Il suicidio dell’Occidente

In questo momento, mentre comincio a scrivere, i video che arrivano dalla striscia di Gaza raccontano quella che sarà forse la fase finale dello sconvolgente massacro con cui da 215 giorni l’esercito israeliano rade al suolo un sovrappopolato angolo di terra. I tank sono entrati a Rafah e alcuni dei video mostrano in soggettiva l’ingresso israeliano. Si tratta dunque degli stessi militari che stanno filmando. Il più gettonato, fra questi trofei di guerra, mostra la famosa scritta I LOVE GAZA forse in plastica, certo tridimensionale, rossa, con il classico cuore. Si avvicina sempre più via via che il tank avanza. Poi le ruote cingolate la inghiottono. È un’anticipazione di quel che sarà: rovine e morte. Una terra spianata, il sangue interrato, il numero delle vittime incerto.

Ovviamente le storie che compaiono sui social sono già innumerevoli e di molti tipi. E se avete cuore, mentre vi meraviglierete di dover ricorrere a un simile strumento per trovare i barlumi di verità negati dai principali media delle democrazie occidentali (in questi giorni dediti a tutt’altro tipo di informazione), troverete molte altre testimonianze della prospettiva israeliana. Per esempio, i festeggiamenti sionisti per la decisione finale di sferrare l’attacco a Rafah, nonostante l’accordo fosse raggiunto. Balli e grida di giubilo. Si stappa champagne, si ride. Si celebra l’imminente annientamento.

Ma c’è anche un’altra prospettiva, quella del popolo che viene massacrato. E qui si rischia di non aver parole per ripetere quel che da sette mesi abbiamo visto fino alla nausea: un palazzo divelto, due bambini intrappolati fra le macerie, gli uomini che scavano a mani nude tentando invano di salvarli perché il loro volto è già più grigio della cenere che li ricopre. Si chiamavano Mahmoud e Hamdam, 8 e 6 anni. Un altro video mostra il corpicino di un bambino che avrà due o tre anni e sta respirando per l’ultima volta dopo il bombardamento della sua casa, gli sforzi del medico sono inutili, lo vediamo in diretta. Un altro ancora è video di denuncia più articolato, frutto di una mano minimamente esperta: mette accanto un padre straziato con il suo figlio in braccio e la notizia del giorno dai Met Gala, analoga perché anche lì un uomo prende in braccio qualcuno, ma si tratta di Tyla, che non potendo muovere le gambe strette nell’attillato vestito di sabbia, viene portata in giro come una statua.

Sono solo cinque fra le storie che stanno arrivando da Rafah. E su di esse noi cittadini del Vecchio Continente, e più in generale della democrazia occidentale, abbiamo due possibilità: o spegnere, staccare, voltare la testa dall’altra parte perché il dolore è troppo e la rabbia diventa frustrazione; oppure possiamo ammettere che una riflessione ulteriore è necessaria. Non soltanto perché siamo noi, tutti noi, con rarissime e interessanti eccezioni, a aver avallato, sostenuto, finanziato in denaro e armi, l’eccidio perpetrato ormai senza soluzione di continuità da Israele. Ma anche perché siamo noi democratici occidentali che stiamo accettando, giorno dopo giorno, che ogni critica a questa deriva spaventosa sia messa a tacere, con estrema durezza, estrema violenza. Stiamo accettando la reazione dei governanti criticati per le loro scelte di sangue, i quali, fuori da ogni regola democratica, stanno preparando il terreno per una sorta di nuova regola: criticare l’eccidio e lottare contro di esso non è moralmente e addirittura legalmente accettabile.

È un altra linea rossa che in questo drammatico epocale crollo, stiamo oltrepassando senza più possibilità di fare ritorno. E conviene riflettere sulla sua portata. Perlomeno per essere consapevoli di quello a cui andiamo incontro.

