Uomini che copiano le donne

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(La foto è di Garry Winogrand)

di Giacomo Buratti

Bimbo negro, / guarda le stelle, guarda la luna, / guardale e le vedrai / come ogni bimbo bianco le vede. / Però noi, uomini bianchi, / uomini bianchi cattivi e crudeli, / non crediamo / che tu veda le  stelle e la luna / come le vediamo noi; / solamente perché tu, / fratello negro, / solamente perché tu sei negro / e noi siamo bianchi.

(E. Mozzicone, Bimbo negro, in Topolino, n. 937, 1971)

Nico Muhly, il compositore, non si capacita del fatto che un’artista da mezzo milione di dollari come Beyoncé non ne sborsi quattromila per una vera sezione d’archi. Una taccagneria che considera «un insulto» in relazione al talento coinvolto nella registrazione di Superpower, la dodicesima traccia di BEYONCÉ.

La canzone porta la firma di Pharrell Williams, Frank Ocean e Beyoncé ed è stata descritta come il tentativo di questi ultimi due di scrivere la loro versione di Man in the Mirror, il singolo estratto da Bad nel 1988 che racconta la trasformazione di Michael Jackson in Lady Diana.

Prima del martirio autoindotto che gli ha garantito la glorificazione post mortem di rigore per le principesse del popolo, Jackson, cresciuto nella comunità afroamericana infusa di cristianesimo che vedeva e in certi casi ancora vede l’omosessualità come «a kind of whiteness» (H. Als, Michael), aveva scritto nel 1981 la hit di Diana Ross Muscles, che faceva «(just make him beatiful)… I want muscles / all over his body».

Frank Ocean, che alla vigilia della pubblicazione del suo album di debutto rivelava di essere bisessuale evidentemente per evitare che versi quali «You run my mind, boy» venissero fraintesi, certo non ha bisogno di scrivere per una donna per parlare liberamente dei suoi desideri. Tuttavia le atmosfere di Superpower allontanano la canzone da inni LGBT in cui rapper bianchi eterosessuali prima raccontano di aver pensato di essere gay perché lo era suo zio e da piccoli sapevano disegnare, poi vengono rassicurati da madri che spiegano loro, nel giro della stessa strofa, che vanno dietro alle ragazze da quando erano all’asilo nido.

Il senso qui è rifratto in una serie di immagini che ritrovo nel saggio (che non è veramente un saggio) che apre White Girls, intitolato Tristes Tropiques, in cui Hilton Als dettaglia la sua relazione con un uomo che chiama SL, cioè «Sir or Lady», perché è tutt’e due pur essendo un maschio che ama le femmine, oltre che lui.

Lo specchio che mostra un’immagine uguale e diversa da te stesso, come quando ti vedi riflesso in un altro, come Adèle della Vita di che del ritratto che le ha fatto Emma dice che è strano perché è lei e non è lei – questa è la metafora che sostiene la prima strofa della canzone, e che torna più volte in Als come sintesi del suo rapporto di gemellaggio (twinship) con SL.

Beyoncé/Ocean:

«And when I’m standing in this mirror / after all these years / what I’m viewing is a little different / from what your eyes show you. / I guess I didn’t see myself before you».

Als:

«SL e io eravamo la sala degli specchi l’uno dell’altro».

«Non posso guardare me in quanto me stesso senza vedere lui».

«Come ballerini, nessuno di noi dimentica la figura che vede nello specchio della sala prove: se stesso. Scegliere il tuo gemello ti dà quel riflesso per sempre – o finché dura. Forse SL mi lascerà, per un motivo o per un altro, ma non se ne andrà mai: vedo me stesso in lui e lui in me» (le traduzioni sono mie, abbiate pietà).

Liberace (Michael Douglas) costringe il suo amante (Matt Damon) a ricostruirsi la faccia a sua immagine e somiglianza. Prima di ridefinire il suo volto come quello di una donna bianca (che aiuta i bambini negri che muoiono di fame), guardandosi allo specchio Michael Jackson realizzava di essere stato vittima «of a selfish kind of love», uguale e opposto al «tough love» che è il superpotere che permette a Beyoncé e Ocean di piegare la legge.

Nel video di Superpower i violini sintetici, uguali e diversi da quelli veri, accompagnano la marcia della cantante, che fa coppia con una persona di cui sono visibili solo gli occhi (da donna) e le mani (da uomo), mentre alla sua destra e alla sua sinistra Kelly e Michelle riflettono la sua immagine senza essere lei – un’immagine, già che c’era, di una Beyoncé più giovane, ché dai tempi delle Destiny’s Child sono passati più di diec’anni.

