Il viaggio dell’orsa

Questa recensione di Carlo Mazza Galanti al nuovo libro di Vincenzo Pardini (Il viaggio dell’orsa – Fandango) è uscita su Alias.

Per cominciare, ci si potrebbe concentrare sulla qualità dello stile: le scelte lessicali, i preziosi toscanismi, la carica evocativa di parole semi-dimenticate e recuperate da Pardini con la precisione del collezionista; potremmo stupire della scelta dei nomi di persona, pesanti concentrati di destino prelevati da una onomastica antiquaria, ma ancora viva in certi lembi di provincia italiana; alcuni lettori potrebbero poi dimostrarsi particolarmente sensibili al ritmo ipnotico della sintassi, quasi latineggiante: frasi incise nel bianco della pagina, brevi e modeste nel loro respiro ma capaci di una certa, nascosta, solennità; tanto dense e calibrate quanto lontane da quella ricerca dell’effetto poetico che altri scrittori amanti del laconismo ostentano così spesso come garanzia di letterarietà.
In passato, mi sono personalmente appassionato al localismo spinto di questo autore così schivo e riservato: perché in tempi di globalizzazione mi pareva (e mi pare ancora) ammirevole la scelta di orientare la propria esistenza e le proprie scelte letterarie all’interno di coordinate spaziali a portata di mano, o di piede, per così dire. Raccolte nel circuito limitato di qualche vallata, di un preciso distretto geografico (la Garfagnana, l’Appennino tosco-emiliano), non perciò segnate dal terrore claustrofobico di chi deve sempre e comunque evadere: perché una ricerca “intensiva” nello spazio di un territorio famigliarizzato da anni di frequentazione e perciò intimamente conosciuto (e conosciuto, anche, nel suo divenire secolare) è esattamente il contrario dell’espansione azzardata, effimera e scivolosa di noi tutti consumatori di trasvolate low-cost e di scenari cosmopoliti. Anche per ragioni apparentemente così poco letterarie possiamo amare Pardini. E per molte altre che le dimensioni di questo articolo non permettono di formulare.
Ce n’è una però, che è in qualche modo la matrice di tutte; c’è una qualità specifica che lo colloca in una posizione assolutamente originale, in uno spazio culturalmente marginale perché troppo decisamente segnato dal rispetto delle proprie regole idiosincratiche. C’è una peculiarità che presiede alla scrittura di Pardini e che mi sembra unirlo sotterraneamente a personalità oscure e certosine, a creativi monomaniaci e “fous littéraires” di varie epoche e nazioni, a individui, in ogni caso, profondamente persuasi. Questa particolare dimensione dello spirito si manifesta anzitutto, nei suoi libri, come zoofilia. Dall’inizio degli anni ottanta Pardini ha scritto costantemente, instancabilmente, racconti più o meno brevi. Sono più di un centinaio, credo: molti di questi sono oggettivamente memorabili (e trovo del tutto condivisibile la scelta di Enzo Siciliano di inserirne uno, a suo tempo, nel Meridiano dedicato ai racconti italiani del ‘900: Pardini è senz’altro uno dei nostri maggiori novellieri); ognuno di essi vede al centro della propria trama la presenza emblematica di un animale, a volte di molti animali.
Visto dall’alto, si profila un corpus testuale del tutto unico nel suo genere, un bestiario narrativo credo senza uguali nella storia della letteratura occidentale. E se non fosse il carattere quasi monumentale di una simile opera di esplorazione sistematica del mondo animale; se non fosse la quantità abbastanza impressionante di storie di bestie (che sono sempre anche, anzi soprattutto, storie di uomini) che Pardini continua ininterrottamente a produrre nei ritagli di tempo concessigli dal suo lavoro notturno (come notturni sono molti dei recessi del suo immaginario, e molti dei suoi animali); sarebbe ancora l’intensità di questo dialogo, di questo confronto con l’animalità che ci dovrebbe convincere di avere a che fare con uno scrittore, e con un’opera, di grande valore.