In poche parole. In questi giorni, nel faro delle democrazie rappresentato dagli Stati Uniti d’America, si sta discutendo una legge in base a cui qualunque critica a Israele verrà derubricata alla voce antisemitismo. È un passaggio culturalmente sconcertante. Non solo si stabilisce per legge un’equazione del tutto falsa e fuorviante. Ma si apre la strada a fenomeni di portata non immaginabile. È palese infatti che la critica contingente alla politica contingente di un Paese non può in alcun modo essere messa sullo stesso piano con idee, teorie, sentimenti razzisti, o meglio con quell’odio contro gli ebrei che una sconfinata letteratura ha esplorato in ogni suo aspetto storico e metastorico. È palese a chiunque che una cosa è odiare gli ebrei e altro è criticare il sionismo e altro ancora è criticare il governo di Israele. Una nenia che in questi giorni abbiamo cantato allo sfinimento ma che forse deve essere ripetuta una volta ancora. Ricordo, allora, che esistono molti ebrei antisionisti, che esistono gruppi di ebrei ortodossi antisionisti, e che, evidentemente, nella stessa Israele (sempre meno democratica di quanto già non era, da quando vengono chiusi canali televisivi), molti sono gli ebrei che criticano il governo attuale, un governo largamente occupato da estremisti, e vivo solo grazie alla cosiddetta guerra. E insomma è palese, incontestabile che una cosa è l’antisemitismo, altra cosa è l’antisionismo e altra cosa ancora è la critica alla politica di Israele.

Eppure, così stanno le cose. La legge è in discussione al Senato. Molto probabilmente, con leggere modifiche, verrà approvata. Anche se non lo fosse, in ogni modo, che una deriva antidemocratica sia ormai stata presa lo hanno mostrato nei giorni passati i fatti di cui chiunque ha avuto notizia dai campus e dalle Università americane. La lotta in difesa del popolo palestinese è stata violentemente repressa. Anche in questo caso i video registrati dai telefoni del nuovo mondo globale hanno aiutato a farsi un’idea. Professori di una certa età spinti in terra e brutalmente ammanettati. Ragazzi immobilizzati col taser. Tende strappate. E tutto quell’armamentario di violenza a cui la polizia americana ci ha abituati, stavolta utilizzata con persone inermi, sedute, oppure semplicemente in piedi a parlare, raccontare, spiegare. Gente che sta combattendo – lo ricordo – contro un massacro. Gente che chiede pacificamente di ritirare gli investimenti da un Paese che oggi sta provocando una tragedia di incommensurabili dimensioni.

Ma quali dimensioni. Apriamo una parentesi perché credo che sia importante spiegare attraverso i numeri quel che forse molti riescono ancora a ignorare ammesso che non abbiano visto almeno una volta le macerie infinite in cui è stato ridotto un lembo di terra lungo come il litorale laziale che va da Fregene a Santa Marinella in cui vivevano oltre due milioni di esseri umani. Dunque, fino al 7 maggio, ieri, quando ho cominciato a scrivere questo articolo, e cioè in 215 giorni di eccidio (non guerra, sia chiaro) sono stati uccisi con certezza 35.000 esseri umani di cui 14.500 bambini. Un dato mostruoso se pensate che appunto moltissimi sono i corpi sotto le macerie. Ma non tralasciamo i feriti che sono più di 78.000. Feriti non significa salvi. Significa – non dimentichiamolo – amputati, bruciati, menomati per sempre e senza alcun accesso a cure mediche, vista la sistematica distruzione di ospedali e centri di cura da parte delle truppe israeliane. Inquantificabile infine il danno di cui noi Occidentali ci preoccupiamo di continuo, ovvero quello psicologico.

Non so se leggere il numero possa dare un’idea della catastrofe che stiamo avallando e di cui stiamo stabilendo che criticarla e lottare contro di essa è fuori luogo o al limite illegale. Un mio amico professore di fisica diviso fra Germania e Italia, particolarmente capace con i numeri, ha cercato di farmi capire le cose così: “Io ti dico che 120.000 tra morti e feriti a Roma vorrebbe dire un morto o un ferito ogni dodici famiglie, due per palazzina dal Flaminio al Laurentino. E se poi conti solo i bambini in età scolare morti o feriti, a Roma sarebbero tre per ogni classe delle ottomila fra elementari e medie presenti in città”. Insomma, una tragedia di proporzioni inaudite. Ora, è necessario chiedersi: come è possibile punire chi lotta contro tanta barbarie?

