Pace e lavoro umanitario

Oggi è stato conferito all’Unione Europea il Nobel per la Pace. Nel 1999 questo premio è stato assegnato a Medici Senza Frontiere. Pubblichiamo il discorso di James Orbinski, presidente del Consiglio internazionale dell’organizzazione, tratto da Costruire la pace. Discorsi dei premi Nobel per la pace. Traduzione di Martina Testa. (Immagine: Medici Senza Frontiere.)

Discorso tenuto da James Orbinski1 il 10 dicembre 1999.

Vostre Maestà, Vostra Altezza Reale, membri del Comitato per il premio Nobel, Eccellenze, signore e signori,

il popolo della Cecenia, e in particolare gli abitanti di Grozny, oggi e da più di tre mesi stanno subendo bombardamenti indiscriminati da parte dell’esercito russo. L’assistenza umanitaria gli è virtualmente sconosciuta. Sono i malati, i vecchi e i più deboli che non possono fuggire da Grozny. Se è vero che la dignità degli individui in situazioni di crisi ha un significato centrale per il premio che si assegna oggi, il merito che ci riconoscete è il nostro particolare modo di rispondere a queste emergenze.

Faccio appello qui oggi a Sua Eccellenza l’ambasciatore russo e, tramite lui, al presidente Eltsin, affinché cessino i bombardamenti ai danni di civili indifesi in Cecenia. Mentre i conflitti e le guerre sono questioni dei singoli stati, le violazioni del diritto umanitario, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità riguardano tutti noi.

Lasciatemi dire innanzitutto che accettiamo con sincera gratitudine lo straordinario riconoscimento che il Comitato per il Nobel ha deciso di tributare a Medici Senza Frontiere. Ma lo accettiamo anche con profondo disagio, nella consapevolezza che la dignità degli esclusi è quotidianamente sotto attacco. Mi riferisco alle popolazioni in pericolo dimenticate, come i bambini di strada che lottano ora dopo ora per la sopravvivenza, vivendo dei rifiuti di chi è invece «incluso» nel sistema economico e sociale. E mi riferisco anche agli immigrati clandestini con cui lavoriamo in Europa, ai quali vengono negati i diritti politici, e che hanno paura di richiedere assistenza sanitaria in quanto il contatto con le autorità potrebbe condurre alla loro espulsione.

La nostra attività consiste nell’aiutare la gente in situazioni di crisi. Ed è un’attività che non si esaurisce mai. Portare assistenza medica agli individui che si trovano in condizioni disperate significa tentare di difenderli da ciò che li aggredisce in quanto esseri umani. L’azione umanitaria non è un semplice atto di generosità, di carità. Mira a costruire spazi di normalità in mezzo a ciò che normale non è. Più che offrire aiuto materiale, il nostro obiettivo è quello di mettere le persone in grado di riguadagnare la propria dignità e i propri diritti di esseri umani. Come associazione indipendente di volontari, ci impegniamo a portare assistenza medica diretta a chi ne ha bisogno. Ma la nostra azione non è fine a se stessa, e non parliamo al vento; abbiamo il chiaro obiettivo di recare aiuto, promuovere il cambiamento e portare alla luce le ingiustizie. La nostra attività e la nostra voce sono segni di indignazione, sono un rifiuto di accettare attacchi attivi o passivi contro i nostri simili.

