Un pazzo si aggira in questo romanzo: Darl Bundren in Mentre morivo di William Faulkner

di Adele Errico

Cinque personaggi di un romanzo si muovono tetri e silenziosi come ombre su un carretto sventurato che va dalla campagna alla città, trasportando per dieci giorni una bara. La bara contiene Addie Bundren, madre di quattro di loro e moglie del quinto. Jewel, Darl, Dewey Dell e Vardaman sono i suoi figli, Anse è suo marito. Ambientato nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha, il romanzo è Mentre morivo di William Faulkner. Tra i cinque personaggi che si muovono verso Jefferson, città della contea in cui Addie deve essere sepolta, tutti arriveranno a destinazione tranne uno, dal momento che, pericolosamente traballante sul baratro della follia, sarà messo su un treno diretto al manicomio prima dell’arrivo a Jefferson.

Dunque, un pazzo si aggira per questo romanzo: Darl Bundren, definito da Harold Bloom “un visionario che alla fine oltrepassa la soglia della pazzia” (Come si legge un libro, Rizzoli 2000, p. 307). È da notare, però, che la follia di Darl non è palese fin dall’inizio del romanzo e che, inizialmente, è mascherata da diversità, differenza, discrepanza rispetto  agli altri membri della famiglia. Sotto quest’ottica, allora, Mentre morivo (Adelphi, 2000) si può leggere come un giallo nel quale sono disseminati indizi non di colpevolezza ma di malattia mentale: l’obiettivo non è scoprire chi sia il colpevole ma chi sia il folle. E gli indizi vanno scovati nell’intricata polifonia delle voci monologanti dei pellegrini che raccontano l’oscura avventura e, contemporaneamente, ciascuno il proprio mondo interiore convulso e contorto, chiusi nell’egoistica morsa della propria tragedia personale. Darl si fa carico del primo monologo e di diciannove dei cinquantanove monologhi totali.

Il primo spiraglio sul mondo dei Bundren avviene passando per la sua voce: “Jewel e io veniamo su dal campo per il sentiero, uno dietro l’altro. Benchè io sia cinque metri avanti a lui, uno che ci guardasse dalla baracca del cotone vedrebbe il cappello di paglia di Jewel, sfondato e sfilacciato, di tutta una testa sopra il mio” (p. 11). Darl Bundren non è come i suoi fratelli. Sin dall’inizio del romanzo la sua voce è, appunto, diversa dalle altre, il suo pensare è più arrovellato, i suoi sensi più acuti. È notevole, già dalle prime parole, una evidente attitudine a osservarsi da fuori, come corpo estraneo, come altro da sé (“uno che ci guardasse dalla baracca del cotone […]”) e il primo velato riferimento a quello che sta accadendo nella casa, all’alone di morte che la sta infestando, si manifesta in forma di suono: il “ciac ciac” della sega di Cash. Chi legge non sa ancora che il rumore è rumore di morte, della cassa da morto che viene costruita per una madre che dovrà giacervi dentro.

Alla fine del primo monologo sarà la voce di Darl a dichiararlo ma, ancora, non è chiaro che si tratti della madre perché Darl la chiama per nome: “Addie Bundren non potrebbe desiderarne una migliore, di casse, migliore per giacervi dentro” (p. 12). Il mondo oscuro e squallido dei Bundren è rappresentato nella voce di Darl nella maniera distorta e allucinata secondo la quale lo percepisce e prodotto in forma di narrazione attraverso un linguaggio ossimorico e oscuro, in un concatenarsi di immagini e pensieri metafisici. Darl non parla come gli altri. È poeta nel corpo del contadino analfabeta: Darl il visionario, Darl il metafisico, Darl il titano romantico, l’eroe decadente. Prendendo parte alla narrazione, indugia su riflessioni metafisiche in una produzione di immagini quasi cinematografiche. Fin da bambino, di notte, mentre gli altri dormono, la sua mente non riposa, è sempre in attività: “Fu da bambino che scoprii quanto è più buona l’acqua quando è rimasta per un po’ in un secchio di cedro. […] È ancora meglio la notte. Giacevo sul pagliericcio nell’entrata, aspettando di sentirli tutti dormire così potevo alzarmi e tornare al secchio. Era nero, il ripiano nero, la superficie ferma dell’acqua un orifizio tondo nel nulla, dove prima che smuovessi l’acqua col mestolo e la svegliassi vedevo una stella o due dentro il secchio, e magari nel mestolo una stella o due prima che bevessi” (p. 17).