Sì, potete anche dire che si tratta degli Stati Uniti, i massimi sostenitori di Israele, quelli che hanno per tre volte posto il veto all’ONU contro la richiesta di un cessate il fuoco, quelli che hanno riempito e continuano a riempire di armi Israele. E che reprimono le manifestazioni di dissenso a modo loro e hanno una tradizione molto particolare fra le forze di polizia. Potete dire questo. E in parte avete ragione. In effetti si tratta di un Paese unico, dove per esempio in questi giorni, mentre si reprimeva una protesta pacifica, le forze dell’ordine non sono mai intervenute a punire la violenza dei manifestanti pro-Israele che in alcuni casi, scatenandosi contro i manifestanti, ha assunto tratti vergognosi. Effettivamente gli Stati Uniti possono essere considerati un caso a sé stante.

Ma ora guardate cosa accade da noi. Intendo in Europa. Paese guida della deriva antidemocratica sull’olocausto che gli israeliani stanno scatenando a Gaza è la Germania. Le azioni del Paese che fu autore dell’olocausto della Shoah sono tutte molto significative. A partire dalla stessa violenza di repressione cui abbiamo assistito nelle università americane. Fino a ben altri provvedimenti assolutamente inauditi. Fra di essi, paradigmatico mi pare il divieto di indossare la kefiah sotto alla Porta di Brandeburgo. Non dimentichiamoci però dell’incontro politico internazionale di Berlino in cui esperti, giornalisti e attivisti erano invitati a parlare e che è stato negato mentre era in corso, quasi fosse un ritrovo di terroristi. Imponente schieramento di forze a circondare i locali che ospitavano il Congresso sulla Palestina, eppoi a svuotarli, dopo aver impedito fra gli altri a Yiannis Varoufakis di leggere il proprio intervento e persino di rimettere piede in Germania. Il motivo? Le critiche mosse Israele. Ma non finiscono qui i duri provvedimenti tedeschi che equiparano appunto la critica della politica genocidaria di Israele a un’espressione antisemita. Nelle scuole berlinesi di Neukolln sono stati distribuiti opuscoli (sfornati dall’associazione ebraica Masiyot) che raccontano la storia di Israele elencando cinque falsi miti costruiti sulla sua fondazione fra cui l’occupazione illegale di terre e la Nakba. Si tratta di un revisionismo storico di così bassa lega, così insano e così inadeguato in una democrazia occidentale che vien voglia di chiedersi veramente dove stiamo andando.

Chiediamocelo allora. Perché non è che nel resto d’Europa, fuori da Irlanda e Spagna, si stia invece seguendo una linea molto diversa. Lasciando perdere la copertura mediatica di una catastrofe atroce, sempre minimizzata, svalutata, mai condannata come si farebbe se gli agenti fossero coloro che noi riteniamo dittatori da combattere, stati canaglia e quant’altro, lasciando perdere dunque una stampa che perlopiù la sua missione ha smesso di compierla, e guardiamo agli eventi più significativi. Oltralpe, abbiamo visto negare l’ingresso in Francia al chirurgo inglese Ghassan Abu-Sittah, poiché la Germania ha attivato contro di lui una procedura di divieto europeo per un anno. La colpa? Aver esercitato a Gaza per oltre quaranta giorni: essere quindi nelle condizioni di raccontare l’orrore, ossia pericolosa voce da mettere a tacere. È un caso esemplare. Il testimone negato. L’emblema di tutte le testimonianze che non si vogliono avere, i giornalisti internazionali non ammessi, quelli palestinesi uccisi, i medici uccisi, arrestati torturati e se riescono a sopravvivere bannati dall’Europa (non è un caso che le istituzioni della giustizia internazionale siano in Europa). Per il resto, le solite storie. In Olanda abbiamo visto la polizia intervenire contro gli studenti e usare un bulldozer per spianare un campo di protesta. E qui da noi, abbiamo visto i manganellamenti continui durante le manifestazioni contro il genocidio: una violenza repressiva a volte talmente incongrua che ha suscitato l’intervento delle massime cariche istituzionali. Ma ovunque, in generale, abbiamo visto le tinte fosche che stanno calando sempre più prepotenti sul nostro Vecchio Continente.

