un recinto pieno di vecchie auto con gli alettoni. Richard scese e mise benzina. Poi pulì il parabrezza, sorridendole attraverso il vetro.

Non lo conosco, pensò lei. Non ho familiarità con la sua persona, non più di quanta ne abbia ad esempio con la teoria della materia oscura.

Lui diede dei colpetti sul vetro. «Vuoi entrare?» disse. «Bicchierini da shot, dipinti di velluto, scorpioni di ceramica?»

È uno snob, pensò.

Lui sospirò e si allontanò, tastandosi il taschino della giacca per sentire il portafogli. Janice si mise in fretta al posto di guida, strinse il volante e sfrecciò via con un grande frastuono metallico sulle grida della sabbia. Arrivò alla piazzola di sosta in quindici minuti. I bambini si erano arrampicati sulla scaletta del camper ed erano sdraiati sul tetto. La donna non si vedeva da nessuna parte. L’uomo stringeva ancora il cartello, rigidamente. Janice gli accostò accanto.

«Come va?» disse l’uomo. Aveva occhi luminosi e chiari.
«Voglio darvi venti dollari» disse Janice. Aprì la borsetta e notò con fastidio che aveva soltanto due pezzi da cinquanta.
«Rose!» strillò l’uomo, abbassando il cartello. Aveva il busto lungo e liscio, tranne all’altezza della cicatrice dell’appendicectomia. La donna uscì dal camper e guardò Janice con freddezza.
«Sì?» disse.
«Ho visto il cartello» disse Janice, confusa. I bambini si alzarono languidamente dal tetto e la guardarono.
«Dobbiamo fare settanta miglia per tornare a casa e mandare i bambini a scuola, domani» disse Rose in tono formale. «Potrebbe portarci fino alla più vicina stazione di servizio e a quel punto darci la cifra che ha deciso di darci. Di solito facciamo così, è la nostra politica. Così sapete che usiamo il denaro solo ed esclusivamente per la benzina».
Janice fu grata per quelle regole.
«Le persone sono più propense a darti soldi nelle piazzole di sosta che nelle stazioni di servizio» disse l’uomo. «È la natura umana. Sono più in pace con loro stesse, nelle piazzole di sosta».

Vennero fatte le presentazioni. L’uomo si chiamava Leo. I bambini erano Zorro e ZoeBella. Janice si presentò.

«Il mio nome di battaglia è Cucciolo Ossuto» disse Zorro. «Puoi usarlo, ma a tuo rischio e pericolo».
«Nome di battaglia un paio di palle» disse Leo. «Crede di far parte di una banda. L’altra settimana ha graffiato una macchina. C’è mancato poco che ci facesse ammazzare».
«Non me ne sono accorto» disse Zorro. «Avevo solo la mano fuori dal finestrino».
«Quei bastardi ci hanno praticamente cacciati a calci dalla statale» disse Leo.

Janice si rese conto di guardarli a bocca aperta, come una demente. Si offrì di accompagnarli alla stazione di servizio per fargli riprendere il cammino.

«Posso venire con te?» chiese Rose. «Vorrei sentirmi un essere umano, anche solo per poche miglia».
«Anch’io!» gridò Zorro. Aprì la portiera posteriore dell’auto di Janice, si arrampicò sul sedile davanti e le si strinse contro. «Mmmm, profumi» disse.
«Non so dove le abbia imparate queste stronzate» borbottò Rose. «Di certo non da suo padre. Scendi subito da questo veicolo!» strillò.

Il bambino fece una capriola all’indietro sul sedile, uscì dall’auto e saltò sul camper. ZoeBella, che non aveva proferito parola, gli andò dietro.

Janice invitò Rose a farle compagnia fino alla stazione di servizio che Leo sembrava conoscere bene. Si sentiva investita di un’importante responsabilità sociale. Stava facendo del bene. Presto sarebbe finita e in futuro avrebbe potuto ripensare a quell’episodio. Richard aveva soltanto una chiave mentale e non apriva tutte le serrature. Aveva sempre pensato questo, di Richard. Lei invece ne aveva parecchie, di chiavi mentali, pensò con gratitudine, ed era per questo che si muoveva tanto liberamente in un mondo che la accoglieva a braccia aperte.

Leo accese il camper con difficoltà. Dal tubo di scappamento sgorgò del fumo blu.

«Non va bene» notò Janice.
«Giunti, dadi, valvole, non c’è nulla che vada bene» disse Rose.

