Un estratto da “Il manifesto del lavoro” di Dominique Méda, il 30 settembre al festival Internazionale

Dominique Méda,  professoressa francese di sociologia e dirige l’Istituto per la ricerca interdisciplinare nelle scienze sociali presso l’Università di Parigi Dauphine-PSL, sarà a Internazionale a Ferrara venerdì 30 settembre, alle ore 17 nella sede del Chiostro di San Paolo, per la presentazione del libro “Il manifesto del lavoro” (Castelvecchi Editore)

Come possiamo affrontare la crisi globale e multidimensionale che stiamo attraversando? A questa e a molte altre domande risponderà Méda che, presso il Collège des études mondiales, è titolare della cattedra di Riconversione ecologica, lavoro, occupazione e politiche sociali.

Internazionale a Ferrara è il festival di giornalismo organizzato dal settimanale Internazionale, che porta il meglio della stampa straniera in Italia, e dal Comune di Ferrara. Giunto alla sua sedicesima edizione, il festival porterà dal 30 settembre al 2 ottobre giornalisti di tutto il mondo nella città estense, per affrontare i grandi temi dell’attualità, della politica e della cultura Internazionale. Tra gli altri la scrittrice libanese Lina Mounzer, il giornalista statunitense Jon Lee Anderson, l’avvocata maltese Désirée Attard e Zerocalcare. Elezioni in Brasile, focus sull’Italia e sui nuovi equilibri politici all’indomani del voto, la guerra in Ucraina e i diritti umani: questi alcuni dei temi che saranno affrontati durante i 3 giorni di manifestazione.

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di Dominique Méda, estratto da Il manifesto del lavoro (Castelvecchi Editore)