È un momento di svolta.

Si stanno superando confini che erano stati tracciati con grande precisione dalle nostre democrazie.

Uccidere indiscriminatamente civili e in particolar modo bambini è stata la prima linea infranta da questo eccidio che – ripeto ancora – noi tutti avalliamo.

Bombardare ambulanze e ospedali è stata la seconda linea che nessuno avrebbe considerato possibile superare.

Annichilire l’informazione è stata la terza (stando a fonti ONU, sono stati uccisi più di 122 giornalisti in questi sette mesi di guerra; dall’interno di Gaza la copertura mediatica è impossibile e accettata solo per i giornalisti al seguito dell’esercito israeliano; Al Jazeera è sotto attacco e ora oscurata all’interno di Israele).

Ma appartiene ancora a un’altra dimensione la linea che stiamo oltrepassando adesso e che potrebbe rivelarsi davvero catastrofica: la linea delle condizioni minime di democrazia, ovvero il rispetto del dissenso, la tutela della critica che è la vera sacra laica grandezza del nostro mondo.

In questi mesi orribili, mentre ogni mattino scorrevo le immagini di una tragedia infinita, ho trovato in due questioni l’unica luce che tagliava il pulviscolo grigio e le nubi di polvere palestinese sbudellata dai tank. Mentre vedevo corpi maciullati, bambini bruciati dalle bombe al fosforo, uomini che camminavano in luoghi deserti uccisi dai cecchini come birilli, corpi trasformati in sottilette dai cingolati dei tank, mani come bandierine che escono dalle macerie, mentre vedevo la festa e gli sfottò dei soldati israeliani, il dolore e la fame dei palestinesi, eppoi le file di camion pieni di aiuti fermati ai confini e i party musicali dei giovani israeliani che bloccano i camion, a volte li ribaltano e saccheggiano, e mentre vedevo la fame, donne stremate, bambini che leccano la terra, mentre vedevo tutto questo, poi cercavo sempre quelle due lame di luce per trovare una sponda, un futuro, niente frustrazioni e anzi il minimo ottimismo. La prima luce si apriva attraverso i ragazzi e le ragazze, gli studenti di scuole, università, istituti, insomma appunto il futuro. Questi ragazzi capaci di indignarsi e incapaci di accettare tanto orrore, come invece sembra che gli adulti siano pronti a fare, be’, sarà retorico, ma ogni volta solo a sentirli cantare mi emozionavo. Mi lasciavano pensare, fra l’altro, a un altro tipo di luce, quell’altra lama che tagliava il buio, una novità culturale. Mi pareva evidente una cosa, infatti: mai più sarebbe stato possibile equiparare a un antisemita un essere umano che lotta per la salvezza di altri esseri umani e dunque lotta contro Israele come contro ogni altro Paese che porta avanti politiche analoghe. Mai più la facile accusa di antisemitismo per condannare il dissenso verso Israele. Mi pareva davvero pacifico. Me lo ripetevo quasi sorridendo: è così chiaro che questi studenti non hanno proprio il benché minimo spirito antisemita che non serve affatto giustificarli dicendo che tra di loro ci sono molti ebrei. Figuriamoci. Mi pareva finalmente una conquista evidente. I giovani che sanno provare vergogna e sanno sentire l’orrore hanno anche aperto finalmente una via culturale che ci libererà da quella colpa che tutti noi proviamo e che ha consentito a Israele ogni tipo di malefatta nella sua storia.

Ebbene, avevo ragione. Quella è la vera luce.

Lo dimostra il fatto che ha messo molta paura. E le nostre democrazie hanno deciso di spegnerla. A costo di distruggere se stesse.

Se adesso riguardo il video in soggettiva del tank che inghiotte la scritta I LOVE GAZA, un’impressione nuova si fa largo. Quel simbolo tanto occidentale, quei caratteri, quel cuore. Il cingolato che lo spiana. Non sarà forse questo il finale suicidio dell’Occidente?

 

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