Il camper guadagnò la statale e si allontanò sobbalzando. Sembrava che uscisse fumo anche dalle ruote. Il cielo era sgombro e di un azzurro crudele, e il fumo lentamente si tendeva a toccarlo.

«Ad alcuni piace questo cielo» azzardò Rose. «Io però preferisco quello di New York. Quello sì che è un cielo. I grattacieli lo spingono più su e sembra lontano, lontanissimo. Ha un’aria più selvaggia».

Janice si dichiarò d’accordo e pensò che fosse un commento estremamente originale. Si sentiva speciale. Guardò Rose con calore.

«Zorro le ha sporcato il sedile» disse Rose, guardando un’orma polverosa sulla tappezzeria dell’auto.

Janice scacciò quella preoccupazione con un cenno della mano. «Ha dei bei bambini» disse. «E che nomi insoliti!».

«Dio solo sa quanto detesto il nome Zorro, ma suo padre ha insistito. Non sono tutti figli suoi. Il padre di ZoeBella, Warren, era cieco. Spero che lei non abbia, come capita a molti, il preconcetto secondo cui i ciechi sono brave persone. Non è così. I ciechi non si sentono in dovere di interagire col prossimo. Non danno alcun contributo in una conversazione. Però aveva un cane magnifico. Si chiamava Mountain e veniva con noi alle lezioni del metodo Lamaze. È un metodo che ti incoraggia a concentrarti su aspetti che non siano il parto e io mi sono concentrata su Mountain, una settimana dopo l’altra, ma quando alla fine è arrivato il momento di far nascere ZoeBella non gli hanno permesso di entrare in sala parto. Violazione delle procedure, hanno detto. Allora io ho dato di matto e credo che la cosa abbia incasinato la testa anche a ZoeBella. Mi sono fatta tutta la gravidanza senza sigarette né alcol, e poi non hanno lasciato entrare quel maledetto cane in sala parto. È stato un parto molto, molto difficile e Warren, grandissimo bastardo, non è stato di alcun aiuto. Ma abbiamo fatto causa all’ospedale per non averci permesso di stare con Mountain, e loro hanno patteggiato. Warren se n’era già andato da un pezzo, ma quei soldi ci hanno aiutato per anni, anche con Leo e Zorro. È stato di grande ispirazione. Ah, quanto vorrei che accadesse più spesso. Hai mai scopato con un cieco?»
«Be’, no» disse Janice. «No, mai».
«Fallo prima di morire, ragazza mia» disse Rose. «È pazzesco».

Janice annuì.

«Ma dopo smamma. Porta le chiappe il più lontano possibile» la ammonì Rose.

Janice annuì di nuovo. Cominciava a preoccuparsi delle condizioni in cui avrebbe trovato Richard quando fosse tornata a prenderlo. Il camper sobbalzava davanti a loro. Janice provava un po’ di nausea a guardarlo. Quando arrivarono all’uscita, Janice si accorse di stringere forte il volante. Il camper non svoltò nella stazione di servizio in cui Janice aveva lasciato Richard, bensì in quella dall’altro lato della strada, dove si fermò sferragliando.

«Solo a guardarlo, quel cumulo di ferraglia, ti viene voglia di scolarti un bicchiere, vero?» disse Rose.
«Vorrei darvi cinquanta dollari, se non vi dispiace» disse Janice. «Immagino che abbiate anche bisogno di cambiare l’olio. Dico bene? Per tornare a casa in sicurezza».
«Oh, puoi mettercene a barili, lì dentro» disse Rose. «È un pozzo senza fondo». Accettò lentamente la banconota prendendola dalle dita di Janice. «Grazie» disse piano. Sembrava immersa in un qualche rituale interiore. Non rispettava il denaro, quello era evidente, ma rispettava la persona che gliel’aveva dato. È davvero così?, si chiese Janice. E perché le stava dando tanti soldi? Si comportava in maniera sempre più sospetta.

Rose scese dall’auto, si stiracchiò e mosse verso la sua famiglia. Janice condusse l’auto dall’altra parte della strada. Il trading post era chiuso. Dal recinto delle auto, quattro cani con la testa grande come taniche di benzina la guardavano avidamente.