Quasi tutti riconoscono, nonostante l’esistenza di gruppi di climatoscettici, che sono effettivamente le attività umane ad aver causato la situazione catastrofica in cui ci troviamo oggi, con la possibilità che la temperatura terrestre aumenti di sei o sette gradi centigradi prima della fine del secolo – e quindi, secondo i più recenti studi francesi, un riscaldamento superiore rispetto agli scenari precedenti, compresi i più pessimisti, che significherebbe la fine della vita umana sulla Terra. Ma chi ne è responsabile? È l’umanità nel suo insieme – spinta dall’avidità e dalla sete di sempre maggior potere – come affermano coloro che chiamano il periodo in cui siamo entrate/i “Antropocene”? Non si tratta invece di appena pochi Paesi – che hanno spinto senza sosta i motori del produttivismo per aumentare in modo esponenziale i loro profitti –, come affermano coloro che preferiscono parlare di “Capitalocene”, o anche di “Occidentalocene”? In ogni caso, questo processo di razionalizzazione non riguarda solo la Natura, ma anche le/i lavoratrici/tori, come ha osservato Marx quando ha scritto nel Capitale: «Il capitale esaurisce contemporaneamente le due fonti di ogni ricchezza, la terra e il lavoratore». A seconda della società e dei sistemi di protezione sociale vediamo infatti, in modi differenti, l’azione di un’intensa pressione sul lavoro, come sottolineato dai vari contributi in quest’opera. La nostra responsabilità riguarda anche il futuro: nonostante noi, rappresentanti delle attuali generazioni, non abbiamo partecipato al processo che ha portato alla trasformazione radicale delle nostre condizioni di vita, a noi spetta rallentarlo, se non fermarlo definitivamente, impegnando le nostre società nella cosiddetta “riconversione ecologica” – per sottolineare la necessità di una conversione radicale del modo di pensare e di un sostegno a quella che rischia di assomigliare alla profonda ristrutturazione industriale che molti Paesi hanno conosciuto. Sì, la riconversione ecologica implica un cambio radicale di paradigma che consiste – come alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso suggeriva l’ecologista americano Aldo Leopold nel suo Pensare come una montagna. A Sand County Almanac – nel rinunciare al rapporto di conquista e sfruttamento iniziato dagli esseri umani ai danni della Natura e sostituirlo con un rapporto di rispetto, ammirazione e persino amore. Sostituire lo sfruttamento con l’imperativo “prendersi cura”, non solo della Natura ma anche di tutte le specie che la abitano, tra cui la specie umana, tale sarebbe la prima rivoluzione costitutiva di questa riconversione ecologica. Ma dobbiamo anche adattare le nostre rappresentazioni, la nostra cosmologia e le nostre discipline a questo nuovo paradigma. Un esempio basterà per mostrare la necessità di tali cambiamenti dei nostri parametri di riferimento: dalla fine della Seconda Guerra Mondiale abbiamo vissuto con gli occhi puntati sulla “crescita”, vale a dire il tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL), quell’aggregato convenzionale definito dal sistema di contabilità nazionale che è ormai universale e il cui manuale (System of National Accounts – Sistema di contabilità nazionale) è firmato dalle cinque maggiori istituzioni internazionali. Questo indicatore presenta dei limiti che sono stati ripetutamente denunciati negli anni Settanta e di nuovo negli anni Novanta. Non ha valore per le attività che sono essenziali per la riproduzione della società (le attività domestiche, di volontariato, socialmente utili…), il che significa che la scomparsa di queste attività non è menzionata da nessuna parte, mentre la loro mercificazione o monetizzazione contribuisce all’aumento del PIL. Non è influenzato dalle disuguaglianze del consumo o di produzione: che il 10% della popolazione consumi in modo esagerato mentre ad altri manchi tutto, o che solo il 10% della popolazione in età lavorativa sia coinvolto nel processo produttivo, poco importa. La contabilità nazionale considera utili tutte le produzioni, comprese le più tossiche. Ma soprattutto, il nostro sistema non prevede alcun bilancio sul quale seguire le evoluzioni dei patrimoni essenziali e per noi importanti: il patrimonio naturale e la salute sociale. Poco importa se le condizioni di lavoro sono infernali o invece garantiscono il benessere delle/dei lavoratrici/tori, se le disuguaglianze sono immense o ridotte, e se l’aria è respirabile o no. Questi limiti sono stati riconosciuti dal Rapporto della Commissione sulla misurazione delle performance economiche e del progresso sociale nel 2009. Tuttavia, nessun indicatore alternativo è stato applicato e così si continua a venerare la crescita, i cui danni erano già stati evidenziati nel 1972 dal rapporto Meadows: Limits to Growth. C’è un urgente bisogno di contenere il PIL, cioè il processo di crescita, entro rigorosi limiti sociali e ambientali: devono essere adottati nuovi indicatori di ricchezza, in particolare l’impronta di carbonio e l’indice di salute sociale. Ma questa riconversione ecologica richiederà molte altre trasformazioni: se vogliamo davvero decarbonizzare le nostre economie e raggiungere la neutralità carbonica nel 2050 come stabilito dall’Accordo di Parigi, dovremo chiudere le imprese di molti settori, rivedere i processi produttivi di molte altre, aprirne e svilupparne di nuove, il che si tradurrà in immensi movimenti di manodopera la cui organizzazione non si può lasciare al caso. Le enormi ristrutturazioni dell’industria tessile e siderurgica che l’Europa ha vissuto, ma anche le delocalizzazioni e le profonde trasformazioni verificatesi in tutte le parti del mondo nel corso dell’ultimo secolo nell’ambito dell’intensificazione degli scambi, della ricomposizione delle catene di valore e della nuova divisione internazionale del lavoro, molto spesso hanno contribuito a mettere da parte le persone coinvolte, in pensione anticipata o con la disoccupazione nel migliore dei casi, senza alcun reddito in altri. Questa volta dobbiamo giocare d’anticipo in modo proattivo. Per proteggere le persone, da un lato, ma anche perché tali movimenti di manodopera solleverebbero le popolazioni contro la riconversione ecologica e la renderebbero impossibile. Questo è il senso dell’idea di “transizione equa” promossa dai sindacati, e in particolare dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati, da diversi anni: la transizione non può essere fatta a spese di coloro che, per sfortuna, si trovano oggi a occupare posti di lavoro condannati perché appartenenti a settori che producono troppo gas serra, inquinamento e degrado. Dobbiamo quindi attribuire centralità all’organizzazione del processo di transizione ecologica che deve essere accelerato: anticipando la chiusura dei settori che dovranno vedere riconvertita la manodopera, mappando le competenze di cui dispongono ma anche quelle di cui avranno bisogno i nuovi settori e i nuovi posti di lavoro che si creeranno.

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