Restare al buio. Un concerto di Daniela Pes

A fine concerto dei ragazzini si guardano tra loro e fanno: “Pazzesco, ma cos’abbiamo visto?”. Per la verità c’è un’aria strana in tutta la piccola sala che ha ospitato la data tarantina del tour di Spira. Ho la sensazione che molta gente sia venuta senza sapere granché di Daniela Pes, o forse senza aspettarsi dal concerto nient’altro che non fosse la riproposizione dal vivo di un disco di suo molto intenso. Invece sono come trafitti, attraversati da qualcosa che in genere non si sperimenta nella vita quotidiana.

Di Daniela Pes sapevo poco anch’io, e vorrei lasciare le cose così. Sì, la Targa Tenco, la produzione di Iosonouncane, la lingua inventata a partire dal sardo. Ma non è importante. Quando ho ascoltato per la prima volta Spira, l’estate scorsa, è come se un fulmine m’avesse colpito in pieno. L’ho sentito nel petto, come sotto palco i bassi che ti vibrano addosso in accordo col cuore, e ti pare che batta per la prima volta. Ci sono dei movimenti di Spira che ti portano altrove, su un piano astrale e tribale in cui lo spazio, il tempo e la materia si mescolano e una voce sussurra che è quella la vera natura delle cose. Il casino da cui è nato l’universo – un comico equivoco di proporzioni cosmiche – il suo nascere e morire di continuo: quella è la vera natura di tutto, di ogni cosa, è la stessa sostanza di questa musica.

Questi movimenti di Spira, che sono movimenti anche tristi e intimi, burrascosi e vitali insieme, questi movimenti Daniela Pes riesce a replicarli anche dal vivo, in trio, in un flusso elettronico continuo e arrembante. Non c’è un attimo di pausa nel suo concerto di appena un’ora. C’è l’ipnosi del sarto chino sul capo, la glossolalia della posseduta, l’invocazione a divinità di pietra. È un’ora strappata alla vita di ogni giorno. Alle sue miserie, alla sua volgarità. Tutto è corrivo e inutilmente piatto, al confronto con un’esperienza del genere. Molta musica, non tutta, ha il pregio di riportare a contatto col sacro un pubblico secolarizzato, che non crede più a niente (ma non è vero) se non alla propria esistenza di consumatori. Ecco, Daniela Pes riesce a fare questo. Riesce a farlo adesso che ha trent’anni e una manciata di ottime canzoni alle spalle, e mi chiedo cosa sarà tra altri vent’anni e qualche disco in più.

Ma non è importante nemmeno questo, in fondo. Quando suona, Daniela Pes non ha venti o trenta o quaranta o novant’anni. Esiste da sempre. Allo stesso modo, la potenza di un disco (e di un concerto) come Spira sta nel fatto che è un’esperienza assoluta: vive di suo, nella sua irripetibilità non ha bisogno di essere spiegata, inserita in un contesto, inquadrata in un genere. È musica che parla a una parte di te sopita, e se non è sacra è quantomeno rara. Non perché i tempi non consentano esperienze e forme espressive simili, ma perché contatti di questo tipo sono sempre rari.

Certo viviamo un’epoca parecchio normativa, in cui tendiamo a rinchiuderci da soli in categorie – anche qui, per lo più di consumo – replicando una lingua che viene dal digitale. Tecnicamente sì, Daniela Pes digitalizza e frammenta suoni della tradizione in campioni, loop, beat e compagnia. Ma li terrorizza col suo canto, li eleva a misura di un’esperienza che eccede la sua stessa interprete – figuriamoci chi l’ascolta. Viene da chiedersi cosa farne, di questa esperienza che ci eccede, ci attraversa, trabocca dai nostri corpi dopo aver sperimentato Spira – per la verità, la domanda vale per tutte le forme d’arte che non si limitano a specchiare la realtà per quello che è. Dovremmo aspettarci una trasformazione, o quantomeno la trasfigurazione della nostra vita in qualche cosa di diverso. Di più estremo o assoluto, forse. Di meno ovvio e prevedibile. La verità è che se lo sapessi non cercherei questo tipo di esperienze. Se avessi le risposte, o se anche solo le cercassi, non mi sottoporrei all’ascolto di un disco come Spira.

Questo perché a Spira ci si sottopone e in parte ci si sottomette. Io non voglio essere Spira, non voglio essere Daniela Pes o l’artista che viene a stravolgermi la vita per il tempo di un disco o di un concerto. Ho bisogno di credere che esistano artiste e artisti simili, e che non siano me. Che siano migliori e soprattutto ben separati da me, mentre cantano e ipotizzano la possibilità dell’unione e della fusione con l’altro. Ma se in ultima battuta Spira avesse completamente ragione di me e della mia vita, se eliminassimo in modo permanente il brutto e il banale dalle nostre vite, non avremmo bisogno di esperienze simili. Sarebbe un paradosso, un cortocircuito imperdonabile, sarebbe una perdita grave e imponderabile.

Normare è anche normalizzare. È l’elaborazione di un lutto che proviene dal contatto prolungato con una dimensione altra, non importa se triste o gioiosa. A fine concerto, mentre i ragazzini dicono “Pazzesco”, alcuni adulti sembrano più razionali. “Mi ha ricordato questo, mi ha ricordato quest’altro”, e così mentre pensano di parlare come grandi critici musicali sembrano invece allineati ai suggerimenti di Netflix o Amazon (“se ti è piaciuto questo, prova quest’altro”). Ci sta, normalizzare l’incontro con lo straordinario quando si è ormai in uscita da una soglia, alla fine del concerto. Non ho pretese a riguardo. Ma è nel mentre che è insopportabile la luce degli smartphone, la ripresa pressoché integrale dell’esibizione.

Non è un brontolio da vecchio trombone, il mio, visto che proprio gli adulti sono quelli che più si fanno metaspettatori di un concerto. Il fastidio ultimo, oltre a quello d’aver pagato per uno spettacolo che rischia di svolgersi integralmente sugli schermi altrui, proviene dall’utilizzo del telefono come frapposizione di un filtro, di una barriera tra noi e l’incontro con l’altrove: un problema di fondo con la gestione delle proprie emozioni. Come esseri tecnologici e razionali, ci converrebbe ammettere, con altrettanta razionalità, che abbiamo sempre bisogno di una certa quota d’irrazionale per comprendere le cose. Per non spiegarcele del tutto. Restare al buio deve far paura, se si vuole sperimentare la luce.

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