Rise, rise, Ludovico XIII comprendendo il suo terrore. «Ma che! ma che! grulla! ah! che grulla! ma che! stupida! Non ci credi? Vedrai, vedrai, poi, ti farò vedere. Ora quando ci spogliamo, vedrai, vedi, se mi tolgo questa corazza che mi serra sono come te, ce l’ho anch’io il seno, guarda, come il tuo, tutto come te, sì, le poppe, come te, più belle delle tue, vedrai, grulla!»

(A. Palazzeschi, Il Re bello)

Della stessa generazione di Michael Jackson, Hilton Als ha sette anni quando gli occhi di Katharine Hepburn si riempiono di lacrime scoprendo che sua figlia vuole sposare un negro che deve essere un luminare della medicina bello e vedovo per permettersi una ragazza bianca. Ne ha venti quando essere gay a New York significa, come la mette lui stesso, finire in un sacco nero del coroner. Si capisce come verbalizzare il proprio desiderio, il problema al centro del primo saggio e veramente di tutto il libro, sia una questione di vita o di morte.

Sia lui che SL venerano ragazze bianche come Diane Keaton in Io e Annie, che esprimono goffamente i loro sentimenti ma alle quali, in virtù del loro statuto, non viene negato nulla. La rottura, o almeno una delle cause della fine della twinship, sta nel fatto che SL agisce i suoi desideri, mentre Als li vive nelle trame dei film che SL gli racconta: «the movie guy kisses the movie girl and they are one».

«Sono convinto che le storie dei film di Sir or Lady siano il suo modo di dirmi che lui e io siamo uno». Parlare del proprio desiderio attraverso prodotti culturali è quello che Als, cultural critic, fa di mestiere. Il passo successivo consiste nel parlare di se stesso come individuo più grande della somma di libri film arte musica che sono parte di lui. E questa è il processo che vediamo svolgersi in White Girls. Processo che non può non avere come base la (ri)appropriazione di una lingua.

Già in Tristes Tropiques si legge: «SL e io siamo entrambi cresciuti sentendo che la lingua che parlavamo era in qualche modo incomprensibile o confusa [fuzzy] per le persone attorno a noi». Ma è nel confronto con le due parti del dittico su Richard Pryor che si sente tutto il peso che Als attribuisce a “significare”. Il primo saggio, A Pryor Love – originariamente pubblicato nel 1999 –, che ha tutte le osservazioni penetranti e insieme quell’autorevolezza dei profili del New Yorker che distanzia l’autore dal suo soggetto, si conclude sulla constatazione più o meno amara del fatto che il carisma iconoclasta del comico Richard Pryor è rientrato nello status quo diventando a sua volta l’icona Richard Pryor.

Il secondo è tanto difficile definirlo saggio che è stato chiamato direttamente novella, alla sua prima apparizione. You and Whose Army? è il racconto in prima persona della sorella senza nome di Pryor (inventata o no ancora non l’ho capito, ma davvero non importa), che parla, tra le altre cose, di Richard, dell’autore e attivista James Baldwin e del suo rapporto con l’attrice Diana Sands (definita «Cancer Bitch»), di Virginia Woolf (definita «Suicide Bitch»), della Metamorfosi di Kafka e di Fran e Gary, una coppia creata o no dalla narratrice («La conosco così bene», dice di Fran, «che me la potrei inventare e sarebbe lo stesso non-fiction») protagonista di una versione black della Prigioniera di Proust.

Questa sorella di Pryor, che voglio chiamare Negress perché è così che si identifica lei, di lavoro fa, quasi dimenticavo, la doppiatrice di film porno. Il che non le impedisce di candidarsi come miglior interprete della lettura di Gertrude Stein e di definire l’inglese la sua seconda lingua: «o, per metterla in un altro modo, ho fatto dell’inglese una forma di americano che gli altri americani non parlano, perché per loro la storia e la genetica non si incontrano nel punto in cui confluiscono per me».

Il rapporto tra chi siamo e chi diciamo di essere, al contrario di quello tra qualunque altro significato con qualunque altro significante, non è (volendo) arbitrario. Ma per essere in grado di dire chi siamo dobbiamo conoscere le parole a nostra disposizione, altrimenti rischiamo di scomparire o di vederci affibbiata un’identità che non è la nostra. Il primo caso è quello di Fran: «Parole e segni per noi incomprensibili annientano noi stessi, perché non possiamo provare di esistere in una lingua che non capiamo». Il secondo caso è quello del fratello di Negress: «Se la vita di Richard dimostra qualcosa, è come i bianchi possano farti impazzire dicendoti cosa sei: troppo grasso, troppo pigro, troppo amorevole, troppo pericoloso, troppo vicino, troppo politico, troppo silenzioso, troppo drogato, troppo loquace, troppo generoso, troppo rumoroso, troppo ubriaco, troppo forte, troppo sensibile, troppo crudele».

