L’alfabeto di fuoco. Ben Marcus e l’immaginazione radioattiva

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Pubblichiamo un pezzo uscito su Robinson, l’inserto culturale di Repubblica, che ringraziamo.

C’è un’epidemia di linguaggio tossico, l’umanità si sta ammalando di parole. Sembra una di quelle idee irresistibili per un prodotto commerciale: una serie young adult, un film dell’orrore. Portatori sani della malattia sono bambini e ragazzi; se loro parlano, gli adulti si ammalano e muoiono. La storia è raccontata dal punto di vista di un padre di famiglia: ascoltando la voce radioattiva della figlia adolescente (“con periodo di dimezzamento significativo”) “si provava un immediato senso di repulsione”. I sintomi di padre e madre sono: letargia, “quel formicolio a gambe e braccia che ci faceva trascinare i corpi come sacchi”, la “schiena ricoperta di chiazze rosse”. Prima o poi si moriva, e “le vittime erano prosciugate, prive di sali”.

Ma L’alfabeto di fuoco ha pure una frequenza alta da romanzo a chiave, fra Calvino e Vonnegut, la storia elegante e scanzonata di come il linguaggio usato male possa uccidere. Ci si ammala di parole banali, di noia, di gap generazionale. La figlia “diceva cose gentili, cattive, stupide, chiacchiere da adolescente, una guida turistica del nulla che ci seguiva da una stanza all’altra”, per uccidere. La troppa comunicazione, qui, è un allergene: “Allergia è una parola così ampia… In un certo senso, in minima parte, siamo allergici a tutto, ma reagiamo a velocità diverse, a volte così lentamente che i sintomi non si vedono neanche”.

Questo romanzo, infine, non è né un prodotto confezionato né un romanzo civile a chiave per lettori bisognosi di certezze morali. Ben Marcus fa parte, per storia editoriale, della generazione dei Dave Eggers, dei George Saunders, dei Jonathan Lethem, scrittori che hanno usato i generi “minori” come il fantastico, il grottesco e la fantascienza per fare una narrativa apertamente morale. Marcus, a differenza degli altri, è felicemente schiavo della propria immaginazione allergenica, radioattiva. Nel viaggio della speranza della coppia protagonista lontano dalla figlia, per esempio, l’equipaggiamento comprende questo ipnotico elenco di oggetti: “tessuto insonorizzante”, “pillole anti-comprensione”, “radio per bambini trasformata in schermo anti-tossicità”, “kit di respirazione”, “soluzioni saline”, “polvere di rame per i sali fonici”, “feltro”, “tappi per le orecchie”. Marcus vuole che il lettore assimili con calma questa combinazione di cose note e cose misteriose: l’immagine della “polvere di rame per i sali fonici” la metabolizziamo perché accostata ai più digeribili “tappi per orecchie” e a delle triviali “soluzioni saline”.

È letteratura di genere vista quasi solo esteticamente, imitata. In questo senso fa venire in mente lo Stanislaw Lem più poetico per la voglia che ha di perdersi in ogni quadretto di visioni freschissime. È una lettura contemplativa che sabota dall’interno l’impianto d’azione della storia.

Invece di organizzare l’intreccio in modo da creare un buon prodotto, Marcus ci dirotta verso altre bizzarrie. Di grande importanza nel libro, siccome i portatori sani di linguaggio tossico sembrano essere i soli ragazzini ebrei, è la forma particolare di ebraismo praticata dai due genitori: un ebraismo “ricostruzionista”, “una pratica devozionale del tutto segreta”, dove i due utilizzano “come sinagoga una casupola nei boschi che riceveva trasmissioni radio tramite dei cavi sotterranei”. Libro pieno di riflessioni sul linguaggio, non crede meno ai propri discorsi che alle descrizioni: “I tunnel [dei cavi radio] attraversavano tutto il Nordest, fino a Denver, sbucando in centinaia di siti diversi. Le buche erano per lo più coperte da capanni come il nostro, dove due fedeli – una minuscola chavurah, altamente motivata a praticare senza l’inquinamento della comprensione generato dalla comunità – potessero riunirsi per ricevere la trasmissione”. Sia nella cura della malattia, sia nella pratica religiosa, questa sostanza immateriale, la parola, diventa letteratura grazie a una dinamica ricostruzione di ciò che, qui, la veicola o la combatte. I capanni devozionali sono “eretti sopra uno squarcio nel terreno, con i pavimenti divelti e un apparecchio chiamato “ricevitore” che raccoglieva i cavi di trasmissione e convertiva il segnale…” Un tempo le buche erano “circondate di pietre”, “decorate con sistemi di carrucole e secchi finti”, “sorvegliate da ragazzi, protette da lupi, riempite di sabbia, abbellite con lapidi”.

“I messaggi, quando vengono diffusi, si diluiscono”, si legge nel romanzo. In un certo senso, nell’Alfabeto di fuoco – uscito dieci anni dopo il primo romanzo il messaggio di amore per la letteratura di Marcus è diluito nell’apparente tentativo di ampliare il proprio pubblico con una trama avvincente. Marcus d’altronde non sembra crederci, e lavora al minimo dello sforzo quando deve occuparsi di mandare avanti la trama con aperture e chiuse come questa: “Era ciò di cui avevo bisogno per la spinta finale ad andarmene di qui”. Quasi fosse uno scenografo meticoloso cui venisse chiesto di fare anche da montatore del film. Si vede che non gli importa troppo, che è troppo innamorato delle sue perfette frasi tossiche.

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