«Richard!» chiamò. I cani si scatenarono. Presero a correre in cerchio nel recinto, abbaiando con l’impeto del dovere, rovesciando le loro ciotole dell’acqua. Janice guidò lentamente descrivendo dei cerchi nel parcheggio, dopo di che uscì in strada e arrivò al limitare della città che si interrompeva così, senza preavviso, sotto l’enorme statua di un corridore della strada. Dietro c’erano migliaia di acri di pascoli senza che si vedesse una sola creatura intenta a pascolare. Fermò l’auto vicino alla statua e scese, incamerando con brevi respiri l’aria rovente per timore di bruciarsi i polmoni. Si avvicinò una coppia anziana per chiederle di scattargli una fotografia con la loro macchina fotografica.

«Non ce l’ha il timer?» chiese Janice. «Non potete metterla su una roccia, impostare il timer e farla scattare da sola?»

La coppia di anziani sembrava confusa ed entrambi iniziarono a tremare.

«Ok, perdonatemi» disse Janice. «Mi dispiace. Date qua».
«Si assicuri di prendere tutto» disse la donna. «Vada più indietro».

Janice andò più indietro e si portò al viso la macchina fotografica. Eccoli.

«Vada ancora un po’ più indietro» disse la donna.
Janice arretrò ancora e urtò un cassonetto con la scarpa.
«Devono avercelo messo apposta» disse la donna.
«Indica il punto giusto!» gridò il suo appassito compagno.
«Sorridete, se volete» disse Janice. «Fatto. Ce l’ho». Non aveva scattato la fotografia. Non ne aveva avuto nemmeno l’intenzione. Era un capriccio giustificabile, il suo.
«Grazie infinite» disse l’uomo.
«È stata molto gentile,» disse la donna «dopo che ha accettato di scattarcela».

Janice tornò all’auto con il tacco rotto e riattraversò la città, suonando di frequente il clacson. Non solo Richard era un uomo fastidioso, ma sapeva essere anche sventato. Questo comportamento è sventato, pensò. Fece di nuovo il giro delle pompe di benzina nel trading post deserto. I cani col testone giacevano proni, dividendosi qualcosa di fosco ed eviscerato. Andò dall’altra parte della strada. Rose e i bambini erano seduti a terra, su una coperta. Il camper era su una piattaforma rialzata in officina.

«Cerchi qualcuno?» chiese Rose.
«No» disse Janice. «Non ho l’aria di una che cerca qualcuno, vero?»
«Sembri una che ha fame, allora, o una cosa così» disse Rose.
«Io ho fame» disse Zorro. «Gesù, se ce l’ho».
«Quelle sono di cavallo?» disse ZoeBella indicando le scarpe di Janice.

Janice fu sorpresa di sentire la sua voce, che era morbida e solenne. «Cosa?» disse.
«Le tue scarpe, sono di cavallo?» «Non lo so. Sono di pelle, credo. Sarebbe orribile se fosse di cavallo, non ti pare?»
«Non sembri convinta» disse piano ZoeBella.

Arrivò Leo asciugandosi sui pantaloni le mani unte. Striature di grasso gli coprivano il petto e aveva dell’olio tra i capelli. «Abbiamo un problemino, ma nulla di irrisolvibile» disse. «L’amico, qui, mi farà usare i suoi attrezzi. Perché voi signore e bambini non andate a mangiare qualcosa?» disse magnanimo. «Andate a sedervi in un bel ristorante con l’aria condizionata e mangiate qualcosa di buono».

Rose aveva gusti particolari in fatto di ristoranti. Lo voleva buio, con i separé, senza buffet, senza vista sull’esterno. Montarono in macchina con Janice e ripercorsero la stessa strada di prima. Zorro fu spedito in svariati esercizi commerciali per determinarne l’idoneità. Si era messo una maglietta con su scritto basta tagliole! Una serie di uccellini e animali colorati, storpi e presumibilmente morti, erano posizionati intorno a una trappola di ferro nero dall’aria minacciosa.

«Ama quella maglietta, ma non credo la capisca» confidò Rose a Janice.
«Dovresti seppellirla, quella maglietta, con Zorro dentro» disse piano ZoeBella.

Janice continuava a scrutare la strada alla ricerca di Richard. Non vedeva nessuno che gli somigliasse anche solo lontanamente. Non che si sarebbe accontentata, nel caso.

«Sicura di non cercare nessuno?» chiese Rose.
«Certo» disse Janice. «Voglio solo prendere confidenza con il paesaggio».

ZoeBella si sporse tra i due sedili e disse piano: «Credo che quel poliziotto dietro di noi voglia che accostiamo».
«Sì!» disse Zorro. «Ecco le luci del supplizio!»

