La poca importanza del diventare adulti: No Big Deal di Rachele Salvini

di Armando Vertorano

Quando si tratta di raccontare la post-adolescenza è piuttosto diffusa l’idea, errata, secondo cui essa sia un qualcosa di semplice, una fase per lo più tormentata per chi la vive e da rimpiangere per chi l’ha superata. Scrivere di quel disastroso affacciarsi al mondo adulto diventa allora un territorio scivoloso, irto di cliché, di quegli eterni ritorni narrativi di cui spesso non si riesce a fare a meno anche perché continuano innegabilmente a funzionare. La confusione identitaria, gli eccessi, gli amori finiti male, la musica, le fughe dalla realtà, sono bene o male quello che ci aspettiamo da un romanzo i cui protagonisti hanno 18 anni o giù di lì.

Il romanzo d’esordio di Rachele Salvini, uscito ad aprile per Nottetempo, non fa eccezione: gli elementi sopracitati ci sono tutti eppure a un’attenta (psic)analisi del suo racconto essi non rappresentano il fulcro sostanziale, come se ai fini ultimi del libro non fossero niente di davvero importante, No Big Deal, come recita il titolo.

Questo perché nonostante la presenza di cliché non siamo di fronte a un romanzo-cliché.

I primi capitoli sembrano quasi illuderci: ascoltiamo i due protagonisti, le due “voci” del romanzo, nel loro percorso dalle scuole medie al diploma. Da una parte c’è Lena, probabile alter-ego dell’autrice, adolescente con famiglia disfunzionale, cresciuta in una Livorno che, pur puzzando di pesce e di provincia, insiste nel farle credere che quella sbagliata, quella fuori posto, sia lei. Dall’altra troviamo Dixon, scozzese trasferitosi a Londra, un’altra adolescenza sbagliata al posto sbagliato, che alterna manifestazioni di rabbia repressa ad atteggiamenti da scusate-se-esisto. Due personaggi speculari a cui il lettore immancabilmente si affeziona, già immaginando che – nella migliore tradizione del teen-drama – i due finiranno per incontrarsi e innamorarsi.

Effettivamente s’incontreranno nella seconda parte del libro, ma è qui che Salvini inizia a scoprire le carte, e più ci addentriamo nella loro storia, più ci appare chiaro che l’autrice non intende regalarci una lettura leggera, una rêverie nostalgica di quando eravamo giovani, drogati e rock’n’roll.

Lo stesso ruolo della musica va contestualizzato: No Big Deal non si svolge negli anni ’70 o ’80, siamo nel 2017, epoca storica in cui il rock non è più padrone indiscusso della scena musicale, ha smesso di essere il canale preferenziale della rabbia giovanile. Tra i gruppi citati e ascoltati dai protagonisti ci sono quasi sempre nomi che emergono dal passato, dagli anni ’70, ’80 e ’90, qualcosa dei 2000, ma poco o nulla della loro contemporaneità. Questo perché sono anni in cui il rock sopravvive nella cosiddetta scena indie, un panorama vasto ma pur sempre di nicchia, a cui appartengono anche i (No Big Deal), l’immaginaria band in cui Dixon comincia a suonare e le cui vicende occupano una fetta importante del romanzo. Il nome della band stando al racconto ha altre origini, eppure quel modo di dire, unito alla scelta stilistica delle parentesi, sembra riflettere il ruolo sempre più marginale del rock nonché preannunciare l’amaro destino della band stessa.

Tornando al romanzo, se le disavventure amorose, sessuali e professionali di Lena, Dixon e degli altri personaggi – tutti accomunati da una situazione familiare molto difficile – se i loro stereotipati tentativi di fuga dalla realtà attraverso droghe, tradimenti e speranze di successo non sono davvero importanti, cos’è allora che conta davvero? Qual è insomma il Big Deal nascosto tra le pieghe di questa storia?

Si ha la netta sensazione che Rachele Salvini voglia raccontarci qualcosa di più profondo, anche se in prima battuta è difficile capire cosa. Al classico romanzo di formazione sembra preferire una sorta di antitesi, che potremmo definire di anti-formazione o volendo esagerare, di mal-formazione. Non asseconda e non assolve i suoi personaggi, neppure li condanna apertamente, eppure man mano che proseguiamo nella lettura essi smettono di essere i perdenti da manuale, quelli con cui il lettore empatizza, per diventare dei perdenti drammaticamente veri, persone che possiamo capire ma che non riusciamo più a difendere del tutto. Perché se è vero che la famiglia e il contesto hanno sempre un ruolo sostanziale nel disagio personale di chi ci cresce, è anche vero che essi rappresentano la propulsione principale alla fuga e all’emancipazione. Una volta tagliati i cordoni familiari però il ragazzo è solo, e in quanto tale non è più un ragazzo, le scelte che fa diventano un qualcosa che lo identifica come persona e tutto ciò che si è lasciato alle spalle, per quanto brutto, non lo giustifica più.

Lena, Dixon, Ale, Clive, Kurt sembrano dare diverse risposte a quella che forse è la domanda più importante che sottende al romanzo, e che rappresenta in qualche modo la vera chiave di quel delicato passaggio esistenziale che porta all’età adulta: cos’è che davvero ci dà valore in quanto persone? Cosa è in grado di stabilire se io come adulto neo-formato, fuggito rocambolescamente dall’adolescenza, valgo qualcosa o sono – come tutti sembrano voler dimostrare – un loser?

Lena affida il suo valore alla realizzazione sentimentale, al trovare un uomo che la ami per quella che è, che non guardi i suoi chili di troppo e il suo non essere canonicamente attraente. Dixon si accorge che suonare in una band lanciata verso il successo non gli basta e, ancora una volta specularmente a Lena, trova il suo valore solo nella conquista di donne che in teoria non dovrebbe e non potrebbe avere: le ragazze degli amici.

Per Clive, il dittatoriale leader della band, figlio di un’indifferente famiglia ricca, essere un vincente significa affermarsi come musicista, lui vuole il successo a tutti i costi, come se fosse qualcosa di dovuto. E poi c’è Ale, il vero grande perdente del romanzo, best friend e compagno di band di Dixon, l’unico che la questione cruciale non ha nemmeno il coraggio di affrontarla e preferisce annegarla nelle sostanze, impedendo di fatto a sé stesso di diventare adulto.

No Big Deal è allora una storia di ragazzi ma non per ragazzi, che quasi costringe il lettore già cresciuto a mettere in discussione la sua falsamente spensierata giovinezza, e ripensare al suo di valore, nelle mani di cosa lo ha messo, sotto quale spinta è diventato adulto e che tipo di adulto è diventato. Rileggere la propria formazione come anti-formazione, vedersi per una volta non come il protagonista di uno show che ha tutti i riflettori puntati addosso, ma come un no big deal qualsiasi.

Al termine del romanzo la stessa Lena è ancora lontana dall’essere una persona risolta. Nelle ultime righe sembra rivelarci che nulla di quanto ha passato, fra traumi vecchi e nuovi, sta contribuendo a definirla. Ascoltando la sua voce fino alla fine ci rendiamo conto che forse superare l’adolescenza e la post-adolescenza non significa trovare delle risposte, ma arrivare alla consapevolezza che quelle risposte non sono mai esistite o che, quanto meno, non sono semplici come sembravano.

Anzi sono così complesse e sfaccettate che per guadagnarsele diventare adulti non basta.

 

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