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Il premio che ci conferite oggi sarebbe potuto andare altrettanto facilmente a molte organizzazioni, o singoli individui meritevoli, che si battono per giuste cause nella propria società. Tuttavia, avete scelto di dare un riconoscimento a msf. Siamo nati ufficialmente nel 1971, come gruppo di medici e giornalisti francesi decisi a mettersi a disposizione per assistere chi ne aveva bisogno. Questo ha significato a volte un aperto rifiuto della politica dei paesi che aggrediscono direttamente la dignità delle persone. Il silenzio è stato a lungo confuso con la neutralità, e presentato come una condizione necessaria dell’intervento umanitario. Ma fin dai suoi inizi, msf è stata creata in contrapposizione a questo principio. Non siamo sicuri che le parole possano sempre salvare vite umane, ma sappiamo per certo che il silenzio può uccidere. Nei nostri ventotto anni di vita siamo sempre stati – e restiamo tutt’oggi – fermamente e irrevocabilmente impegnati in quest’etica di denuncia. Questa è la base su cui siamo orgogliosi di aver fondato la nostra identità, e se oggi continuiamo a lottare per superare le imperfezioni del nostro movimento, siamo tuttavia forti di migliaia di volontari e di impiegati a livello nazionale, e di milioni di donatori che danno sostegno sia finanziario che morale al nostro progetto. Condividiamo dunque questa onorificenza con tutti coloro che, in una maniera o nell’altra, hanno lottato e lottano ogni giorno per mantenere in vita quella fragile realtà che è msf.

L’intervento umanitario scatta laddove la politica ha fallito o è in crisi. A quel punto entriamo in azione noi, non per assumerci una responsabilità politica, ma innanzitutto per alleviare la sofferenza inumana causata da quel fallimento. L’azione dev’essere priva di influenze politiche, e la politica deve riconoscere fra le proprie responsabilità quella di assicurare che l’intervento umanitario sia possibile. La missione umanitaria richiede un contesto in cui collocarsi.

In caso di guerra, questo contesto è il diritto umanitario internazionale. Esso prevede una serie di norme a tutela delle vittime e delle organizzazioni umanitarie, e sancisce la responsabilità degli stati che devono assicurarne il rispetto e punirne la violazione come un crimine di guerra. Oggi come oggi, questo meccanismo mostra delle evidenti disfunzioni. Spesso ci viene impedito di entrare in contatto con le vittime delle guerre. L’assistenza umanitaria viene addirittura strumentalizzata a proprio vantaggio dalle parti in conflitto. E, problema ancor più serio, assistiamo alla militarizzazione dell’attività umanitaria da parte della comunità internazionale.

Di fronte a queste disfunzioni, continueremo ad alzare la voce per spronare la politica ad assumersi le sue inderogabili responsabilità. L’azione umanitaria non è uno strumento per porre fine alla guerra o per creare la pace. È la risposta dei cittadini al fallimento della politica. È un’azione immediata, a breve termine, che non può sostituirsi alla necessità delle soluzioni politiche sul lungo periodo.

La nostra è inoltre un’etica della denuncia. Non permette che i fallimenti morali della politica e le ingiustizie vengano edulcorati o privati del loro pieno significato. I crimini contro l’umanità compiuti in Bosnia-Erzegovina nel 1992. Il genocidio del 1994 in Ruanda. I massacri del 1997 nello Zaire. Gli stessi attacchi di quest’anno contro i civili ceceni. Questi fatti non possono essere mascherati dietro espressioni come «complessa emergenza umanitaria» o «crisi di sicurezza interna», o dietro qualunque altro eufemismo simile, come se fossero eventi casuali, politicamente non meglio definiti. Il linguaggio è determinante. Inquadra il problema e stabilisce il tipo di risposta, i diritti in gioco e di conseguenza le responsabilità. Stabilisce se una risposta di tipo medico o umanitario è adeguata. E stabilisce se una risposta di tipo politico è inadeguata. Nessuno chiama uno stupro «complessa emergenza ginecologica». Uno stupro è uno stupro, così come un genocidio è un genocidio. E tutti e due sono dei crimini. Per msf, l’azione umanitaria consiste in questo: cercare di alleviare la sofferenza, cercare di ripristinare l’autonomia della popolazione, essere testimoni della realtà dell’ingiustizia e insistere sull’attribuzione della responsabilità politica.