Quando Addie muore, gli altri personaggi affrontano il trauma della perdita e dell’assenza quasi tentando di ignorare il cadavere maleodorante in decomposizione e trasferendo la propria attenzione su altro: Jewel sul proprio cavallo (“la madre di Jewel è un cavallo” p. 86); Vardaman, “coperto di sangue fino alle ginocchia” (p. 39), su un pesce morto fatto a pezzi con l’accetta (“mia madre è un pesce” p. 78) che si porta dietro sanguinante dalla cucina sul carro, trascinato per le pinne, “gli occhi strabuzzati, nascondendosi nella polvere come se si vergognasse di essere morto” (p. 34). Dewey Dell è troppo preoccupata per la gravidanza che desidera interrompere, terrorizzata dall’angosciante elemento alieno che le sta crescendo dentro, per provare dolore per la morte della madre. Anse, il padre, vuole solo giungere in città per farsi i denti nuovi.

Darl è il solo a non trovare un transfert. Non sa bene come reagire. Per lui non esiste una dimensione simbolica che possa sostituire la madre, è il solo a percepire il vuoto, l’abisso e cerca di esprimerlo attraverso il solo mezzo del linguaggio: “Io non posso amare mia madre perché non ho madre” (p. 86). E ancora quando Vardaman gli chiede “Allora la tua mamma che cos’è, Darl?”, lui risponde: “Io non ce l’ho una mamma […] perché se ce l’avessi, è era. E se è era, non può essere è. No?” (p. 92). Darl si aggrappa ad un’analisi letterale della propria condizione. Non può amare la madre perché letteralmente non la ha più. È orfano. Dunque, l’unico modo con cui reagire all’assenza è l’uso della parola, l’astratta verbalizzazione, la strategia linguistica. La retorica del negativo e dell’assenza.

La decostruzione avvertita a seguito della perdita della figura materna, nel suo caso, non può essere colmata da un oggetto o da un pensiero concreto dominante che spazzi via quello che ha perduto e, quindi, quello che è stato perso può essere ricostruito solo dalla parola: il linguaggio è strumento di narrazione di sé e del mondo, estremo tentativo di rimanere intero quando dentro è lacerato. La sua lacerazione è, innanzitutto, innata: nella vita è un contadino, nella voce è un poeta. È l’idiota macbethiano urlante una verità, che ne L’urlo e il furore era incarnato da Benjamin Compson. Darl, come Benjy, conosce le verità oscure dei suoi fratelli, è il solo che riesca a vedere e a comprendere, è il solo tra i Bundren per il quale il linguaggio non rappresenti un impaccio. Ma la differenza è che se Benjy è idiota dalla nascita ed è colui che vede e narra senza filtro alcuno, la follia di Darl è latente ed esplode in quella che, per Harold Bloom (p. 313), è schizofrenia: percezione alterata della realtà che sfocia nell’allucinazione, deliri, linguaggio disorganizzato, appiattimento dell’affettività, malfunzionamento sociale. La malattia è in lui ed esplode con la morte di Addie che lo conduce a perdersi, all’incapacità di riconoscersi in qualcosa senza di lei, all’impossibilità di sentirsi intero senza la figura materna che sembra fagocitarlo con sé nella tomba, sconquassando anche lui su “quelle poche ossa marce” (p. 49).

Il linguaggio è solo il primo segnale di diversità e alienazione di Darl. Il vortice della follia è, dunque, generato dalla morte di sua madre e, fino alla fine del romanzo, diverrà voragine. Perdendo Addie, Darl perde la capacità di riconoscersi, perde la cognizione di sé. Comincia a profilarsi una forma di alienazione che anticipa la totale dissociazione finale. Nel suo incessante parlare, nell’espressione a voce alta della mancanza, nel narrare l’assenza (“non ho madre”), “the  madman with poetic gift” (come lo definisce Blotner in Faulkner. A biography, University Press of Mississippi, 2005, p. 249), fa quello che gli altri fratelli non riescono a fare, ovvero ammettere il vuoto. Ammettere che una parte di lui, probabilmente quella sana, è morta insieme a sua madre, come se Addie fosse la stampella della sua sanità mentale, l’elemento che lo mantiene lucido. In fondo, questo figlio è legato all’idea di morte fin dalla sua nascita. Quando Darl nasce, Addie si fa promettere da Anse di essere portata a Jefferson quando sarà il momento di essere sepolta.

La nascita di Darl fa scaturire in lei il desiderio di morte, il pensiero di morte. Allora lo alleva, lo nutre e lo odia come, d’altra parte, questa “madre terribile” (p. 311) – come la chiama Harold Bloom – odia tutti i suoi figli: “scendevo giù alla sorgente dove potevo starmene in silenzio ad odiarli” (p. 152), confessa Addie dall’oltretomba. Dalla nascita il destino di Darl, intanto, si fa e si prepara a compiersi il giorno che sua madre morirà. C’è qualcosa che esplode quel giorno in cui Addie, agonizzante, è circondata dai suoi figli piangenti. Ma Darl non c’è. Darl si tiene alla larga, “non guarda dentro mentre passa vicino alla porta” (p. 16), forse perché sente qualcosa che si rompe, forse perché il puzzo di morte – della propria – è troppo forte da sopportare. La scissione di Darl inizia quel giorno, palesandosi come alienazione e divenendo, poi, in un gesto finale culminante, totale dissociazione.