L’agente disse a Janice che aveva bucato uno stop. Somigliava moltissimo all’agente che lei e Richard avevano incontrato a colazione. Mentre scriveva la multa, che ammontava a duecento dollari, Rose gli chiese se potesse consigliarle un ristorante, e lui consigliò quello davanti al quale erano parcheggiati.

«Situazioni del genere richiedono un goccetto» disse Rose a Janice. «È sempre così».

Dentro, Janice si sentì disorientata. ZoeBella mise la manina nella sua e la guidò verso un separé. Si sedettero mano nella mano davanti a Zorro, la cui maglietta spiccava nella penombra. Janice ordinò un gin doppio con ghiaccio e Rose una birra in bottiglia, specificando che fosse d’importazione, poi chiese un piatto di tacchino per tutti quanti.

«Il tacchino è sempre ottimo» disse.

ZoeBella non lasciò la mano di Janice neanche quando arrivò il cibo. I bambini mangiarono come se morissero di fame.

«Tu credi in Dio?» mormorò ZoeBella.

Janice cercava di individuare un capello che le era finito sulla lingua.

«Quando avevo l’età di ZoeBella,» disse Rose «ogni volta che pensavo a Dio me lo immaginavo come un’entità con addosso un costume da bagno Speedo nero, e io che stavo seduta sulle sue ginocchia, ma col tempo questa immagine mi è stata levata dalla testa con la forza. Così. Ora quando sento fare il nome di Dio, non penso a niente».

«Per me Dio è un mago» sussurrò ZoeBella guardando Janice con attenzione. «Un ricco mago che possiede tantissime pecore e le ipnotizza per non dover pagare i pastori o costruire i recinti che gli impediscano di scappare. Le pecore sanno che alla fine il mago le vuole uccidere perché vuole la loro carne e la loro pelle. Perciò prima il mago le ipnotizza facendogli credere di essere immortali e che non sentiranno male quando verranno scuoiate, che invece sarà un’esperienza positiva e piacevole. Poi le ipnotizza per fargli credere che il mago è il loro padrone buono che le ama. Poi le ipnotizza per fargli dimenticare di essere pecore. E alla fine loro non scappano mai, ma aspettano in silenzio finché il mago non ha bisogno della loro carne e della loro pelle».

La carnagione di ZoeBella era molto chiara e aveva gli occhi grandi e blu. «Santo cielo» disse Janice, turbata. Solo un pezzo di pane riuscirà a scovare questo maledetto capello, decise. Se ne spinse uno in bocca.

Zorro disse: «Io penso a Dio…». Sua madre lo strattonò bruscamente per un braccio. «Non vogliamo saperlo» disse.

Zorro raccolse le forchette di tutti e se le mise nella tasca dei pantaloncini.

«Ci mancano sempre» spiegò Rose a Janice. «Non so cosa succede alle forchette, in casa nostra».

I bambini ordinarono due grossi sundae al toffee e li divorarono in pochi minuti. ZoeBella mangiava con grazia, ma alla velocità della luce. Aveva tolto la mano da quella di Janice per brandire meglio il lungo cucchiaio, ma quando finì gliela concesse nuovamente.

«Spero di essere a scuola domani» disse con quella sua voce quasi inudibile. «Se domani non sono a scuola non so cosa farò». Plasmò il viso in un’espressione di orrore.

Janice non riusciva a immaginare una bambina come ZoeBella andare bene a scuola, ma le strinse la mano appiccicosa. La storia del mago e le pecore l’avevano messa parecchio a disagio e confusa, anche se adesso sapeva cos’avrebbe fatto. Avrebbe portato a casa Rose e i bambini. Era sicura che la situazione con Leo e il camper non fosse migliorata ed era ansiosa di portare a termine ciò che aveva cominciato. Altrimenti come avrebbe fatto a ripensare a quei momenti? Non avrebbe potuto. Vivevano in una città che non era esattamente di strada per Santa Fe, ma se fossero partiti all’istante sarebbe potuta arrivare lo stesso a Santa Fe prima che facesse buio. Richard aveva prenotato un albergo. Forse c’era un messaggio ad attenderla o magari Richard in persona. Se non avesse trovato un messaggio, o lui, allora sarebbe stata lei il messaggio, al suo arrivo. Dopotutto la vita di una persona è il messaggio, no? Il modo in cui uno vive la propria vita, le azioni che compiono le brave persone.

«Vedo che stai pensando» disse ZoeBella con voce flebile e delusa.