Il lavoro compiuto da msf non è isolato da ogni contesto, ma si svolge all’interno di un ordine sociale che include ed esclude, che afferma e nega, che protegge e attacca. Il nostro lavoro quotidiano è una lotta, ed è di stampo decisamente medico, e decisamente personale. msf non è un’istituzione ufficiale, e ci auguriamo che mai lo diventi. È un’organizzazione nata dalla società civile, e oggi la società civile ha un ruolo nuovo nelle dinamiche mondiali, una nuova legittimità informale che affonda le radici nella sua azione e nel sostegno che riceve dall’opinione pubblica, nonché nella serietà dei suoi intenti, ad esempio la difesa dei diritti umani, l’affermazione di princìpi ambientalisti e umanitari, e senz’altro la promozione di un commercio equo e solidale. La guerra e la violenza non sono i nostri unici motivi di preoccupazione. In quanto membri della società civile, riusciremo a conservare il nostro ruolo e il nostro potere solo se resteremo lucidi negli intenti e manterremo l’indipendenza.

In quanto società civile esistiamo in rapporto allo stato, alle sue istituzioni e al suo potere. Ma esistiamo anche in relazione ad altri soggetti non statali, come il settore privato. Non sta a noi sobbarcarci le responsabilità dello stato. Non sta a noi far sì che un alibi umanitario copra la responsabilità dello stato di assicurare la giustizia e la sicurezza. E non sta a noi condividere con lo stato la gestione delle tragedie. Se la società civile identifica un problema, non sta ad essa fornire la soluzione, ma ha senz’altro il diritto di aspettarsi che lo stato traduca la sua denuncia in soluzioni concrete e giuste. Solo lo stato ha la legittimità e il potere per farlo. Oggi siamo di fronte a una crescente ingiustizia. Più del novanta per cento di tutte le morti e la sofferenza dovute alle malattie infettive affliggono i paesi in via di sviluppo. Uno dei motivi per cui la gente muore di aids, di tubercolosi, di malattia del sonno e altre malattie tropicali è che i medicinali necessari a salvarle la vita sono troppo costosi, o non sono disponibili sul mercato perché non sono ritenuti prodotti economicamente redditizi, oppure perché le case farmaceutiche fanno pochissima ricerca e sviluppo per le più diffuse malattie tropicali. Questa inadeguatezza del mercato è la nostra prossima sfida. Ma non dobbiamo affrontarla da soli. Sta anche ai governi, alle istituzioni internazionali, all’industria farmaceutica e ad altre organizzazioni non governative combattere questa ingiustizia. Quello che chiediamo, come movimento che parte dalla società civile, è il cambiamento, non la carità.

Noi affermiamo l’indipendenza delle organizzazioni umanitarie dalla politica, ma questo non certo per creare una contrapposizione frontale tra le ong «buone» e i governi «cattivi», o tra le «virtù» della società civile e i «vizi» del potere politico. Una polemica di questo tipo è falsa e pericolosa. Come nel caso della schiavitù e del diritto allo stato sociale, la storia ci ha dimostrato che le preoccupazioni di ordine umanitario nate in seno alla società civile hanno guadagnato un peso sempre maggiore fino a inserirsi nei programmi della politica. Ma queste convergenze non devono nascondere la distinzione che esiste fra il mondo politico e quello umanitario. L’azione umanitaria si compie nel breve periodo, a beneficio di gruppi specifici di persone e con obiettivi ristretti. Questa è al tempo stesso la sua forza e il suo limite. L’azione politica si può concepire sulla lunga durata, perché quello è il ritmo a cui si muovono le società. L’azione umanitaria è per sua stessa definizione universale, altrimenti cessa di essere tale. La responsabilità umanitaria non conosce frontiere. Ovunque nel mondo ci sia un’evidente necessità di soccorso, un’organizzazione umanitaria per sua vocazione è tenuta a rispondere. Viceversa, l’azione politica conosce bene i confini, e quando si verifica una crisi, la risposta politica varia a seconda dei rapporti storici, dell’equilibrio dei poteri, ed entrano in gioco gli interessi dell’una o dell’altra parte. Il tempo e lo spazio dell’azione umanitaria non sono gli stessi della politica. Tendono anzi a essere agli antipodi, e proprio in questo si ritrova un altro dei princìpi fondanti dell’attività umanitaria: il rifiuto di tutte le forme di soluzione dei problemi che comportino il sacrificio degli individui deboli e vulnerabili. Non si possono fare discriminazioni volontarie contro alcune vittime, né trascurarle in favore di altre. Una vita oggi non si può misurare rispetto al valore che avrà domani; e il soccorso a chi soffre «qui» non può legittimare l’abbandono di chi soffre «laggiù». La limitatezza dei mezzi, ovviamente, renderà necessaria una scelta, ma il contesto e i vincoli a cui deve sottostare l’attività non alterano il principio fondamentale di questa visione umanitaria. È una visione che per sua stessa natura deve ignorare le scelte politiche.