Gli indizi cominciano a sommarsi e diventare prova nel gesto dell’incendio della bara. Siamo a pochi capitoli dalla fine, a pochi chilometri da Jefferson. E Darl fa una cosa alla quale Vardaman assiste ma che non può dire (“ho visto una cosa che Dewey Dell dice che non devo dire a nessuno” p. 199): tenta di appiccare il fuoco alla bara di sua madre. Distruggere il cadavere della madre significa rinunciare completamente a qualcosa che non può avere più e lasciarsi cadere liberamente nel baratro della follia. Darl, moderno Oreste, è assediato da Furie che si trovano nella sua testa e le Furie sono le parole, le parole che si accavallano l’una sull’altra, i dubbi metafisici, che non gli danno pace. Scagliandosi sul corpo della madre già morta, vorrebbe nuovamente distruggerla e distruggere se stesso, lasciando andare quella parte di sé che, ora, è solo un peso.

A partire da questo gesto, la follia non è più un sospetto ma una verità. Darl è riconosciuto come pazzo dai suoi fratelli e tanto basta perché la sentenza sia pubblica, perché la famiglia, per i Bundren, è il solo microcosmo che conta, il solo universo ad avere importanza: in quel “lungo incubo di quelli che Freud definisce “romanzo familiare” – sostiene Bloom -, “la visione di Faulkner è imperniata su una concezione terribile della famiglia e della comunità e propone l’unico valore della sopportazione stoica che, però, non è sufficiente a salvare il brillante Darl dal manicomio” (p. 311). In questo universo familiare Darl il diverso (“Io l’ho sempre detto che Darl era diverso da quegli altri” p. 26), Darl lo strambo (“Con quei suoi occhi strambi che fanno parlare la gente” – p. 113 – “strambo, duro di comprendonio” – p. 137) diventa Darl il pazzo. E ad annunciarlo sarà Cash, il più saggio dei fratelli, il falegname, il freddo costruttore della bara della madre, il misuratore, l’artigiano il cui punto di vista diventa generale, globale, sociale: “Certe volte non sono tanto sicuro di chi ha il diritto di dire quando uno è pazzo o no. Certe volte penso che nessuno di noi è del tutto pazzo o del tutto normale finché il resto della gente lo convince a andare in un senso o nell’altro. […] però mi sa che nulla giustifica dar fuoco al fienile di qualcuno […] e così mi sa che uno è pazzo” (p. 207).

Cash conclude che in ognuno c’è del sano ma non è quella parte che emerge, alla fine, in suo fratello Darl. La reazione immediata che hanno i fratelli, dopo essere venuti a conoscenza del tentativo di incendiare il fienile, è quella di legarlo. Qualcuno propone di portarlo così a Jefferson, per permettergli di assistere alla sepoltura ma il proposito decade subito. Non si può attendere altro tempo. Darl viene ostracizzato, violentemente escluso dal nucleo familiare: “sarà tranquillo, laggiù, senza noie né nulla” (p. 223). “Laggiù”, dice Cash, senza avere, forse, il coraggio di menzionare quel luogo con il suo nome effettivo. Molto più diretto ed esplicito sarà Vardaman, il più piccolo dei fratelli, al quale è affidata la condanna finale e definitiva: “Darl è andato fuori di cervello” (p. 223). Due guardie verranno a prenderlo e lo caricheranno su di un treno diretto al manicomio di Jackson. La dissociazione, a questo punto, è totale: nell’ultimo monologo il personaggio parla di sé in terza persona: “Darl è andato a Jackson. L’hanno messo sul treno che lui rideva, rideva andando giù per il vagone lungo, con le teste chi si voltavano come tanti gufi quando passava” (p. 225).

Non appena sale sul treno, comincia a ridere di una risata irrefrenabile, convulsa, e intanto pensa il suo monologo cercando nelle parole il Darl che era, ma senza trovarvi traccia. Alienato, è letteralmente fuori di sé, nel senso che si osserva da fuori e descrive i suoi gesti. Le ultime parole di Darl sono quelle che usa per parlare di sé con una prima persona plurale, come se assumesse, alla fine, il punto di  vista polifonico di tutti i suoi fratelli , nel guardare se stesso andare via su quel treno. Lo vediamo per l’ultima volta andare via verso il manicomio. Darl sarà l’unico dei Bundren a non arrivare a Jefferson per seppellire la madre, perché internato prima. Un pazzo si aggirava per questo romanzo, ma alla fine non più. Viene portato via prima che il romanzo finisca, fuori dalla vista, scompare nell’ombra fugace del finestrino di un treno che si allontana, mentre ride istericamente, “le mani sudice abbandonate leggere negli interstizi silenziosi, guarda fuori e schiuma” (p. 226).

 

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