Il secondo caso è anche quello, emblematico, della madre di Malcom X, che nell’Autobiografia di Malcom X si chiama Luise e in Malcom: The Life of a Man Who Changed Black America si chiama Luisa. Che poi è il caso di molte delle madri e di qualcuno dei padri dei personaggi ritratti nel libro (Eminem, Michael Jackson, Flannery O’Connor), ai quali i figli (quindi Als) sembrano sempre rimproverare l’accettazione passiva di un ruolo (quindi di un nome). Il rapporto coi genitori, il primo specchio che ci troviamo davanti, non è facile se è fatto di parole in cui non vogliamo o non possiamo riconoscerci, se la lingua madre non riflette i figli. «Il momento più spaventoso di Psyco», dice Negress, «[è] quando Vera Miles, cercando la sorella che non trova più, entra in una camera da letto e è presa alla sprovvista dal proprio riflesso nello specchio».

Non riconoscere la propria immagine riflessa nella lingua è la parte più spaventosa. Del resto, come si fa a parlare di sé con parole che codificano un mondo a cui si sente di non appartenere? Leggere, scrivere, andare al cinema sono tutte risposte, ma non posso essere La risposta. In Tristes Tropiques (un titolo rubato a un altro libro) Als si rende conto che vive la vita a metà solo per vivere davvero scrivendone. In You and Whose Army? la biblioteca diventa il luogo in cui James Baldwin trova se stesso ma perde il colore della sua pelle: «Sembri bianco – è così che Papà e i miei fratelli dicevano dopo che avevo scoperto un edificio di bugie: la biblioteca. Sono andato in biblioteca e ne sono uscito bianco».

La letteratura come menzogna. La propria vita costruita sulle biografie altrui. «Se esistevo era ricordandomi il testo della vita di qualcun altro», dice di sé Als nel pezzo che chiude la raccolta, It Will Soon Be Here, in cui finalmente La risposta sembra venire alla luce, da dietro il muro dei ricordi confusi (memory misremembered): accettare il lessico famigliare, rivendicare un proprio spazio al suo interno. Venire a patti con quella volta in cui insieme a tua madre sulla metro avete visto un bambino uguale a te ma vestito da donna e lei ha bisbigliato «Frocio».

Secondo me la diversità è la parola più bella del mondo.

(Margaret Mazzantini a Fabio Fazio che le chiedeva perché avesse raccontato nel suo ultimo romanzo la storia «di un amore omosessuale», Che tempo che fa, 21 dicembre 2013)

All’inizio di Philosopher or Dog?, Als scrive: «Alcune parole trovano la loro definizione nelle esigenze del tempo, giusto? E di solito le parole definite dalla loro epoca diventano parole molto stupide. Le parole che oggi definiscono la nostra epoca sono diversità e differenza. Definizioni appropriate di queste parole sono “irrilevante” e “chissenefrega”».

Quando a scuola gli facevano leggere i poeti del canone, da quale idea di differenza sarà stato affascinato Als? Da quella onnicomprensiva e onnivora, Americana (ovvero bianca), di Walt Whitman, Lady Liberty con la barba? Da quella, fatta di trattini, di una ragazza bianca che parla con la sua vicina via posta pur di non uscire di casa e poi scrive: «My Life had stood – a Loaded Gun»?

Due volte, quasi alla fine e quasi all’inizio del libro, torna la stessa frase: «Le metafore ci sostengono». Il linguaggio è lo specchio, il gemello uguale e diverso – avremmo avuto Jekyll e Hyde se R.L. Stevenson non avesse saputo che c’è un tipo di specchio che in francese si chiama psyché?

A un intervistatore che gli chiedeva se adesso non fosse la scrittura il suo gemello, Als ha risposto di sì. Quando poi gli ha chiesto una volta per tutte come chiamare la sua raccolta di essays, ha risposto: «Facciamo romanzo. È più facile».

Nonostante parli, tra gli altri, di Truman Capote, Luise Brooks e André Leon Talley, White Girls è veramente un Bildungsroman. Dopo tutto, per coming out e coming of age si usa lo stesso verbo.

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Un commento a “Uomini che copiano le donne”
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  1. […] Hilton Als, un libro che non so se verrà tradotto in italiano ma spero proprio di sì. L'ho fatto qui. Di seguito c'è un estratto spoiler […]



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