Perché non c’è ancora un grande romanzo italiano sulla crisi?

Questo testo è uscito in una versione leggermente ridotta nelle pagine che Sbilanciamoci ha curato per il Manifesto. Potete trovare l’intero inserto “Le pagine della crisi” qui (con articoli di Alessandro Portelli, Mario Pianta e molti altri), mentre se volete sostenere il lavoro di Sbilanciamoci potete andare qui.

di Christian Raimo

E insomma qui da noi non c’è nessuno che scriva un romanzo sulla crisi economica? Il dissesto del ceto medio, l’eclissi delle speranze, la rovina psichica che segue quella sociale, non c’è nessuno capace di tesaurizzare sulla pagina questa fase di depressione, come capita, come è sempre capitato – pensiamo a Steinbeck e Faulkner dopo il ’29, pensiamo ai nostri Pirandello, Verga e De Roberto con la crisi di fin de siecle, pensiamo chessò all’esplosione artistica dell’Argentina post-Menem… E in Italia, nel 2014, perché non si avvera quella profezia tutto sommato facile che Mario Vargas Llosa formulava nel 2008 allo scoppiare della bolla finanziaria: «La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura»? È una domanda che si è fatto già nel gennaio 2012, in un articolo simile a questo, Alessandro Beretta. Sull’inserto culturale del Corriere della Sera concludeva che in Italia nessun narratore prendeva sul serio questa sfida. E sembra vero: dopo la massa – se non la moda – di libri sul precariato (inchieste, romanzi, memoir, saggi, Murgia, Nove, Falco, Desiati…), il passaggio mancante è quello che porta dalla denuncia testimoniale alla elaborazione di un’opera-mondo, di un grande affresco, di una metafora illuminante.

Anche le narrazioni sul declino industriale – come La dismissione di Ermanno Rea, Storia della mia gente di Edoardo Nesi, Acciaio di Silvia Avallone, Invisibile è la tua vera patria di Giancarlo Liviano D’Arcangelo… – raccontano soltanto un pezzo della crisi italiana e pongono un tema che è almeno trentennale: come non sentirsi turbati da un Novecento operaio che va morendo?

Mentre la crisi inaugurata dal crollo dei mutui subprime, lo sappiamo bene, evoca un orizzonte più fosco anche del paesaggio spettrale popolato di fabbriche abbandonate: come comunicarlo questo senso di “crisi percepita”, come pensare di raccontare una società come quella italiana dove invece di coscienze di classe, scioperi estesi, conflitto diffuso abbiamo a che fare con una sorta di implosione del malessere, lotte sindacali sostituite dall’uso massivo di psicofarmaci? Se qualcosa può la letteratura è utilizzare i suoi mezzi, che sono la lingua e l’immaginazione. Per questo i lavori recenti più interessanti che riescono a raccontare la devastazione (psichica e urbanistica, allo specchio) sono quelli come L’ubicazione del bene di Giorgio Falco o Resistere non serve a niente di Walter Siti: il raggelamento di un linguaggio novecentesco (laico, plurale, umanistico, scientifico) piegato alla “nuova ragione del mondo”, come chioserebbero Larval e Dardot, diventa una neo-lingua dal sapore orwelliano: funzionale, plastica, sintonica a un mondo in cui anime e città vivono in un’ansia da prestazione continua. Ancora più rappresentativi sono quei libri che  insinuano un elemento di assurdità, di distacco, di ironia, che invece di essere adesivi nella denuncia di un disastro operano un rovesciamento. Prendiamo Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta quando aggiorna il romanzo in versi di Pagliarani e Bertolucci per immortalare una condizione che da generazionale si è fatta cronica – il tempo post-universitario – evanescente, limbica, rinchiusa in un’ambra atemporale che solo la poesia, con la sua capacità associativa, può rendere. Prendiamo Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore quando si mette nel solco della tradizione della letteratura industriale (Volponi, Ottieri, Balestrini) ripensandola in una chiave trash: ecco un’azienda perfetta dove però all’improvviso si assiste a una serie inspiegabile di suicidi cruenti. Prendiamo L’uomo d’argento di Claudio Morici quando costruisce un romanzo generazionale cambiato di segno e crea un’utopia inquietante di un neanche troppo fantascientifico mondo della postcrisi: il lavoro non esiste più, non c’è più uno straccio di benessere, ma la birra è gratis dovunque e le relazioni – mutate geneticamente – non generano più quei problemi legati alla progettualità o alla ricerca di senso per cui mettiamo in gioco i nostri sentimenti. Accettiamo che il futuro possa essere identico al presente, ed ecco con un angosciante tocco di bacchetta magica anche le nostre intemperanze, le nostre delusioni, e – viene da dire – «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria». E, come chiosava sempre Marx, ognuno sarà costretto «a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti».