Oggi si riscontra una certa confusione, e intrinseca ambiguità, nello sviluppo delle cosiddette «missioni militari umanitarie». Dobbiamo invece riaffermare con vigore e chiarezza il principio di un’azione umanitaria civile e indipendente. E siamo costretti a criticare i cosiddetti interventi «militari-umanitari». L’azione umanitaria esiste solo per preservare la vita, non per eliminarla. Le nostre armi sono la trasparenza e la chiarezza delle intenzioni, così come le medicine e gli strumenti chirurgici. Le nostre armi non possono essere i caccia e i carri armati, anche se a volte riteniamo che il loro utilizzo sia reso necessario dalle circostanze. Non siamo la stessa cosa, non possiamo essere visti come la stessa cosa, non possiamo essere trasformati nella stessa cosa. In concreto, è questo il motivo per cui abbiamo rifiutato qualunque tipo di finanziamento da parte degli stati membri della nato per il nostro lavoro in Kosovo. Ed è per questo che siamo stati critici all’epoca, e lo siamo tutt’ora, rispetto alla nato quando parla di missioni umanitarie. È per questo, infine, che sul campo possiamo lavorare fianco a fianco con le forze armate, ma di certo non sotto la loro autorità.

Il dibattito sul «diritto d’ingerenza» – il diritto all’intervento militare da parte di uno stato per cosiddetti motivi umanitari – è un’ulteriore prova di tale ambiguità. Cerca di trasportare sul livello umanitario la questione politica dell’abuso di potere, e di legittimare in tal modo un’azione di sicurezza portata avanti con mezzi militari. Quando si mescolano le esigenze umanitarie alle necessità di pubblica sicurezza, è inevitabile che il lato umanitario della questione ne esca compromesso. Bisogna ricordare che la Carta delle Nazioni Unite obbliga gli stati a intervenire con la forza, in certi casi, per fermare le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. Non serve affatto, dunque, ed è anzi pericoloso, usare una giustificazione umanitaria per l’intervento. Questo fine settimana a Helsinki diversi governi si siederanno intorno a un tavolo per studiare la creazione di un esercito europeo, che sia però a disposizione per scopi umanitari. Facciamo appello ai governi affinché smettano di perseguire questa strada di pericolosa ambiguità. Ma incoraggiamo anche tutti i paesi a cercare sistemi per garantire la pubblica sicurezza in modo che le norme internazionali sui diritti umani possano essere rispettate.

L’azione umanitaria ha dei limiti intrinseci. Non può sostituire quella politica. In Ruanda, quando il genocidio era ancora agli inizi, msf lo denunciò al mondo e chiese a gran voce che venisse fermato con l’uso della forza. Lo stesso fece la Croce Rossa. Ma la risposta al grido di aiuto fu soltanto la paralisi istituzionale, un’egoistica acquiescenza e il rifiuto di ammettere la propria responsabilità politica nell’impedire un crimine che non sarebbe dovuto «mai più» restare impunito. Quando l’onu lanciò la sua Operazione Turchese, il genocidio ormai era già finito.

Vorrei citare per un attimo, fra i nostri ospiti qui presenti stasera, Chantal Ndagijimana. Nel 1994 ha perso quaranta membri della sua famiglia nel genocidio in Ruanda. Oggi lavora nei nostri uffici di Bruxelles. Lei è sopravvissuta al genocidio ma, come un milione di altre persone, suo padre, sua madre, i suoi fratelli e sorelle non ce l’hanno fatta. Così come molte centinaia di membri del nostro staff nazionale. All’epoca ero il capo della missione a Kigali. Non ci sono parole per descrivere il coraggio con cui queste persone lavoravano. Non ci sono parole per descrivere l’orrore della loro morte. E non ci sono parole per descrivere la profondità del dolore che io, e tutti i miei colleghi di msf, porteremo sempre con noi.

