Bitches Brew cinquant’anni dopo: intervista a Dave Holland

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C’è un aneddoto famoso nella storia del jazz: Miles Davis è ospite ad una cena di gala alla Casa Bianca. La premessa già fa ridere (e prefigurare il peggio) così. Aggiungiamo che è il 1987, dunque il presidente degli Stati Uniti è Ronald Reagan, e quella che potrebbe sembrare una battuta inventata in un circolo delle Black Panther assume i caratteri di una gag epocale. L’inevitabile accade: una ricca signora bianca ingioiellata, moglie di un influente politico repubblicano, si ritrova al tavolo con Miles Davis. Non esattamente una persona dall’apparenza sobria.

Sorpresa per avere accanto una figura così strana e apparentemente fuori contesto, la naturale nemica antropologica del più polemico e fiero musicista nero di tutti i tempi ardisce chiedere quali meriti egli abbia per essere invitato alla Casa Bianca. Ed ecco la risposta destinata agli annali: “Beh, ho semplicemente cambiato la storia della musica cinque o sei volte. E lei quale merito ha, oltre al fatto di essere bianca?”.

Considerando che alla domanda “Cosa faresti se ti rimanesse solo un’ora da vivere?”, Davis rispose “La passerei strangolando un uomo bianco, lentamente, con molta cura”, tutto sommato possiamo riconoscere al grande trombettista di essersi mantenuto all’interno del protocollo delle cerimonie presidenziali.

Se qualcuno, scioccamente, dovesse invece considerare eccessivamente arrogante la risposta data alla malcapitata signora W.A.S.P., non potremmo che guardarlo con commiserazione e ingiungergli: ascolta Bitches Brew.

Forse anche più di Kind of Blue del 1959 (disco che semplicemente cambiò la modalità compositiva nella storia del jazz, da tonale a modale), infatti, il semplice ascolto dell’album icona del 1970 può rendere, anche ai profani del suo culto, la potenza dirompente del genio di Davis.

Per renderne l’importanza ci affidiamo alle parole di un libro imprescindibile per tutti gli amanti di Miles Davis, il volume che George Grella Jr. ha dedicato proprio al suo disco più ardito (edito in Italia da minimum fax col titolo di per sé esplicativo Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz):): “Bitches Brew è una grande opera di musica astratta che si muove fra suoni, ritmi e riff della musica commerciale, nonché uno dei documenti sonori più straordinari mai registrati. Il suo effetto su jazz e rock fu devastante (…) Bitches Brew è come Les Demoiselles d’Avignon e La sagra della primavera, opere magistrali e immaginifiche che diedero il colpo di grazia a una prospettiva vecchia per spalancare un universo di possibilità estetiche e tecniche completamente nuove. Come quelle opere, Bitches Brew è pericolosamente strutturato ma grezzo, e attinge a materiali e metodi al contempo precedenti e esterni alla tradizione in cui nasce (…) è musica tra le più sperimentali e d’avanguardia mai realizzate nella storia della cultura occidentale, ma al tempo stesso è uno strepitoso successo discografico”.

In occasione di Roma Jazz, rassegna che ha portato nella Capitale delle vere e proprie leggende musicali (basti citare il grande Archie Shepp, che ha incantato il pubblico della Sala Sinopoli dell’Auditorium lo scorso 11 novembre), abbiamo avuto l’occasione di incontrare uno dei protagonisti di quello straordinario esperimento musicale: il celebre contrabbassista Dave Holland.

Il musicista britannico si è esibito accanto a due veri e propri acrobati dei rispettivi strumenti, che da tempo formano con lui una delle formazioni più tecniche del panorama contemporaneo: il sassofonistaamericanoChris Potter, artista pluripremiato che può vantare collaborazioni del livello, tra gli altri, di Red Rodney, Pat Metheny, Joe Lovano, Wayne Krantz e il nostro Enrico Pieranunzi; e soprattuttoZakir Hussain, maestro delle tabla, figlio d’arte del leggendario Alla Rakha, noto in Occidente originariamente per la collaborazione in Shakti! con John Mclaughlin (protagonista in Bitches Brew addirittura di una breve traccia a suo nome, in cui Davis non suona).