Si potrà dunque cominciare dalla fine, e leggersi questo Viaggio dell’orsa recentemente pubblicato da Fandango (ultima ad avere accolto un autore che probabilmente ha scontato anche in termini di visibiltà certa dispersione editoriale: esordisce con Mondadori, poi Bompiani, quindi Quiritta, Giunti, Laterza, Pequod, Transeuropa): dove tre lunghi racconti e cinque più brevi ci presentano altrettanti animali intenti a rimettere l’umano nel posto che da sempre gli spetta e che troppo spesso ha dimenticato di abitare, intento com’era ad architettare sofisticate “macchine antropologiche” (per dirla con Agamben): arrovellandosi sulla propria presunta, e per lo più nociva, unicità nell’ordine del “creato”.
La vendetta occupa forse perciò, in questa pagine, una posizione centrale: vendetta dell’orsa che dà il titolo al libro, cui viene sottratto un cucciolo per onorare un accordo stipulato tra il Duca di Ferrara (siamo nel XV secolo) e certi pastori garfagnini; o vendetta di un lupo braccato da un tetro e sanguinario cacciatore, sotto lo sguardo dubbioso dell’allora commissario ducale di Castelnuovo Garfagnana, messer Ludovico Ariosto. L’immersione storica, preponderante nell’ultima raccolta, si spinge fino a passati remotissimi: un racconto sorprendente ci mostra il rapporto tra un aruspice etrusco capace di misteriose “bilocazioni” e un piccione viaggiatore, al tempo delle prime invasioni romane nel centro Italia. Parzialmente, ma solo parzialmente, esterno ai confini abituali dello scrittore, è lo splendido racconto dedicato alla pantera nera che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta si aggirava tra Lazio e Toscana, abitando volentieri gli anfratti della periferia urbana della capitale. Fu lei che diede il nome al movimento di protesta studentesca nato allora. La lunga caccia alla fiera è occasione per un’avvincente e visionaria rappresentazione dell’Italia di quegli anni, tra servizi segreti deviati, bande criminali e sotterranei del Vaticano pieni di macabre sorprese (bellissima, di una bellezza che non saprei definire, la scena dell’incontro della pantera con il papa, nei giardini vaticani).
Ancora le violenze umane sugli animali sono al centro del racconto dedicato alla mula bianca Serague, o dell’ultimo, lungo e aggrovigliato, dove un gufo reale viene preso di mira da un bracconiere psicopatico: quasi un piccolo romanzo noir, à la Pardini ovviamente.
Un appunto aneddotico, per concludere: ho conosciuto personalmente questo scrittore pranzando in un ristorante vicino casa sua, nell’Oltreserchio. Visto che non sceglieva carni gli ho domandato se fosse vegetariano. “No”, mi ha risposto senza esitazioni “non mangio gli animali. Farlo sarebbe assurdo, visto che li considero miei pari”. Rifiutando l’etichetta, io credo senza nessun genere di snobismo, Pardini rivendicava all’origine del suo comportamento alimentare motivazioni di ordine privato, per lo più ineffabili. Quello compreso nei suoi libri è certo un mondo che riguarda da vicino la sensibilità animalista, anti-specista, contiguo all’etica del vegetarianismo, ma che precede tutto questo: è pre-categoriale, o pre-giuridico, per così dire. La letteratura è da sempre un luogo deputato a esprimere pulsioni che non tollerano il controllo delle dottrine e delle formulazioni teoriche. Anche perciò, forse, molti dei racconti di Pardini sono così precisi, e così belli: perché emanano direttamente dal centro incandescente di una motivazione informe, indomita; perché seguono uno slancio fortissimo che si avvicina, immagino, a quello di chi abbraccia una religione, di chi cerca salvezza. Che la salvezza dell’uomo possa essere custodita dagli animali, non è soltanto lo scrittore della Garfagnana a pensarlo: “Salvatico” ha scritto ad esempio Leonardo da Vinci “è quel che si salva”.

Commenti
Un commento a “Il viaggio dell’orsa”
  1. pietrino spada ha detto:

    Non conoscevo Pardini, lunedi saro’ in libreria per leggere i suoi libri. La sua presentazione Galanti e’ intrigante. Naturalmente ho letto anche l’articolo su Pubblico Giornale di oggi. Sto scrivendo un romanzo con al centro la Brutta, allegorica manifestazione del Male, in forma animale. Sono certo che leggendo Pardini, trovero’ ispirazione, ma soprattutto, lo sguardo giusto, meno antropocentrico. Grazie anche a lei.
    Pietrino Spada

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