Mi ricordo che a Kigali una paziente mi disse: «Ummera, ummera-sha». È un’espressione ruandese che tradotta significa grossomodo: «Coraggio, coraggio, amico mio, trova e lascia vivere il tuo coraggio». La sentii usare nel nostro ospedale di Kigali da una donna che non era stata semplicemente assalita a colpi di machete, ma il cui intero corpo era stato mutilato in maniera razionale e sistematica. Le avevano mozzato le orecchie, e aveva il viso sfigurato con una tale cura che si distingueva chiaramente uno schema preciso nei tagli. Quel giorno arrivarono all’ospedale centinaia di uomini, donne e bambini, così tanti che fummo costretti a farli stendere per strada. E in molti casi li operammo direttamente lì, con i fossi di scolo tutto attorno all’ospedale che rosseggiavano di sangue. Lei era solo una dei tanti a vivere una sofferenza inumana e semplicemente indescrivibile. Là per là potevamo fare poco per lei, se non fermare l’emorragia con qualche sutura necessaria. Eravamo completamente sovraccarichi, e lei sapeva che c’erano tanti altri feriti. Lo sapeva lei e lo sapevo io. Mi liberò dall’inferno della scelta. Mi disse, con la voce più chiara che abbia mai sentito: «Allez, allez… ummera, ummera-sha», «Vai, vai, amico mio, trova e lascia vivere il tuo coraggio».

L’azione umanitaria ha certi limiti. Nessun medico può fermare un genocidio. Nessun operatore umanitario può fermare la pulizia etnica; così come non può fare la guerra, non può fare nemmeno la pace. Queste sono responsabilità politiche, non imperativi umanitari. Lasciatemelo dire forte e chiaro: l’azione umanitaria è la più apolitica che esista, ma se i suoi interventi e i suoi princìpi morali vengono presi sul serio ha implicazioni politiche molto profonde. E una di queste è la lotta contro l’impunità.

È proprio per affermare tale principio che sono stati creati i tribunali penali internazionali per l’ex Iugoslavia e il Ruanda. Ed è per affermare lo stesso principio che sono state messe a punto le norme di un tribunale penale internazionale. Questi sono passi significativi. Ma oggi, nel cinquantunesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, di fatto questo tribunale ancora non esiste, e lo scorso anno il suo statuto è stato ratificato soltanto da tre nazioni. A questo ritmo, ci vorranno vent’anni prima che veda effettivamente la luce. Dobbiamo aspettare così tanto? Per quanto siano alti i costi politici della creazione della giustizia nei diversi paesi, msf può testimoniare che i costi umani dell’impunità sono impossibili da sostenere.

Solo gli stati sono in grado di imporre il rispetto per il diritto umanitario, e il loro sforzo in questo senso non può essere soltanto simbolico. Srebenica, apparentemente, era un porto sicuro nel quale noi operavamo. Era presente anche l’onu. Diceva che avrebbe assicurato la protezione. I caschi blu erano spiegati sul territorio. Eppure l’onu è rimasta a guardare in silenzio mentre la popolazione di Srebrenica veniva massacrata.

Dopo i disastrosi tentativi di intervento da parte dell’onu nell’ex Iugoslavia e nel Ruanda, che sono costati la vita a migliaia di persone, msf contesta il principio di un intervento militare che non stabilisca precisi parametri di responsabilità e trasparenza. msf non vuole che le forze militari dimostrino di saper costruire centri di accoglienza per i profughi più rapidamente delle ong. Gli eserciti dovrebbero essere al servizio di governi e politiche che mirino a proteggere i diritti delle vittime.

In futuro, se si vuole che le operazioni militari delle Nazioni Unite difendano davvero le popolazioni civili, al di là dei «mea culpa» del Segretario generale per Srebrenica e per il Ruanda, serve un’autentica riforma delle missioni di pace dell’onu. Gli stati membri del Consiglio di Sicurezza devono assumersi pubblicamente la responsabilità delle decisioni a cui danno o meno il proprio appoggio. Il loro diritto di veto va regolato. Gli stati membri devono essere costretti ad assicurare che vengano messi a disposizione mezzi adeguati per concretizzare le decisioni prese.