Il concerto del 6 novembre all’Auditorium è stato davvero stupefacente: nel finale al trio è stata tributata una meritatissima una standing ovation, nonostante il repertorio proposto fosse non esattamente di facile ascolto.

La storia dell’incontro folgorante tra Davis e Holland è nota: il ventiduenne musicista fu notato da Miles al Ronnie Scott’s club di Londra. Il batterista Philly Joe Jones disse a Holland che Davis lo voleva nel suo gruppo, ma i due non riuscirono ad incontrarsi prima della partenza del trombettista. Dopo due settimane la telefonata fatale: Holland aveva massimo tre giorni di tempo per raggiungere New York, dove era atteso per esibirsi al locale di Count Basie. Arrivò in tempo la sera prima, dormì a casa del grande batterista Jack DeJohnette ed esordì in quello che sarebbe stato l’ultimo concerto di Herbie Hancock con la band di Davis (verrà sostituito circa un mese dopo da Chick Corea).

Seguirono due anni di collaborazione (tra cui quella col cosiddetto “quintetto perduto”, accanto a giganti come Wayne Shorter, Chick Corea, il già citato Jack DeJohnette e ovviamente Miles Davis) che inserirono il nome di Dave Holland per sempre la storia del jazz grazie a due dischi cruciali: In a silent way e, appunto, Bitches Brew.

Ecco il nostro scambio di battute.

Potresti descrivere il tuo rapporto e la tua collaborazione con Miles Davis?

Di grande ispirazione. Un grande bandleader che concedeva molta libertà creativa alla sua band, devoto alla costante evoluzione della sua musica e alla continua sperimentazione.

Hai testimoniato il cambio nella sua band tra due artisti iconici come Herbie Hancock e Chick Corea. Che ricordi hai di quel momento?

Mi ero unito alla band appena un mese prima della sostituzione e mi dispiacque di non avere più tempo di suonare con Herbie, ma con Chick abbiamo sviluppato un rapporto musicale molto produttivo, durato per alcuni anni. Due grandi musicisti, con due stili individuali molto differenti.

Siamo prossimi al cinquantesimo anniversario di Bitches Brew. Qual è il significato di quella “miles stone” al giorno d’oggi?

Un gruppo di grandi musicisti che provano a rendere reale la visione unica di Miles.

Cinquant’anni dopo suona ancora nuovo.

A parte quelli che abbiamo menzionato, tra i vari musicisti con cui hai collaborato da Wayne Shorter a Keith Jarrett, Jack Dehonette, Anthony Braxton, senza nemmeno nominare Count Basie…quale collaborazione ti ha impressionato di più?

Sono molti e non tutti sono nomi così famosi. Io adoro le collaborazioni in cui qualcosa di veramente creativo si realizza a livello collettivo.

Qual è la genesi del progetto con Zakir Hussein e Chris Potter?

Il trio è nato come parte di un vasto progetto iniziato da Zakir Hussein, che ha unito musicisti jazz americani e indiani.

La mia frequentazione della musica indiana mi rende consapevole di quanto Zakir Hussein sia considerato una leggenda vivente delle tabla. Come lo definiresti?

Un maestro della musica e un grandissimo comunicatore.

Chris Potter è un altro musicista eccezionale. Sono più di venti anni che suonate insieme. Come definiresti il vostro “interplay”, la vostra interazione musicale?

Credo che abbiamo sviluppato una comprensione e un’affinità con il linguaggio musicale dell’altro e ciò ci concede una grande libertà creativa.

Come riassumeresti  il jazz in una frase?

Una forma d’arte inclusiva con possibilità illimitate.

Commenti
Un commento a “Bitches Brew cinquant’anni dopo: intervista a Dave Holland”
  1. fuffo ha detto:

    a prop dell’ aneddoto iniziale io conosco un’ altra versione: la commensale wasp era nancy reagan e la risposta di mister davis fu: ” bhè, io ho cambiato il corso della musica quattro o cinque volte mentre lei é qui solo perchè si è fatta sbattere dal presidente degli stati uniti ”
    fonte: martin torgoff, bop apocalypse, 2016

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