Ma se questi tre esempi sono tentativi consapevoli, anche forse dei battipista per una letteratura che verrà nel momento in cui la crisi non sarà più un trauma ma una patologia ormai genetica; sarebbe importante anche focalizzarci su un’altra produzione letteraria, quella più mainstream, ma anche quella amatoriale, andare a riconoscere nei romanzi pubblicati con il self publishing, nei diari in rete, nei manoscritti inviati alle case editrici, quali sono i sintomi di mutamenti generali, e riconoscere forse il crollo anche di un’attesa nei confronti di cosa può fare l’arte. È significativa, per fare l’esempio più scioccante, in questo senso la riscrittura rabberciata che qualche giorno fa Beppe Grillo ha fatto della poesia che è all’inizio di Se questo è un uomo. Non è tanto scandaloso per me piegare le pagine sull’Olocausto a un altro fine bassamente politico, ma è terribile farlo in un modo così pedestre. Se Grillo si concede di farlo è perché sente come la letteratura anche oggi, nel paese in cui vive, abbia perso la sua forza utopica, la sua dimensione di alterità profonda, la sua capacità di compiere sempre l’ultimo giro di vite.

Commenti
11 Commenti a “Perché non c’è ancora un grande romanzo italiano sulla crisi?”
  1. gianni a. ha detto:

    perché scrittori ed editori sanno, in linea di massima, che ai lettori oggi non interessa un romanzo che racconti la crisi. perché siamo già tutti abbastanza depressi e scoraggiati da volere, il più delle volte, letture che ci aiutino ad evadere: che non significa leggere solo harmony, ma abbandonarsi a storie e personaggi che non ci ricordino anche la sera, alla fine di una giornata di lavoro, o nel weekend, quanto si sta male in Italia, quanto siamo destinati a stare ancora peggio, ecc ecc

    e anche perché, credo, le ragioni profonde di un momento storico è più facile capirle dopo che durante.

  2. jacopo galimberti ha detto:

    Forse perche’ non siamo piu’ nel 2009 o 2010. E’ sempre piu’ difficile vedere questa fase come “crisi”, sembra semmai l’inzio di qualcosa di nuovo (almeno in Italia).

  3. Verna ha detto:

    I romanzi della crisi non necessariamente parlano di crisi. “La metamorfosi” è un romanzo della crisi. Quando crollò la borsa, nel ’29, i più importanti romanzi della crisi non parlavano di crisi. Se la portavano dentro e parlavano d’altro. E’ letteratura, non la versione romanzata del giornalismo.

  4. gianni a. ha detto:

    a proposito di quello che dice jacopo galimberti, il nuovo libro di Walter Siti (che nell’articolo è citato ma con il romanzo precedente, ormai “vecchio” di due anni) mi sembra si possa dire che parla già di quel qualcosa di strano, indefinidibile, incerto, che stiamo vivendo, ovvero il dopo rispetto al berlusconismo, alla crisi (almeno alla sua fase acuta), al sogno di un benessere che evidentemente non possiamo più permetterci. non a caso si intitola “Exit Strategy”. a me è piaciuto molto, anche più di quello che ha vinto il premio Strega.

    d’accordissimo anche con Verna!

  5. filippo ha detto:

    Aspettiamo un Raimo a tal proposito!

  6. SoloUnaTraccia ha detto:

    Verna l’ha detto in 8 parole. Pure la sintesi è (un’) arte.

  7. Brantomio ha detto:

    Il libro non è ancora uscito perchè le case editrici hanno già programmato le loro pubblicazioni fino al 2015, e non leggono più manoscritti .

  8. Cecilia Samorè ha detto:

    Sono d’accordo con Verna.

  9. Castorini ha detto:

    Non era ancora uscito, all’epoca di questo articolo, il romanzo dell’esordiente Paolo Triulzi, Polvere&Macigni (Foschi, 2014 – vincitore del premio Città di Forlì 2013). Nel solco della narrazione aziendale, si trova un protagonista giovane laureato, non precario né professionalizzato e quindi prontamente assorbito nella macchina normalizzante di una carriera impiegatizia classica. Il primo impiego in una grande azienda, sempre guardata dal basso, coincide con un periodo di formazione che transita il protagonista dalle tensioni desideranti e progettuali degli anni di studio a un’identità adulta consapevole dei limiti sistemici che ogni individuo eredita. Fra ironia e disperazione, lo sguardo dell’Autore trafigge una carrellata di personaggi, che risultano aderenti archetipi umano/professionali, allegorici e funzionali a mostrare i tic dei nostri giorni senza retorica e senza giudizi. Una storia che non attinge alle atmosfere neo boheme delle narrazioni sul precariato, ma scava nella parte grigia, piccolo o medio benestante, impotente e alienata dentro una normalità principalmente preoccupata della propria conservazione, alla ricerca delle radici della “crisi”, soprattutto morale, della quale il precariato, e la precarizzazione in generale, sono i frutti più evidenti.

  10. sandra ha detto:

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  11. Mariano ha detto:

    Probabilmente, come è per la storia sarà per la letteratura: avremo un romanzo della crisi solo quando, per scriverlo, dovremo guardarci alle spalle. Oppure, come dice Verna, c’è già, ma non come ce lo aspetteremmo.

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