Sì, l’azione umanitaria ha dei limiti. Ha anche una responsabilità. Una responsabilità che va oltre le regole di condotta e l’efficienza tecnica. È soprattutto un’etica fondata su certi valori morali. L’intento morale dell’azione umanitaria va confrontato con i risultati effettivamente raggiunti. Ed è su questo piano che ogni forma di neutralità rispetto alla giustizia va rifiutata: la conseguenza può essere l’uso delle missioni umanitarie, nel 1985, a sostegno di una migrazione forzata in Etiopia o, nel 1996, a sostegno di un regime genocida nei campi profughi di Goma. A volte si è costretti all’astensione per evitare che l’azione umanitaria venga usata contro una popolazione in difficoltà. Per citare un caso recente, nel 1995 siamo stati la prima organizzazione umanitaria indipendente ad avere accesso alla Corea del Nord. Tuttavia, nell’autunno del 1998 abbiamo deciso di andarcene. Perché? Perché eravamo giunti alla conclusione che non potevamo fornire la nostra assistenza in maniera libera e indipendente dall’influenza politica delle autorità nazionali. Abbiamo riscontrato che i più deboli erano destinati con ogni probabilità a rimanere tali, perché le scorte di cibo venivano usate a sostegno di un sistema che è esso stesso la prima causa della debolezza e della denutrizione di milioni di cittadini. Il nostro intervento umanitario deve svolgersi in maniera autonoma, con la libertà di valutare, fornire e monitorare l’assistenza in maniera che i più deboli la ricevano per primi. Gli aiuti non devono mascherare le cause della sofferenza, e non possono essere un semplice strumento di politica interna o estera che crea la sofferenza umana più di quanto non la contrasti. In questo caso, siamo costretti ad affrontare il dilemma e a considerare l’astensione il male minore. Come msf, mettiamo costantemente in discussione i limiti e le ambiguità dell’azione umanitaria, specie quando sottostà in silenzio agli interessi degli stati e delle forze armate.

La settimana scorsa il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una legge che autorizza forniture dirette di cibo ai ribelli del Sudan meridionale. Questa è un’indebita storpiatura del significato e degli intenti dell’assistenza umanitaria. Fa delle scorte di viveri uno strumento per rinfocolare la guerra. E significa che un paese viene meno al suo dovere di usare qualunque mezzo politico per porre fine a diciassette anni di guerra civile che hanno causato milioni di morti. Oggi la guerra civile sudanese è una tragedia umana che vede migliaia di profughi esposti al rischio della denutrizione e delle malattie; la popolazione viene bombardata, derubata e razziata costantemente, e perfino ridotta in schiavitù, mentre gli interessi delle grandi compagnie petrolifere restano sempre tutelati; lo spazio per l’azione umanitaria è talmente ristretto che esiste solo in piccole sacche del territorio, e noi e altre ong e agenzie dell’onu fatichiamo a portare assistenza e protezione. Possibile che l’invio di cibo sia l’unica opzione politica per far cessare la guerra? Gli aiuti alimentari o l’assistenza umanitaria – se tale deve essere – non possono rappresentare uno strumento nelle mani degli statisti. In questo caso siamo costretti a denunciare l’uso scorretto degli invii di cibo, che perverte il significato dell’assistenza umanitaria. Se la politica si maschera da ambulanza, è sicuro che si comincerà a sparare sull’ambulanza. E allo stesso modo, se si permette che il cibo venga usato come arma di guerra, si legittima anche l’uso della fame come arma di guerra.