All’officina Leo fu d’accordo con l’idea di Janice. «Credo che dovrò restare qui per giorni» disse. Baciò i bambini e strinse la mano di Janice. Janice disse che Leo le sembrava un brav’uomo.

«È un tipo a posto» disse Rose. «Ogni volta che si ubriaca minaccia di uccidere i conigli dei bambini, ma ancora non l’ha fatto».

Guidarono in silenzio per un po’. Una volta che fossero arrivati a casa loro, Janice non sarebbe entrata. L’avrebbero invitata, ma in nessun caso lei avrebbe accettato. Non voleva spingersi fino a entrare in quella casa, neppure con il pensiero. Li avrebbe lasciati sulla soglia e se ne sarebbe andata.

«Com’è la tua carta di credito?» chiese Zorro. «Nera con una montagna, un’aquila e un grosso sole arancione? Perché se è così l’hai lasciata accanto alla cassa. L’ho vista quando ho preso gli stuzzicadenti».
«Zorro vede carte di credito ovunque» disse Rose. «Gli ho detto di non prenderle mai. È vispo, e voglio che lo sia, ma ho la sensazione che il passo da vispo a disonesto sia molto breve».
«Indietro non ci torno» disse Janice.

Nessuno si oppose. Erano su una stretta strada asfaltata che in un attimo si perse nel deserto. In lontananza c’era un uomo a cavallo.

«C’è un cavallo» disse con riverenza ZoeBella.

Poi Zorro vide il serpente sul ciglio dell’asfalto.

«Guardalo!» gridò. «Guarda quello schifoso quant’è grosso! È un miracolo della natura, non puoi passargli accanto e basta!»

Afferrò il volante e lo girò verso il serpente, ma Janice gli tolse le mani e spinse sul freno. L’auto finì fuori strada, schivando per un pelo una roccia, e con uno schioccare di assali andò a schiantarsi su una macchia di fiori selvatici: primule, verbene e, come puntualizzò in seguito ZoeBella, dature, un genere di piante velenose in ogni loro parte.

«State tutti bene?» disse Rose. «Tutti interi? È questo l’importante, il resto non conta».
«Volevo solo quel serpente» disse Zorro.
«È sempre così, non vede l’ora che suo padre schiacci qualcosa per farlo contento» disse Rose. «Sei sulla macchina di qualcun altro, Zorro! Sei ospite di un’altra persona!».

Scesero dall’auto con difficoltà e la guardarono. Era un disastro totale. La chiave si era spezzata nel quadro, perciò Janice non poté neppure aprire il bagagliaio per prendere la valigia.

ZoeBella toccò la mano di Janice. «Sono felice che tu non abbia investito il serpente» sussurrò.
«Ho un tremendo mal di testa» disse Janice.
«L’hai battuta forte» concordò Rose. «Ho visto un motel, laggiù. Perché non ci prendiamo una stanza e concludiamo qui la giornata?»

Era rimasta una sola stanza libera, con un unico, grosso letto solitario che la riempiva quasi per intero. Le altre erano sgombre, secondo la ragazza indiana alla reception, ma ciascuna presentava una qualche particolare inadeguatezza che la rendeva inadatta all’uso. Un tubo intasato, la moquette bruciacchiata, il water scheggiato, la porta imbarcata. Pulci.

Zorro corse dalla porta al letto e cominciò a saltarci sopra. «Cucciolo Ossuto entra sul ring!» gridò. Si accucciò e mulinò le braccia, percuotendo l’aria. Rose lo scacciò dal letto.

«Tu stenditi» ordinò a Janice. «Io porto i bambini al bar, così puoi riposare. Ho notato che servono cocktail. Vuoi che ti porti un cocktail, quando torno?»
«Credo che mi sdraierò un attimo» disse Janice.
«Non fare nulla finché non ti sarai riposata» disse Rose.
«Tipo, non guardarti allo specchio» le disse piano ZoeBella.
«Sei bianca come un cencio» disse Rose. «Forse dovremmo restare con te finché non avrai ripreso colore».
«Non mi sento affatto bene» disse Janice. Barcollò fino al letto e si buttò supina. Non voleva chiudere gli occhi.
«Fatti appena più in là» disse Rose. «Più nel mezzo, così ci stiamo tutti».

Si sdraiarono tutti sul letto. Dopo qualche istante qualcuno iniziò a russare. Janice non avrebbe scommesso i suoi ultimi centesimi che non si trattasse di lei.

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