L’azione umanitaria indipendente consiste in una lotta quotidiana per l’assistenza e la tutela delle popolazioni. Nella maggior parte dei nostri progetti essa si svolge lontano dai riflettori dei media e dall’attenzione del potere politico. La si porta avanti nella maniera più profonda e intima nel durissimo lavoro giornaliero delle guerre e delle crisi dimenticate. Numerose popolazioni dell’Africa stanno letteralmente agonizzando in un continente ricco di risorse naturali e di cultura. Centinaia di migliaia di nostri contemporanei sono costretti a lasciare la propria terra e la propria famiglia in cerca di cibo e di lavoro, per dare un’istruzione ai figli e per avere una chance di sopravvivenza. Uomini e donne rischiano la vita imbarcandosi in traversate clandestine, solo per poi finire in un infernale centro di detenzione temporanea per gli immigrati, o sopravvivere a stento ai margini del nostro cosiddetto mondo civilizzato.

I nostri volontari e il nostro personale vivono e lavorano in mezzo a individui la cui dignità viene violata ogni giorno. Questi volontari scelgono spontaneamente di usare la propria libertà per rendere il mondo un luogo più tollerabile. A dispetto di tutti i grandi dibattiti sull’ordine mondiale, l’atto umanitario si riduce a una cosa sola: singoli individui che si mettono a disposizione di loro simili in condizioni di estreme difficoltà. Una benda alla volta, un punto di sutura alla volta, una vaccinazione alla volta. E, nel caso più unico che raro di Medici Senza Frontiere, lavorano in un’ottantina di paesi, più di venti dei quali in guerra, e raccontano al mondo ciò che hanno visto. Tutto questo nella speranza che i cicli della violenza e della distruzione non continuino all’infinito.

Nell’accettare questa straordinaria onorificenza, vogliamo ringraziare nuovamente il Comitato per il Nobel per aver ribadito il diritto all’assistenza umanitaria in tutto il mondo. Per aver ribadito il sostegno alla strada che msf ha scelto di intraprendere: quella della denuncia, della passione e dell’impegno profondo verso i suoi princìpi fondamentali di volontarismo e imparzialità, nonché la convinzione che ogni individuo abbia diritto tanto all’assistenza medica quanto al riconoscimento della propria umanità. Vorremmo cogliere inoltre questa occasione per esprimere il nostro più profondo ringraziamento ai volontari e al personale dei vari paesi che hanno fatto di questi ambiziosi ideali una realtà concreta, che hanno, crediamo, recato un po’ di pace al mondo che ha affrontato sofferenze tanto immense, e che rappresentano la realtà viva di msf.

Commenti
2 Commenti a “Pace e lavoro umanitario”
  1. Donato ha detto:

    Ultimamente ho dei seri problemi di lavoro, e sono fortemente preoccupato! Penso alla mia famiglia a mia figlia che fra qualche giorno compie gli anni e non so come fare per fargli un bel regalo! Poi leggo le avventure di questi medici fantastici! Che cercano i posti piú conflittivi del pianeta e vanno li cercando di dare un po’ di assistenza a rischio alto della propria vita! Posti dove la soglia del problema economico come lo viviamo noi é superata da un pezzo!
    Tempo fa lessi un fumetto/giornalistico molto bello che s’intitola il fotografo, ed é una sorta di autobiografia di un fotografo che viene ingaggiato appunto da MSF, é stupenda come si svolge la forma narrativa! come ti accompagna con facilitá ad entrare totalmente nell’atmosfera di certi posti in questo caso l’Afghanistan, lo consiglio vivamente:
    http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/focus/focus_0746.html

    grazie per l’articolo molto bello come sempre voi di minima e moralia

  2. sergio l. duma ha detto:

    Bello l’articolo, indubbiamente, e nel complesso condivido la maggior parte dei concetti espressi da Orbinski… però… la Bosnia, la Cecenia, il Ruanda, ok, tutto vero, tutto giusto… ma una parola nei confronti del vergognoso e delinquenziale trattamento riservato ai palestinesi si sarebbe potuta dire o no? Israele che non rispetta pressoché quotidianamente i diritti umani, svolgendo un’azione di autentico genocidio nei confronti di un altro popolo non conta, con buona pace di non so quante risoluzioni ONU? Siamo alle solite: due pesi e due misure.
    Quanto al Premio Nobel per la Pace dato all’UE… che farsa.

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